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Give it a name

Lo dico subito: per una volta, la prima volta forse, è valsa la pena di farsi lo sbattimento.
Alla luce dei fatti quindi posso smetterla di darmi del coglione poichè non è vero che un festival con diverse band di questo tipo debba forzatamente venire fuori una merda.
Un festival di questo tipo può anche venire bene, con dei buoni suoni e delle buone performance.
Questo inevitabilmente aggrava molto i giudizi (peraltro già non fantasmagorici) sulle manifestazioni precedenti, ma almeno mi dimostra che crederci e partire per un concerto alla distanza complessiva di 450 km non è una pirlata a priori.
Ok, questa pera di autoconvinzione era doverosa, ora posso commentare il concerto.
Give it a name II @ Estragon (Bologna).
Taking Back Sunday, Underøath, Thursday, Escape the Fate, Emery, InnerPartySystem e Your Hero.
30 sacchi di ingresso (senza prevendita), 23 di casello, 40 di benzina e 5 di piada del voncione con annessa acqua.
Ok, la riga qui sopra cozza un po’ col mio tentativo di smetterla di darmi del pirla, but who cares?
Sono partito da Milano alle 16 in punto sperando di evitare il traffico qui e possibilmente anche quello sulla tangenziale bolognese. Il piano può dirsi riuscito poichè anche a destinazione non ho praticamente mai fatto coda e così alle 17.50 ero già in fila alla biglietteria dell’Estragon.
Viaggiare da solo in macchina per qualche ora è sempre una bella esperienza. Musica in sottofondo, strada sgombra e tanto tempo per stare con sè stessi sono una situazione che, ogni tanto, mi concedo volentieri.
Giunto in loco ho incontrato Safebet ed un suo amico di cui non ricordo il nome, anche loro profughi da Milano, nonchè Uazza il geometra. Con loro tre ho passato poi l’intero live e si sono rivelati una gradevolissima compagnia.
La prima band ad esibirsi sono gli Your Hero, italiani (credo di Roma). Bravi, c’è da riconoscerlo, e nemmeno troppo musicalmente ruffiani visto il contesto in cui erano inseriti. Personalmente li ho apprezzati anche nella parentesi di cordoglio per le vittime del terremoto, mi è parso tutto genuino e quindi da applausi. Fossero stati a Domenica In forse avrei recepito in maniera diversa.
Forse però son solo pippe mentali mie.
I loro venti minuti procedono veloci, trascorrono bene e lasciano la voglia di sentire un altro paio di pezzi quando il set è concluso. Promossi.
I secondi sono gli InnerPartySystem e qui il giudizio cambia, si accorcia: una merda. Oltre ad essere inadatti al contesto mi son sembrati proprio scarsi. Potrei non dico apprezzarli, ma almeno non odiarli se li vedessi live una sera al Plastic, per dire, ma non ne sono nemmeno sicuro. In sostanza venti minuti che durano un’eternità. Bocciati.
Terzo giro, tocca agli Emery. Non li avevo mai visti dal vivo e non li ho mai cagati nemmeno su disco. Alla luce dei fatti non ne sono affatto rammaricato. Mi è parso il classico gruppo nu-emocore come ce ne sono tanti, con l’onestà di chi questa roba la fa più o meno da quando è nata, ma con anche l’aggravante di non lasciare nulla a chi ora, con un background che non sia proprio zero sull’argomento, li sente per la prima volta. So per certo che ai fan di vecchio corso, Safebet è uno di questi, non sono affatto dispiaciuti quindi probabilmente il set non è stato male. A me però non hanno detto niente. Ad essere onesti anzi li ho trovati un po’ vuoti di suono e di voce, ma non credo di avere materiale a sufficienza per valutarli. Senza voto.
E’ il turno degli Escape de Fate. Io li odio essenzialmente perchè la loro presenza ha reso l’intero festival una gigantesca puntata di TRL. Io non ho nulla contro le mode dei giovani, anzi, però trovo questa nuova ondata di ragazzini confezionati nei jeans aderenti onestamente inguardabile. Ecco, il gruppo in questione incarna in pieno il giudizio espresso sul suo pubblico. Prima ancora che iniziassero a suonare, già trovavo irrispettoso il fatto che loro, a metà della scaletta del festival, si permettessero di arredare il palco con scenografie da far impallidire gli Iron Maiden (che almeno queste tarrate se le fanno ai live dove sono headliner). Una roba imbarazzante, se si pensa ad un gruppo che si limita a fare peggio di altri un genere che ha iniziato a stufare già da diversi anni. Il fake metal modaiolo è già di suo un genere discutibile, persino quando a proporlo sono i gruppi che l’hanno inventato, figuriamoci se a suonarlo son quattro ragazzini. Oltretutto, musicalmente parlando, gli Escape the Fate sono veramente quattro (il cantante non lo considero nemmeno) incapaci. Suoni osceni, assoli fuori tempo e basso praticamente inesistente fusi in una performance che avrei ritenuto opinabile anche al concerto annuale delle scuole monzesi. La chicca però era il secondo chitarrista: un trentenne nascosto dietro la scenografia credo perchè non sufficientemente poser per essere ammesso di diritto nella band. Vabbè, il giudizio è scontato: bocciati, anzi espulsi proprio dalla scuola. Vederli dal vivo ha fatto poi sorgere in me una considerazione. Questi gruppi per teenagers in america vanno fortissimo e fino a qui nulla di nuovo. Vanno fortissimo anche in Italia, talmente forte da sdoganarsi come musica e come look perfino a MTV. Perchè allora i gruppi italiani che son voluti salire in corsa su questo treno si son presi solo il fattore estetico? Perchè i teen-emo-posers italiani, abbigliamento escluso, sono rimasti musicalmente inchiodati al pop anni sessanta? Perchè testi e arrangiamenti dei Lost, per fare un nome, potrebbero essere benissimo farina del sacco di Dodi Battaglia? Gli Escape the Fate almeno, pur risultando credibili quanto Krusty il Clown che recita Shakespeare, cercano di proporre la musica che oggi si rispecchia in quella moda. Mah, disgustorama.
Thursday. Standing ovation.
Devo ammettere che anche in questo caso la mia considerazione nei loro confronti è sempre stata pressochè nulla. Conscio si trattasse di uno tra i capistipiti della corrente musicale nu-emocore gli ho sempre preferito altre band per una mera questione di gusti. L’opportunità di vederli dal vivo però mi incuriosiva e devo ammettere che riponevo su di loro un bel po’ di aspettativa. Mi hanno impressionato. Una potenza di suono indescrivibile, una pulizia difficilmente eguagliabile, voci e cori sempre precisi e puntuali ed una presenza scenica non indifferente: semplicemente perfetti. Con ogni probabilità, la band del New Jersey a fine anno si collocherà tra i migliori live del 2009. Promossi a pieni voti e con la particolare lode di aver dimostrato all’audience cosa vuol dire suonare dal vivo, con buona pace dei ragazzini finto metallari di prima.
A questo punto mancano all’appello due band, quelle per cui mi sono fatto la trasferta.
I primi a presentarsi sul palco sono gli Underøath. 55 minuti di violenza, acustica e visiva, suonati tutti di fila e senza tregua alcuna per lo spettatore. Rispetto all’ultima volta in cui li ho visti, i suoni mi son sembrati più impastati all’interno del caos generale e meno definiti, tuttavia trattandosi di un certo tipo di suono la cosa non guasta. La title track dell’ultimo disco vista live è impressionante, così come “Writing on the walls”, ma nel complesso non c’è stato un solo minuto sottotono all’interno del set. Esattamente come me li ricordavo, esattamente come me li aspettavo: promossi.
Siamo alla fine e, pur dovendo ancora suonare il gruppo che più mi piace tra tutti i presenti, sono già molto soddisfatto.
I Taking Back Sunday si presentano sul palco a chiudere la serata, forti di un nuovo chitarrista (che sul momento mi è sembrato poter essere il buon vecchio Nolan, con conseguente mezzo infarto per la commozione, e che oggi invece ho appreso essere nuovo di pacca), di un nuovo disco in prossima uscita e di un precedente live all’Estragon difficilmente peggiorabile. Forse anche per questo mi sono piaciuti, perchè non mi aspettavo nulla di buono. Adam Lazzara è oggettivamente un incapace, tuttavia il nuovo chitarrista sopperisce bene ed il suono è decisamente vivo, rispetto alla mosceria della precedente occasione. Suonano anche loro un’oretta, proponendo una scaletta che pesca in pari proporzioni da tutti e quattro i dischi, se si conta anche il quarto in uscita. Promossi anche loro, quindi.
Così il concerto finisce e io me ne ritorno a Milano con la mia schiena capricciosa che inizia a dolorare, le orecchie che fischiano e “Una vita nuova” di Fabrizio Coppola che mi tiene compagnia lungo la strada, rilassandomi senza addormentarmi.
Sabato pensavo di aver fatto una stupidata a perdere il live di Joey Cape acustico a Parma, ma con il senno del poi è stato meglio così. Credo che infondo se ci fossi andato non avrei apprezzato appieno, come invece ho fatto ieri sera.
Soprattutto, se ci fossi andato, ieri sera con ogni probabilità sarei stato a casa.
Come sempre più persone mi dicono, sto decisamente invecchiando.

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