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Mark Hoppus

Me lo ha chiesto internet

Ieri su twitter è successo questo:

Ora, chi sono io per oppormi al volere della rete nell’epoca in cui perfino le alleanze di governo devono sottostarvi?
Nessuno.
Quindi, nonostante tutti i miei buoni propositi e le promesse, mi trovo costretto a rivedere i miei piani e recensire NINE, l’ultimo disco dei Blink 182.
Se questa cosa ha un lato positivo è che quantomeno questa sarà l’unica recensione che abbia senso leggere in merito al disco in questione.

Nine è il secondo disco dei Blink 182 con Matt Skiba al posto di Tom DeLonge e se sembra diverso da quello prima è essenzialmente per due motivi: Matt ha ricevuto un minimo spazio in fase compositiva e hanno prodotto i pezzi come fosse un disco dei 30 Seconds to Mars.
MH ha un repertorio che non arriva a cinque linee melodiche e credo si sia accorto che riciclarle ulteriormente (Pin the granade) sia ridicolo. Il problema è che quando prova a tirar fuori qualcosa di diverso, finisce col fare il verso ai Police (Hungover you) e il risultato è anche peggio. Spazio quindi a Matt, che a conti fatti canzoni ne ha sempre sapute scrivere. In Nine quindi finiscono pezzi degli Alkaline Trio (Black Rain), che hanno il pregio di risultare freschi alla fanbase, ma un po’ meno a chi ‘sta roba ce l’ha in cuffia da vent’anni. Il giorno in cui in casa Blink capiranno che invece di spartirsi i pezzi sarebbe meglio lavorarci insieme e mescolare gli igredienti forse non ne uscirà il White Album, ma di certo qualcosa di più interessante. In ogni caso, come direbbe Syrio Forel, “Not today”.
Altra chiave di innovazione su cui si punta sono appunto i suoni alla 30 Seconds to Mars (No heart to speak of) la cui efficacia, nel 2019, è tutta da dimostrare nonostante, questo va detto, un disco come questo Jared Leto non lo metterebbe insieme nemmeno se ci lavorasse da oggi alla fine dei suoi giorni.
Il resto è grossomodo quel che c’era in California (Ransom è sostanzialmente Cynical), sgrossato dal peso di dover fare le canzoncine divertenti e voler parlare solo a gente che non ha più di sedici anni. Due ottimi passi avanti, concettualmente, che però certo non bastano a farmi alzare dalla sedia.
Di contro, in tre giorni avrò ascoltato Nine dieci volte e potrei ascoltarlo altrettante nelle prossime ore senza problemi, fischiettando anche qualche pezzo. Non credo esistano altre band di quel giro ancora capaci di farmelo fare, quindi se vogliamo dire che è un disco superfluo e dimenticabile ok, ma brutto in senso assoluto no, specie per il target di riferimento.
Chiudo su Travis con una notizia buona ed una cattiva: la buona è che riesce ad essere inopportuno e fastidioso solo in un’occasione, la cattiva è che in quell’occasione devasta la traccia migliore di tutto il disco (Remember to forget me).

Mi prendo l’ultima riga per ringraziare Andrea per la pietà mostrata nei miei confronti e tutti i regaz che gli/mi hanno datto corda in questa pantomima.
Cuori grossi.

I vent’anni del disco dei miei vent’anni

Onestamente è difficile per me capire da dove iniziare a raccontare questa storia.
La prima immagine che mi viene in testa è di un ragazzino in macchina che canta più forte che può, ma il volume a cui suona la cassetta è così alto che nessuno potrebbe sentirlo. Sta tornando a casa frustando i cavalli della sua Y10 pervinca, in preda ad un euforia tutta giovanile che potrebbe essere correlata ad una certa ragazza.
Oggi quella cassetta si è persa chissà dove, la macchina è stata venduta, la casa a cui faceva ritorno non è più casa sua e la ragazza ha smesso da moltissimo di essere il fulcro della sua euforia.
In realtà anche quel ragazzino, oggi, non esiste più.

Well, I guess this is growing up.

Dude Ranch esce il 17 giugno del 1997, ma io lo sento per la prima volta nella primavera del 2000, in un negozio di dischi di Monaco di Baviera.
Sto dietro ai Blink dall’autunno del 1999, quando What’s my age again inizia a girare per radio e in tele, ma ancora sono un po’ scettico a riguardo. Orifizio mi passa la cassetta di Enema of the State dicendomi: “Questi sono tipo i Lit.” e io dentro ci trovo alcune cose che sì ed altre che proprio no, quindi sono perplesso.
Nel 1999 il mio gusto musicale fonda su un unico canone stilistico: quanto va veloce la batteria. Ascolto un disco e decido se approfondire o no unicamente in base a quanto spinge(1). Ho dovuto recuperare a posteriori un sacco di roba a causa di quel criterio di selezione, ma non è il caso di parlarne adesso.
Il punto è che Enema of the State non mi forniva garanzie sufficienti a determinare se questi Blinkcentottantadue fossero o meno gente giusta. Facevano video divertenti(2) e i singoli si incollavano in testa, ma stiamo pur sempre parlando del 1999, quando l’integralismo era TUTTO e un gruppo che passava in radio o TV semplicemente non mi doveva piacere(3). Nel giro che frequentavo io c’era questo parere ultra condiviso: “i dischi prima erano fighi e velocissimi, ma poi si sono venduti” e io mi ci aggrappavo abbastanza forte per poter andare avanti a capirne di più.
Il problema è che questi fantomatici dischi prima non li aveva nessuno, o quantomeno nessuno che potesse passarmeli.

Arriviamo quindi a questa benedetta primavera ’00.
Io e Ciccio suggelliamo la nostra supremazia come rappresentanti di classe organizzando la prima gita vera della nostra storia liceale. Cinque giorni a Monaco di Baviera, insieme ad una 4° nota a tutti come “la classe delle fighe” (#truestory). Il primo giorno in loco abbiamo qualche ora libera per le vie del centro ed entriamo in un negozio di dischi, che era più un megastore tipo la Ricordi a voler essere onesti.
La cosa fighissima è che in questo posto potevi prendere un disco qualsiasi dallo scaffale, portarlo in cassa ed ascoltartelo in cuffia per tutto il tempo necessario a farti un’idea. Senza impegno. Io sono arrivato in cassa con due CD: Dude Ranch e un disco orrendo dei Vandals (mi pare).
Ho consegnato Dude Ranch al cassiere, ho messo le cuffie ed è successo questo:

Don’t pull me down, this is where I belong
I think I’m different, but I’m the same and I’m wrong

I Blink per me sono questa cosa qui.
Tom che pensa ai riff unicamente sulla base del fatto che debbano essere velocissimi, senza curarsi se sarà mai in grado di suonarli dal vivo (SPOILER: no), Scott che fa filare via la batteria drittissima e le due voci che si intrecciano e si completano, diverse ed immediatamente identificabili. Non so come vi approcciate all’acquisto di un disco voi altri, a me è bastato arrivare al primo ritornello di questo pezzo qui e la decisione era presa ed irrevocabile.
Il disco però me lo sono sentito tutto lo stesso, lì in cassa, perchè con me in gita avevo solo il mio vecchio walkman a cassette e ci sarebbe stato il rischio di non poterlo fare fino al rientro a casa. Io non ho capacità di aspettare. Zero proprio. Se compro un disco, lo devo sentire subito, se compro un videogame ci devo giocare subito, se compro qualcosa da mangiare spinto dalla gola, devo mangiarla subito. E’ brutto, fidatevi, i miei picchi di entusiasmo sono altissimi, ma hanno un’emivita brevissima.

Did you hear he fucked her?

Dammit è la terza traccia del disco e la conoscete tutti. E’ il pop-punk per antonomasia. Ha la melodia giusta, il testo giusto e perfino il video giusto per essere il singolo perfetto, nel 1997. Infatti funziona e i Blink con Dammit fanno il primo vero botto della carriera.
Ora però provate a riascoltarla.
Ascoltate la voce di Mark e fate mente locale, non ci sono altri pezzi dei Blink in cui canta in quel modo, con quella voce graffiata e ruvida, con quel carico emotivo. C’è una certa urgenza nel far passare un concetto, dentro Dammit, una seconda chiave di lettura che ti porta a pensare non sia stata scritta per andare in radio o fare da sfondo a scenette buffe in un video e che forse sia diventata un singolo anche un po’ suo malgrado, con tutte le virgolette possibili. Ho sempre pensato che introdurla con This one song e infilarci in mezzo pezzi da tormentoni di teen idol a caso quando la suonavano dal vivo avesse da sempre la valenza di rimarcare questa cosa (allego indizio1 e indizio2 a supporto). Poi sono arrivati i singoli veri e tutto ha preso un’altra piega, ma Dammit resta diversa. Innegabilmente diversa.

Dicklips era uno dei pezzi che conoscevo prima di ascoltare il CD perchè c’era stato uno speciale su TMC2 dedicato ai Blink in cui era contenuto un estratto da un live tedesco(4) dove la suonavano. Me lo ricordo perchè ad una certa Mark canta un pezzo di ritornello sopra il bridge e Tom gli fa “NO” con la testa. A me quell’aggiunta è sempre piaciuta un botto e questo piccolo scorcio è se vogliamo un altro manifesto della questione.

I think you need some time alone
You say you want someone to call your own
Open your eyes, you can suck in your pride
You can live your life all on your own

Il testo di Waggy credo sia uno dei pochissimi che ho ritenuto rilevanti nella mia vita adolescenziale. Non ho mai badato più di tanto ai testi delle canzoni da ragazzino, un po’ per carenze linguistiche e un po’ perchè in molti casi non avevano davvero nulla da dirmi, ma qui iniziavo a viverla in un certo modo, ad avere un età per cui certe cose iniziavano a diventare importanti. Forse uno dei primi dischi di cui ho preso in mano i testi e ci ho trovato qualcosa che mi parlasse. Arrivavo da tutto un filone di punk-rock sociale, riottoso e se vogliamo “impegnato” che sì, ok, ci stava come messaggio di ribellione giovanile, ci credevo anche un bel po’ volendo, ma che sentivo comunque distante. La mia vita di tutti i giorni era più orientata agli amici e al tentativo di guarire da una forma cronica di figarepellenza, piuttosto che a salvare il pianeta. Questo disco parlava di quelle cose lì, di avere la mia età e di cercare di viversela al meglio, divertendosi, anche quando c’erano i problemi. I miei non saranno stati rilevanti come il buco nell’ozono o la guerra in medio oriente, ma a diciannove anni li sentivo certamente più incombenti.

Non posso raccontare tutto Dude Ranch traccia per traccia, perchè se no da questo post non ne esco più, però il blocco centrale resta un agglomerato di capolavori irripetuti (ed irripetibili) per la band di San Diego. Enthused, Untitled, Apple Shampo e Emo. Quattro pezzi monumentali, che per me non sono invecchiati di un minuto. Li sento oggi e mi danno la stessa manata di quando li ho sentiti la prima volta. Ovunque io sia, mi prendono e mi portano da un’altra parte, in un posto dove sto e starò bene sempre.
Dopo aver scritto la frase sopra ho realizzato che la traccia seguente è Josie e che dice esattamente quella cosa lì. Non è una citazione voluta, ma a pensare come sia venuta fuori involontaria sorrido molto.

She’s so smart and independent, I don’t think she needs me
Quite half as much as I know I need her
I wonder why there’s not another guy that she’d prefer

I miei vent’anni sono esattamente questa cosa qui sopra.
Gli amici come nucleo cui tutto attorno gira, definire se stessi come alternativa ad una massa che, a voler ben guardare, aveva fatto capire abbastanza chiaramente di non volermi al suo interno. Capelli colorati, pantaloni corti, piercing e tatuaggi che poi non ho mai fatto, fino al trovarsi morose per cui ti chiedi sul serio se non ci sia qualcuno meglio di te a cui dovrebbero puntare. Cercare di dissimulare timidezza ed insicurezza facendo lo scemo.
Ho sentito spessissimo la frase “music saved my life” e non sono mai riuscito a darle un senso reale, ma certamente ci sono dischi che mi hanno mostrato la via attraverso cui muovermi per uscirne, se non vittorioso, quantomeno in piedi.
Dude Ranch è il più importante di tutti e finisce così.

I know it hurts
But you’re just getting older
And I know you’ll win
You’ll do it once again

Alla fine ce la si fa.
Ancora oggi è il modo con cui mi piace guardare alle cose.

Insieme a tutto quello che il tempo si è portato via, ci sono anche i Blink 182 che, oggi, sono una cosa che poco ha a che fare non tanto con questo disco, ma con il concetto di band in generale. A vent’anni sognavo di essere Tom DeLonge e suonare nei Blink, oggi anche ci fossi in qualche modo riuscito, il sogno sarebbe comunque infranto per metà.
Il giorno in cui Dude Ranch compie vent’anni i Blink suonano a Monza ed è incredibile pensare che sul palco, per 2/3 della band, questa cosa non significherà niente.
Io non so ancora se ci andrò, alla fine.
Da un lato scrivere di questo disco negli ultimi 15 giorni(5) mi ha messo nel peggior mood possibile in relazione al concerto, ma dall’altro c’è sempre il discorso della manciata di canzoni per cui avrà sempre e comunque senso uscire di casa ed andare a sentirle sotto il palco col dito alzato.
Chissà come andrà a finire.
L’altra sera ho rivisto American Reunion(6) e mi sono divertito molto, per dire.

(1) lo faccio ancora e funziona 9/10.
(2) il video divertente è stato la rovina dei Blink 182, qualcosa da cui non sono mai riusciti a smarcarsi, forzati in un crescendo per cui ogni volta dovevano in qualche modo mostrarsi più idioti della precedente quando in realtà lo erano meno. Poi oh, gli ha anche fatto fare i miliardi quindi credo per loro sia andata bene così.
(3) lo so cosa stai pensando: e gli Offspring? e i Green Day? Nel 1999, per me, erano tutti dei venduti. Sad but true.
(4) ho ritrovato quel video, il link è questo e l’episodio a cui mi riferisco sta a 1:41.
(5) Non ho mai iniziato a stendere un post con quindici giorni di anticipo e credo sia indice di quanto tenessi a questa cosa. Come ovvio, metterci così tanto mi ha incasinato la testa e ora o paura di rileggere per timore che non mi piaccia per nulla. Molte cose il tempo se le è portate via, ma l’insicurezza non se ne andrà mai.
(6) I primi due American Pie per me sono l’equivalente cinematografico di questo disco. American Reunion è il quarto episodio, con cui sono tornati al cinema dopo una decina d’anni.
(7) Dude Ranch l’ha prodotto Mark Trombino, che oltre a questo disco ha prodotto una camionata di altri dischi fondamentali per il sottoscritto. Lo so, il rimando numero 7 nel testo non c’è, ma questa cosa andava scritta da qualche parte.

Life is too short to last long

Ciao Manq, hai sentito il nuovo pezzo dei Blink 182?

Questo?

Esatto. L’hai sentito allora!

Beh si.

E non ne parli?

Boh, pensavo di no. Ho scritto davvero un mucchio di post in cui sbraito che per me i Blink 182 ormai sono un argomento chiuso, speravo di evitarmi di pubblicare l’ennesimo. Sai, provare ad essere credibile per una volta.

Quindi nulla? Speravo in un’opinione a caldo. Anche solo due righe eh, giusto per darmi un’idea.

E cosa vuoi che ti dica? Questa mattina quando l’ho sentito ero traboccante di felicità all’idea di poter twittare “Il nuovo dei Blink non è una merda”. Credo questo basti ad inquadrare la situazione.

Madonna che pesantezza… Ho capito il concetto. L’hai detto sa Dio quante volte. Va bene. Io vorrei solo provare a farti fare un passo avanti, svuotare la testa da tutte le tue menate da vecchio e dire cosa ne pensi di QUESTO pezzo. Ma ho idea che non sia cosa…

Ok, scusa. Se vuoi un parere provo a dartelo. Sta mattina, appena ho trovato il link, mi sono sentito il pezzo. L’attacco e la strofa sono una roba alla +44, che a pensarci non vuol dire niente visto che sempre di Hoppus si parla, ma in realtà credo stia a significare che quei suoni, con quella batteria lì e con quell’effetto orrendo sulla voce, siano esattamente la sfumatura che poteva permetterti di distinguere un’operazione dall’altra. A pensarci oggi non ha davvero più senso farlo, non mi stupirei se i nuovi Blink suonassero qualche pezzo dei +44 dal vivo, ma sto divagando. Quel che voglio dire è che il pezzo parte male. Poi però entra un ritornello GROSSO COSI’ e di tutte ‘ste seghe me n’è di colpo fregato zero. Volevo solo risentirlo ancora. E ancora. Talmente preso bene che mi sono digerito senza troppi scompensi pure il finalone coi cori e Travis che spruzza.
Ti basta come commento tecnico?

No. Nel senso, credo di aver capito che il pezzo ti piacicchia, ma non hai detto nulla su questo nuovo suono, su Matt Skiba, insomma su quello che succederà adesso…

E cosa dovrei dirti, di grazia? Il “Suono Nuovo” è esattamente il suono ipertrofico dei Blink del nuovo millennio, con gli effettini di “Feeling this” sull’intro e i muri di suono nel ritornello tipo “Stay toghether for the kids”. Le parti di chitarra potrebbero essere di Tom senza problemi, ad indicare che o anche prima le scrivevano gli altri, o che il buon vecchio DeLonge abbia dimenticato di farsi restituire qualche demo. Alla luce della sbroffata di “uo-oh” che c’è in fondo propenderei per la seconda ipotesi, perchè mi pare proprio roba sua. L’hai sentita la parte in palm mute nel finale? Non ho cazzi di controllare, ma è presa paro paro da qualche altro pezzo pre-scioglimento. Se dovessi basarmi su questo singolo, Matt Skiba potrebbero benissimo averlo preso per scaricare il van.

Ok, quindi nessuna attesa per il disco nuovo immagino…

Non ho detto questo. Insomma, questo pezzo qui ha un bel ritornello, limita tutto sommato l’invadenza di Travis e ha dei suoni gonfi e finti che mi prendono bene. Sai quanto tempo era che non sentivo un pezzo dei Blink capace di prendermi bene, anche se con delle riserve?
Alla luce dei fatti io un po’ voglio crederci.

Non è che poi ci rimani male?

Può darsi, ma molto probabilmente ormai certe robe mi scivolano addosso. Ti dico una cosa. Se quindici anni fa i Blink 182 se ne fossero usciti con un disco intitolato CALIFORNIA proprio l’estate in cui io pianifico un viaggio in CALIFORNIA l’avrei vissuta ai limiti del misticismo. Immediatamente colonna sonora della vacanza, a prescindere dalla qualità del disco.
Oggi la trovo solo una buffa coincidenza.

Non so se ti credo. Te sei quello che mi diceva che vai a San Diego e il tuo primo obbiettivo è andare da Sombrero’s a mangiare messicano. Mi sembra che tutto sommato ne sei uscito per modo di dire. E anche sta cosa del titolo del disco che hai appena detto, beh, uno normale manco ci avrebbe fatto caso…

Non ho altro da dirti.

Ehi, te la sarai mica presa?

Vaffanculo.