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Diario dall’isolamento 2: day 21

Decomprimere.
Io credo che la roba di cui inizio a soffrire maggiormente sia l’incapacità di decomprimere, di avere un momento e uno spazio in cui poter aprire le valvole di sfogo. Qualcuno lo fa andando a correre, qualcuno alzando pesi. Mia moglie impasta.
Io questa roba l’ho sempre trovata nella musica.
Di solito in macchina, con lo stereo oltre i livelli che si addicono al guidare con prudenza e le persone sulle auto vicine alla mia, ferme in coda come me, a guardarmi chiedendosi perchè non sia rinchiuso in un centro specializzato per malati di mente.
L’occasione migliore però erano i concerti, quando si spengono le luci e sei da solo in mezzo a persone a cui di te non frega un cazzo e di cui a te non interessa un cazzo, che siano tuoi amici o perfetti sconosciuti. Tutti gli occhi sul palco, la musica copre tutto, avvolgendoti e proteggendoti, e allora canti i pezzi, li urli, senza che ti interessi come vengono fuori. Conta solo farlo più forte possibile e se non sai le parole va bene lo stesso. Da ragazzino l’energia da buttare fuori era anche fisica, si pogava e si saltava, oggi è più che altro mentale, ma l’esigenza di base è la stessa.
Occhi chiusi, dito alzato e fuori tutto.
Lo stress, le ansie, le paure, ma anche le gioie, tutte le emozioni che nella vita sei costretto in qualche modo a gestire e misurare per non uscire dai binari in cui ci hanno insegnato sia necessario veicolare la quotidianità.
Per quell’oretta scarsa ci si ripulisce da tutto, una sorta di lavanda gastrica emozionale, e all’accensione delle luci si è pronti a tornare con rinnovata o ritrovata pace alla propria vita che, bella o brutta che sia, certamente ha qualche motivo per andarci stretta.

Il primo concerto a cui sono andato è stato nel 1997.
Da allora non c’è stato anno in cui non abbia visto almeno una volta qualcuno suonare e anche se negli ultimi anni capitava meno che agli inizi, era comunque qualcosa che facevo spesso. Non mi sono fermato neanche quando gli amici hanno iniziato a non accompagnarmici più, quando andare a un concerto voleva dire farsi ore di macchina da solo per finire il martedì sera a Bologna e rientrare ad orari senza senso con la sveglia comunque puntata per la mattina di lavoro successiva.
A fermarmi è stato questo orribile 2020, il mio primo anno concert-free.
C’è qualcosa che è peggio del non vedere la fine del tunnel, però, peggio anche del prendere atto che per me (e quelli come me) la luce arriverà in ogni caso davvero alla fine, ultimi tra gli ultimi.
Questa cosa è doversi subire continue paternali su quanto ridicola sia questa rinuncia, su quanto i problemi siano altri, su come si possa tranquillamente fare a meno di cose così frivole e superficiali in un contesto di crisi globale e doverlo fare simultaneamente ingoiando le decine di bestemmie che siamo sì abituati a tenerci nello stomaco, ma senza più la facoltà di vomitarle altrove per evitare di intossicarci.
Quel viaggio in auto in cui un disco ti toglie di dosso le rotture di cazzo del lavoro e ti permette di affrontare i capricci dei figli una volta rientrato a casa con la pazienza che si meritano, quel concerto in cui puoi letteralmente urlare i vaffanculo accumulati e tornare a parlare con amici e parenti senza immaginarti come sarebbe dar loro una testata sul naso mentre li ascolti dare fiato alla bocca.
“Puoi andare a correre per sfogarti” is the new “Mangino brioches”.

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