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Interviste

Prossimi concerti: una chiacchierata con Valeria

Oggi, 10 Ottobre 2021 per chi leggesse in differita, è il giorno della riapertura dei concerti. Sono passati infatti ormai quasi due anni da quando il Covid19 ha ribaltato le vite e la società in cui viviamo e una delle vittime più martoriate è stata la musica dal vivo.
Da qualche settimana rimugino sull’argomento in vari modi, ma alla fine ho pensato che il prodotto della mia tastiera sarebbe al più potuta essere una spataffiata livorosa e inutile che avrebbe tirato in mezzo gli stadi e i comizi di Conte, ma che di fatto avrebbe aggiunto zero al dibattito poichè farina del sacco di uno che ai concerti, al massimo, ci va quando riesce a piazzare i figli da qualche parte. Ho quindi pensato fosse più interessante fare qualche domanda a chi coi concerti ci lavora e nella musica dal vivo ci sbatte tutto il proprio sangue, così ho scritto alla Vale facendole un paio di domande.
Valeria, per chi non la conoscesse, lavora per il Bloom e scrive per Bossy e per Awand. Da sempre dentro al mondo di chi mette la musica su un palco con delle persone davanti, ora è una delle teste dietro a Tutto il nostro sangue, una roba bellissima che dovreste supportare tutti e che mi ha permesso qualche riga fa di fare quella gag oscena.
Come sempre su questo blog, io faccio domande farcite di illazioni e chi mi risponde mi spiega con pazienza come stiano davvero le cose, resistendo alla necessità di mandarmi a cagare.
Nello specifico, la parte interessante è quella in cui lei risponde in corsivo.
Buona lettura.

Iniziamo dalla fine, dall’ultimo concerto. Il mio è stato nel 2019 e a memoria potresti averlo organizzato tu. In questi quasi due anni ho pagato per vedere roba in streaming, ma non sono riuscito più a vedere qualcuno su un palco, prima perchè non mi ci sentivo al sicuro e ora perchè i concerti seduti vanno oltre la mia comprensione. A marzo 2020 invece c’è stato l’#UltimoConcerto, quello con l’hashtag, l’iniziativa messa insieme da un numero consistente di addetti ai lavori e che si poneva lo scopo di dare un segnale a tutti riguardo al momento terribile che la musica live sta(va) passando nel nostro Paese. L’iniziativa fu recepita in modo divisivo e io stesso non ero del tutto convinto si fosse scelta la strada giusta, sempre che una strada giusta esista. Sto solo facendo un mini riassunto, non voglio tornare sulla polemica che ne era scaturita, ma se vuoi commentare quella fai pure. Quello da cui mi interessa partire è che dopo quell’#UltimoConcerto si è parlato del #ProssimoConcerto, con interpellanze parlamentari, DDL mirati e comunicati ministeriali che sembravano indicare qualcosa si fosse mosso davvero, che con quell’iniziativa aveste in qualche modo dato una spallata alla questione. Sei mesi dopo, la prima domanda non può che essere: come procede? Si è davvero mosso qualcosa, diradato il polverone di marzo?

Dietro a quella che è stata un’iniziativa plateale, vista, seguita, giudicata, c’è una macchina che anche a camere spente si è mossa e ha continuato a muoversi perché le cose cambiassero, e cambino, non solo nell’ambito pandemia, ma più in generale perché il settore spettacolo trovi un riconoscimento e una tutela fino ad oggi mancanti.
Ultimo concerto non era una festa, non era pensato per esserlo e già il titolo dell’iniziativa a mio avviso parla da sé. Mi sconcerta il livore che ha scatenato, come non sia affatto chiaro cosa ci sia dietro ai ‘’nostri artisti che ci fanno tanto divertire e appassionare”, e di come le provocazioni, le rotture e le proteste le capiamo e abbracciamo solo quando ci piacciono (o ci fa comodo?). Comunque ha centrato l’obiettivo, smuovere.
Come mi sconcerta chi non vuole suonare davanti alle persone sedute o non vuole andare ai concerti con le sedie. Tutto condivisibile, per carità, ma ci sta un punto: se non si supportano i posti che sono in ginocchio e se sono sopravvissuti hanno perseguito la loro missione di centro culturale rispettando le regole e stando alle capienze imposte, questi posti poi chiudono, non stanno in piedi.

Se i primi a non supportare, a non turarsi il naso per le modalità non proprio entusiasmanti (in primis per gli organizzatori, neh) in cui si sono potuti realizzare i concerti sono quelli che hanno per mesi hanno hashtaggato #mimanchicomeunconcerto, di cosa stiamo parlando?
Da lunedì si torna capienza 100%, non sembra vero, dopo tutto questo tempo, ma lo è.

Il discorso che fai ci sta tutto, supportare è la base ed è normale sensibilizzare tutti a fare la propria parte. Ho però l’impressione che da dentro si viva la musica e il mondo che le gira intorno con una consapevolezza ed un’etica che spesso è ingenuo attribuire anche al “consumatore”. Probabilmente, in tantissimi casi, chi va ad un concerto non ha idea di quel che ci sia dietro e non sono convinto stia lì il problema di fondo. Un po’ come posso sensibilizzare al consumo equo e solidale, ma nei fatti la politica che determina le condizioni del lavoro vola ad un’altezza diversa rispetto alla superficialità di chi compra il caffè senza stare troppo a ragionare se il prezzo dello scaffale permetta o meno a chi lo coltiva una condizione lavorativa umana. Un conto è far passare la consapevolezza al consumatore, un conto e dargli dello stronzo.
Ad ogni modo, la bella notizia è che si torni a capienza piena ed è davvero una vittoria a questo punto.
La domanda che ti faccio quindi è: quanto è compromessa la situazione? L’impressione che mi sono fatto da fuori è che le vittime sono state tante e che anche il futuro sarà complicato, con tanti tour internazionali che salteranno l’Italia forse (dimmelo tu) anche a causa dell’averci messo troppo a dare garanzie su quel che si potrà fare qui da noi questo autunno e nel prossimo anno. Tu come lo vedi il prossimo futuro dei concerti in Italia?

Assolutamente, chi non conosce una minima di dinamiche del settore fa fatica a considerare la musica come un lavoro e tutto quanto sta dietro a una band che suona sul palco, e di conseguenza giustamente come funzionano le cose. Però, anche vero, che a tutti i livelli, in questi due anni di pandemia tramite social non sono mancate/i addette/i ai lavori che hanno cercato di spiegare il problema per propria voce o tramite organizzazioni di settore. Lungi da chiunque dare dello stronzo a chi non conosce/non comprende le dinamiche o semplicemente non gliene frega nulla, è una considerazione diversa, più che incattivata, estremamente sconsolata: mesi su mesi di lockdown a leggere #mimanchicomeunconcerto, condivisioni di post nostalgici alla vita di prima, alle cose non si potevano fare, alla musica dal vivo mancante, commiati per i locali che hanno chiuso… e poi, quando si può riprendere, in una condizione preclusiva e penalizzante sia per chi va a vedere, ma anche per chi mette a disposizione il concertame, ci si tira indietro, storcendo il naso. Quindi non è che #mimanchicomeunconcerto, è #mimanchicomeunconcertovistoegodutocomevoglioaltrimentinientedaiaccendonetflixestosedutomasuldivano.
Quello del 10 Ottobre è un piccolo passo, sicuramente bello, ma ribadisco piccolo: tenendo i posti seduti come parrebbe ad oggi (10/10/21), per il settore è ancora tosta, non è un ritorno alla “normalità”. Che il settore musica dal vivo non stesse bene già si sapeva, anche prima del covid-19 che però ha sicuramente inflitto un’ulteriore batosta. E’ anche vero che credo ci si stia proiettando, seppur lentamente, ad un ritorno alle modalità di fruizione della musica dal vivo nelle modalità che conosciamo. La speranza è che si possa nei prossimi mesi tornare a vedere i concerti in piedi e che non saltino più date che già sono a volte al secondo rischedule.

Leggendo la tua risposta deduco si riapra al 100%, ma coi posti a sedere e questa mi pare l’ennesima presa in giro, quindi volevo chiudere con l’ultima domanda. Uscendo dalla questione riaperture, mi pare che le misure di sostegno al settore negli ultimi due anni siano state poche e del tutto insufficienti. Puoi dirmi cosa è stato fatto (se è stato fatto qualcosa) nel concreto per provare a dare una mano al mondo della musica dal vivo da parte delle istituzioni?

Sì, lo Stato qualcosa ha stanziato, non abbastanza, non tutti ne hanno goduto allo stesso modo e altrove – es. in Germania – è stato fatto certamente di meglio.
Parallelamente bisogna ricordare che le venue non sono rimaste con le mani in mano ad aspettare le misure governative, alcune hanno avviato campagne fondi, tante si sono inventate e reinventate per garantirsi il sostentamento e sono state attivate iniziative come scena unita, ideate per rispondere alla situazione emergenziale.
Consiglio vivamente, per informarsi non solo sui numeri specifici dei soldi stanziati e delle misure adottate nel corso del tempo e in modo preciso, ma anche per approfondire tutto quello che è successo in questi ormai due anni in termini di azioni governative e di richieste per la tutela, la ripartenza e la possibilità di garantire per il futuro maggiori riconoscimenti per il settore, di consultare la sezione Iniziative e News | KeepOn Live, il sito dell’associazione di categoria live club e festival italiani.

Dick pics: una chiacchierata con Mara

Ad inizio giugno ho iniziato una conversazione via email con Mara, autrice ed editrice prima di Serialmente e ora di playermagazine, nonché persona particolarmente attiva nella lotta per i diritti delle donne e per la parità di genere. Mi capita spesso di litigare confrontarmi con lei su twitter, ma in questa occasione cercavo un dialogo libero da limiti di caratteri e lei è stata molto disponibile nel prestarsi a questa chiacchierata, cosa per cui la ringrazio molto.
Io sono quello che scrive in corsivo, che non può capire in quanto uomo ed il cui pensiero è irrilevante.
Lei è quella che scrive in grassetto e che parte per la tangente.
Ne è uscita una sorta di intervista certamente più lunga del previsto, ma a mio avviso interessante.
Ah sì, l’argomento è: le foto del cazzo in chat.

Il punto di partenza per me è questo: la pratica del mandare una foto del proprio cazzo in chat come “door opener” di relazioni che nascono online è diffusa. Tutti sanno che è qualcosa che succede, nel mio intorno digitale se ne parla spesso e anche nella mia vita reale, dove frequento persone che non hanno la mia stessa presenza online, l’argomento è sdoganato. Come a dire: esiste un fenomeno di costume che prevede l’iniziare una conversazione mandando all’interlocutrice la foto del cazzo. Se siamo arrivati a questo livello di diffusione del concetto significa che è davvero qualcosa di molto comune nella vita quotidiana delle persone. La mia logica ha quindi tirato due somme: se tutti conoscono il fenomeno vuol dire che ha attecchito, se ha attecchito vuol dire che funziona. Perché, prova a pensarci, lo scopo finale di questa cosa è scopare, giusto? Non ha altre implicazioni. Non c’è alcun ritorno per chi invia la foto se non il portarsi a casa una scopata. Lo fai una volta perché tuo cugino ti ha detto che è una strategia sicura, magari, ma se dopo tre tentativi non hai risultati o sei davvero orgoglioso oltre misura dell’aspetto del tuo uccello e valuti che continuare a spammarlo in giro valga il non scopare, oppure passi ad altro. Credo. Non so dirti il rate di successo, è probabile sia influenzato da mille variabili, ma di certo se nessuno avesse mai scopato grazie alla foto del cazzo in chat, Manq, utente social maschio che non è tendenzialmente bersaglio di questo tipo di messaggi, non ne saprebbe niente.
La prima domanda quindi, se vuoi anche per metterti a tuo agio, è: hai mai ricevuto cazzi in chat? SCHERZO. Non è una cosa che voglio sapere. 
Per iniziare vorrei chiederti se hai la mia stessa percezione, ovvero di un fenomeno reale e diffuso, o se credi che sia legato 80% ad una certa narrazione maschile che per qualche ragione si bulla di azioni che poi in realtà non compie e 20% a reali disagiati che mandano la foto del cazzo anche se non porta da nessuna parte. Immagino che per una donna lo scenario possa anche essere molto diverso, quindi prima definiamo il campo da gioco se ti va. 

Ecco, nel tweet parlavi di “statistiche” e di un “rate di successo” evidentemente incoraggiante al reitero della pratica, ma a conti fatti non stiamo parlando di numeri rilevati statisticamente ma della tua percezione all’interno della tua bolla che – naturalmente – è ben diversa dalla mia che infatti smentisce la tua di realtà. Prima di addentrarmi nella questione vera e propria, però, anch’io vorrei farti una domanda e chiederti se nella tua esperienza, diretta o indiretta, per un uomo l’arrivo non richiesto di foto esplicite è motivo di orgoglio ed entusiasmo, oppure è causa di disagio: ti è mai capitato di discutere con o di uomini che si sono sentiti offesi, mortificati, o infastiditi dall’arrivo non richiesto di particolari anatomici femminili? E se sei incappato in questa situazione la risposta circostante, soprattutto maschile, è stata di comprensione o dileggio?
Prevedo che per gli uomini non solo non sia un problema ricevere foto hot, seppure non richieste, ma anche motivo di vanto e purtroppo l’universo maschile è portato a prendere sé stesso e le proprie reazioni quale metro di misurazione da applicarsi a chiunque altr*.
Il fatto che esista tutto un mondo di donne che stigmatizza come inopportuno, mortificante, fin anche allarmante, il ritrovarsi email e dm con soggetti non richiesti dovrebbe far capire che è molto più comune che la destinataria blocchi il tipo che invia, piuttosto che gli accordi un appuntamento. Anche ammettendo che ci sia qualcuno a cui sia andata effettivamente bene (il “
success rate” di cui parli) non dice nulla di quante volte la pratica debba essere reiterata per produrre frutti: è verosimile che all’invio delle tue pudenda, prima ancora di un ciao, ci sia subito una risposta positiva? Direi proprio di no, così come avviene per un qualsiasi altro tipo di approccio dal complimento al bar, a quello per strada, alla battuta a una festa [rassegnatevi: non esiste una tecnica infallibile]. Prima di arrivare al punto in cui la domanda si incontra con un’offerta bisogna tentare, quindi un tipo che verosimilmente ti dice di aver avuto di recente tre incontri con questa modalità ha probabilmente inviato un centinaio di foto a un centinaio di donne che in prevalenza si saranno offese, risentite, infastidite, ma in questi casi conta il risultato da esibire e tre donne a cui è andata bene questa modalità di incontro diventano facilmente lo standard a scapito di 97 a cui è stata rovinata la giornata.
Poi, sostenere che se l’invio della dick pick continua a essere pratica diffusa – numeri? – è perché funziona, significa anche dimenticare di quanto e come gli uomini siano abituati a fare quello che vogliono, o peggio continuino nel prodursi in quello che ritengono un esercizio di un loro diritto, nonostante venga loro spiegato che no, non è così. Vedi banalmente l’apprezzamento per strada, da anni viene detto che la catcall è offensiva e irritante ma pare che gli uomini continuino come fosse un loro diritto inalienabile. Ti prevengo: sì ci sono alcune donne a cui l’apprezzamento per strada aumenta l’autostima, questo perché il maschilismo non è genetico ma un costrutto sociale che non risparmia le stesse donne.

Hai messo un bel po’ di carne al fuoco, vediamo se riesco a commentare tutto con un minimo di ordine e senza perdermi nulla.
Dici che la mia realtà è diversa dalla tua, ma poi dici che effettivamente le dick pic sono una cosa reale, che effettivamente arriva, quindi settiamoci su questo dato: non parliamo di una leggenda metropolitana, ma di un fenomeno esistente. Che è la stessa realtà che vivo io, l’ipotesi su cui si fonda il ragionamento. Quel che per te è diversa è la percezione che io (uomo) e tu (donna) abbiamo del fenomeno, ma anche qui mi stai facendo più che altro un processo alle intenzioni. Chiarisco: la mia opinione sulla foto del cazzo come primo step comunicativo è che sia una roba completamente senza senso. Lo sarebbe anche a parti inverse, ovviamente. Se una tipa come prima cosa mi spedisse la foto delle tette la bollerei come una matta. E’ vero, probabilmente io non mi sentirei offeso o molestato dalla cosa perché parto da una posizione sociale ben diversa, ma penso che parte del problema sia proprio lì. Ci arrivo dopo, spero.
Quello che non mi torna è la tua certezza assoluta sul fatto che la maggior parte delle donne blocchi il tipo che gli manda il cazzo in chat e che il rapporto stia effettivamente di 97 cazzi mandati a vuoto contro 3 cazzi a bersaglio. Per me è un discorso illogico: così fosse non credo davvero ne staremmo parlando. E’ più probabile la verità stia in mezzo: quel tipo di approccio paga, in qualche modo, ma è difficile stimare quanto perché:
– una donna non può permettersi di dire “sì guarda, io se ricevo un cazzo in chat sono incuriosita” per evidenti problemi derivati, quelli sì, da secoli di cultura maschilista e repressiva (quindi cattolica).
– è ampiamente possibile il fenomeno sia partito da un portale dedicato a scopare (che so, Tinder) e che lì avesse magari un certo “success rate” che ha convinto i minus habens a sdoganarlo in ogni altro contesto. Perché un cazzo in chat su Tinder non è un cazzo in chat su LinkedIn. E non sto dicendo che su Tinder vada bene, attenzione, sto dicendo che capirei se su Tinder in qualche modo pagasse.
In queste discussioni tendenzialmente finisco a prendermi del maschilista (beh, lo sei, starai pensando. In realtà non credo, ma non sono qui per convincere nessuno.), forse è perché trovo superfluo dover precisare che nessuno dovrebbe sentirsi oggetto di attenzioni manifestate in modi che mettano a disagio. So che non è per niente scontato rendersi conto di quanto la realtà sia diversa da questo presupposto, però penso sempre di non dovermi far carico di tutti i malcostumi del mondo maschile semplicemente perché sono nato uomo. Quindi quando dici che ricevere la foto di un cazzo può mettere a disagio una ragazza io lo capisco, quando dici che gli uomini si arrogano il diritto di tenere atteggiamenti fastidiosi impunemente pure. Il fatto ci possa essere qualche donna, poche o tante non conta, che da quegli atteggiamenti non è turbata non giustifica l’estenderli a tutte? Agree.
Spero sia quindi chiaro che la mia qui non è una sorta di apologia del cazzo in chat, non cerco un contraddittorio di questo tipo. Io voglio capire come ci si possa essere arrivati. Prendo il tuo parallelismo perché me lo ha fatto anche un’altra ragazza su twitter: la catcall. Per me i due fenomeni non sono per nulla accomunabili. 
Fischiare o fare commenti ad una ragazza per strada non è una tecnica di rimorchio. E’ una manifestazione di machismo che l’uomo usa per fare mostra di sé, spesso con altri uomini. E’ questione di branco o comunque di autodeterminazione. Nessun uomo fischia per strada sperando di ingraziarsi la vittima.
Il cazzo in chat è tutto un altro sport. E’ una questione privata, non c’è ritorno. Se stai cercando di scopare, fai le mosse che pensi ti portino a scopare. Se hai 100 donne e mandando il cazzo sai che te ne bruci 97, il cazzo non lo mandi.
Tu credi che oggi una ragazza possa dire: “A me piace ricevere cazzi in chat”?

Cito:
“La mia logica ha quindi tirato due somme” […] Non so dirti il rate di successo […] ma di certo se nessuno avesse mai scopato grazie alla foto del cazzo in chat, Manq, utente social maschio che non è tendenzialmente bersaglio di questo tipo di messaggi, non ne saprebbe niente.”
Ripartiamo da qui. La tua percezione, la tua bolla, la tua realtà di maschio etero. Vedi bene che alla tua base di partenza “io Manq utente medio non se saprei nulla se non fosse vero” potrebbe corrispondere un “Io Mara utente media non ne ho mai sentito parlare come di tecnica efficace” e le due percezioni si annullerebbero senza  numeri, statistiche, ricerche a suffragare la percezione dell’una o l’altra bolla. Dal tuo tweet iniziale dicendo “statisticamente” ti avevo preso alla lettera, pensavo che effettivamente avessi letto di qualche ricerca sull’argomento ma qui siamo nel campo di “la mia esperienza”.
Ma, prima di proseguire, metto prima i puntini sulle i. Sì, sei maschilista e no, non lo dico come offesa, pregiudizio o preveggenza: semplicemente lo siamo tutti, donne incluse, perché siamo stati educati e cresciuti in una cultura maschilista e sessista per liberarsi della quale serve fatica, impegno,  un’attenzione costante e una rinuncia, da parte degli uomini, a privilegi che non sono altro che soprusi socialmente accettati, e mi riferisco anche agli atteggiamenti più banali e scontati. Precisazione non necessariamente rivolta a te: rispettare le donne, riconoscere i loro diritti, essere per il consenso, essere contro la violenza ed essere a favore di un trattamento economico equo, è l’ABC della convivenza civile, nessuna medaglia al valore se credi in tutto questo. Un po’ come un genitore che dice “provvedo ai miei figli e non li picchio mai”: ci mancherebbe altro, è il minimo sindacale per essere genitori.
Quando scrivi “però penso sempre di non dovermi far carico di tutti i malcostumi del mondo maschile semplicemente perché sono nato uomo” confondi la colpa con la responsabilità: non è colpa tua se la situazione è quella che è, ma diventa una tua responsabilità continuare o meno a mettere in atto comportamenti che perpetuino lo status quo perché, come dicevo più su, essere contro la violenza, a favore del consenso ecc, non è sufficiente, bisogna che gli uomini rinuncino a quello che credono sia loro dovuto e cambino sistema di pensiero.
E qui mi ricollego al discorso principale.
Con l’esempio della catcall non ho voluto equiparare una presunta tecnica di rimorchio, l’invio della dick pic, ai fischi e lazzi per strada, ma mi è servito per sottolineare quanto poco agli uomini importi della reazione delle donne: da anni, ormai, agli uomini viene detto e ribadito che quella è una pratica indesiderata, ma loro continuano perché non ci vedono nulla di sbagliato, e se va bene a loro questo è tutto quello che vogliono sapere, e anzi sono convinti che alle donne piaccia anche se fanno finta di no.
Quindi sì, non ho mai negato che ci sia una diffusa pratica di invio di quel tipo di foto ma nego che possa essere una pratica che porta i propri frutti su una scala tale da far diventare il fatto una tecnica efficace per racimolare una serata di sesso. Chiarisco ulteriormente, non sto parlando di due che si messaggiano, si “
piacciono” e da lì si passa al sexting: quando c’è reciprocità non esiste discussione.
Ma visto che parliamo anche di strutture di pensiero diverse e spesso opposte, prova a condurre un piccolo sondaggio tra gli uomini che cercano di portare a casa un paio d’ore di sesso e chiedi loro: se inviando a 100 sconosciute una foto del tuo pene, 97 si risentono, ma 3 sono a colpo sicuro, ti lanceresti? E vedi cosa ti rispondono. Malignamente, per me, per molti la risposta sarebbe “Sono carine queste tre?”. Seppure.
Ma ora parliamo di un po’ di numeri.
L’invio delle dp presuppone che l’uomo in questione sappia cos’è il consenso, e sappia distinguere una molestia da un comportamento considerato sessualmente eccitante. E non è proprio così. Se questa pratica fosse davvero conosciuta e sdoganata questi numeri direbbero qualcos’altro. (Link)

“Women also say they are not asking for these pictures. Only 11 percent of women overall say they have asked to be sent a dick pic. That number increases to 23 percent among millennial women. However, of the 53 percent of millennial women who have received a dick pick, more than three in four (78 percent) say those pictures were unsolicited.”
Ma la parte interessante è questa, la percezione di cui parlavamo prima e di cosa gli uomini pensano che una donna pensi:
“This miscommunication about nude photos also extends to the ways women perceive those pictures and how men think women perceive them. When given a range of adjective most millennial women picked the words “gross” (49 percent), “stupid” (48 percent), and “sad” (24 percent). When millennial men were asked how they think women would describe dick pics, the number one answer was “gross” at 32 percent. However, the second highest adjective chosen was “sexy” at 30 percent. Only 17 percent of millennial women described dick pics as “sexy.” The same was true for just 9 percent of women overall”
Infine:
“Previous research has found young men are less aware about what constitutes sexual assault. A survey by the National Sexual Violence Resource Center found that young men are less likely than women to view things like non-consensual voyeurism, sexual coercion, and verbal harassment as forms of sexual assault. This is especially troubling given the number of young men who are sending dick pics and the even greater number of women who are not asking for them.”
Quindi gli uomini non solo tendono a non sapere cosa è molestia e cosa no, ma pensano che alle donne piaccia e – aggiungo io – semplicemente perché piace a loro.
Quindi in questo contesto desolante mi pare inverosimile che ci siano frotte di ragazzi o uomini che con l’invio del proprio pene rimedino una serata a colpo sicuro.

Temo ci sia tra noi un gap comunicativo, ma forse non ha tanto senso insistere oltre su quel che è percezione e quel che è assodato perché se non sono riuscito a spiegarmi fino ad ora, non credo di poter migliorare.
Mi piace la parte sui dati e ci vorrei tornare sopra, partendo però da quanto scrivi nel paragrafo prima relativo al nostro essere maschilisti come società, cosa su cui hai assolutamente ragione. Il punto che vale la pena forse analizzare è che la società maschilista è composta tanto da uomini, quanto da donne. Togliamo per un secondo l’uomo dall’equazione e concentriamoci sulle donne.
Vivere in una società radicalmente maschilista porta le donne a vivere male aspetti della sessualità che non andrebbero vissuti così. E lo capisco, perché non è facile smarcarsi da un giudizio costante e ossessivo che parte dall’aspetto e arriva agli atteggiamenti. Se me lo chiedi siamo in un momento brutto della storia in cui non vedo muovere grandi passi verso una reale emancipazione della donna, ma proviamo a dimostrare che così non è con battaglie che puntano molto più sul punire l’uomo che non sul mettere la donna nelle condizioni di non essere più vittima. Questa stortura, a mio avviso, genera mostri. Se non lavoriamo per togliere dalla testa delle donne 2000 anni di cultura cattolica in cui il sesso è peccato, vergogna o, nel migliore dei casi, qualcosa di bello SE fatto al momento giusto e con la persona giusta (ad insindacabile parere di terzi) non risolveremo mai il problema, ipoteticamente anche cancellando 2000 anni di cultura machista dalla testa degli uomini. 

Sarò io che over semplifico, ma il mio mondo ideale non è quello dove nessuno manda foto di cazzi, ma quello in cui la foto di un cazzo non è che un selfie. Una parte anatomica che accomuna metà della popolazione del globo, magari non esteticamente splendida, ma certamente nulla che possa turbare, sconvolgere o far sentire una donna molestata. Cerca di capirmi qui, perché è importante: non voglio cambiare le donne per “scagionare” o “depenalizzare” certi atteggiamenti maschili. Credo tuttavia che in un mondo in cui tutti vivessimo con serenità e senza tabù la sessualità, metà degli atteggiamenti che oggi sono molestie (e lo sono, insindacabilmente, perché arrecano danno) non lo sarebbero più. Ripeto: non sto dicendo che mandare la foto del cazzo sia una cosa innocua di cui le donne fanno ingiustamente un problema, sto dicendo che è un problema e come tale va affrontato, ma che lo è anche a causa di un bias culturale che non riguarda chi manda la foto, ma chi la riceve. Spero sia chiaro il punto. La domanda, ora.
E’ possibile che i dati che citi, come l’esperienza diretta che hai parlando con altre donne, siano “fallati” dal fatto che, in merito a certi argomenti, semplicemente le donne non siano nella condizione di essere sincere? Non voglio ridurre tutto alla regola del 3 di American Pie, ma è un buon punto di partenza. Aggiungo, ritornando al discorso culturale, come ti poni rispetto al ragionamento che ho tentato di fare sul peso che una certa cultura ha sulla donna e sul concetto di molestia?

Quando dici “ma proviamo a dimostrare che così non è con battaglie che puntano molto più sul punire l’uomo che non sul mettere la donna nelle condizioni di non essere più vittima” incorri nel primo errore, quello di dividere il problema in due parti separate e caricare la donna dell’onere della prova: non funziona così. Il rapporto tra i generi è strutturato e solidificato in quello che è un rapporto tra oppresso e oppressore, ti sembrerà una esagerazione, ma è esattamente così. Appena fino al 1996 lo stupro in Italia, non nella Repubblica Centroafricana, era un reato contro la morale pubblica: culturalmente siamo andati poco più avanti.
Tutto il mondo è fatto a immagine e somiglianza del maschio bianco etero, incluse le più piccole faccende che riguardano le donne sono pensate e concepite in funzione dell’uomo. In queste condizioni è impossibile che le donne da sole decidano che “il sesso ci piace e non ce ne vergogniamo e vogliamo anche tatuarcelo e portarci a casa ogni sera uno diverso” e tutto è bene quel che finisce bene, perché dall’altra parte deve esserci una maturazione della cultura del consenso, di educazione sessuale che deve innanzi tutto essere educazione all’intimità, e un cambiamento radicale, profondo, epocale della cultura maschile altrimenti il tuo discorso si riduce esattamente a un mero tornaconto, avere una facilità di fare sesso sempre e ovunque e senza che l’uomo si metta in discussione.
Ma l’errore più comune e grave che commetti, tu come tanti altri, è considerare le problematiche femminili a compartimenti stagno: non funziona così, e la liberazione sessuale delle donne è inestricabile da quella economica: finché le donne non avranno diritto a pari trattamento salariale, trattamento equo sul lavoro e durante il lavoro, tutele in caso di maternità, finché le donne non potranno fare carriera in ogni singolo settore, sfondare il famigerato tetto di cristallo, guadagnare quanto gli uomini e avere le stesse identiche opportunità, la liberazione sessuale sarà impossibile perché sesso&potere sono indivisibili. Vuoi le donne sessualmente libere? Rinuncia ai tuoi privilegi, rinuncia alla tua posizione predominante all’interno della società. Altrimenti troppo comodo avere sesso facile e a portata di mano ma con gli uomini ancora in vantaggio anni luce in economia e lavoro. Esemplifico con il commento di un utente maschio trovato su Quora, il titolo di discussione è “Why aren’t women turned on by dick pics?“, intervengono sia uomini che donne e, stringendo, anche per un paio di donne che dicono di gradire, il punto è sempre lo stesso: consenso e contesto. Ma, a proposito di potere
Men are generally much bigger and stronger than women and often have a lot more social power. (…) Consequently, if a woman sends an unsolicited pussy pic to a guy, he doesn’t feel threatened because he knows he can easily dismiss her if he doesn’t want her. When a man sends an unsolicited dick pic to a woman, though, there’s a whole different power dynamic. The woman may feel threatened because she knows this man who keeps violating her by sending her pictures she doesn’t want could easily go a step further and have his way with her against her will if he wants to. (link)
Auspichi le donne libere che possano postare e ricevere allegramente nudi e dick pik senza lo stigma dell’essere una facile? Sii un alleato per le battaglie femministe sul lavoro, non puoi avere l’una senza l’altro. Desideri che tua figlia da grande possa vestirsi come le pare, tornare all’ora che preferisce, potersi scambiare selfie e foto scherzose delle mutandine con i draghi con compagni/e di classe senza essere bullizzata, poter prendere i mezzi pubblici senza che qualcuno le metta le mani addosso, avere 13 anni senza che i 40enni la guardino in spiaggia o all’uscita da scuola pensando “è già una donna…”, ecco battiti affinché da grande abbia le stesse identiche opportunità di lavoro, carriera e salario degli uomini senza che nessuno la faccia sentire in dovere di aderire a un modello estetico, o la giudichi da meno perché le donne sono inadeguate a ricoprire posizioni di comando, sono problematiche, emotive, fanno figli…
Ma tornando alla questione principale. Io ho inteso la tua posizione, tu dici “
se gli uomini continuano a inviare dick pic vuol dire che il riscontro è positivo perché altrimenti non lo farebbero, converrebbe loro più non farlo che farlo“. Il fatto è che, al di fuori di un discorso di percezioni, Io non trovo alcun riscontro alla tua ipotesi, piuttosto articoli che puntano nella direzione opposta.
Ne linko uno in cui la giornalista che si è resa disponibile all’invio di dick pic, successivamente ha intervistato diversi uomini proprio per sapere se l’invio del loro pene sia mai stato determinante per concludere: la risposta è no, funziona solo se è già in atto una “
conoscenza“. La giornalista conclude:
And another thing: of all the people I interviewed, not one had actually slept with a woman after sending an unsolicited dick pic. So there could be something in that for all you straight white men thinking about sending a dick pic. Maybe just don’t.(link)
L’articolo è però datato agosto 2017, due anni sono una piccola era su internet, magari qualcosa è cambiato.
Ho trovato altro materiale, ma tutto quello che c’è a proposito della dick pic come tecnica di rimorchio rimanda a molestie e consenso. Non ho trovato nulla che evidenzi un trend per il quale l’invio dei propri genitali faciliti in prima battuta un uomo. Ci sta che una donna non si senta di ammettere “
sì, mi piace che mi si inviino nudi“, ma a questa donna che non si esprime corrisponde la mitomania da bar degli uomini che da sempre millantano conquiste solo immaginarie.
Per chiudere, una riflessione: facciamo conto che sia vero, inviare una dick pic è un approccio vincente, come concili questa pratica con il fatto che solo due mesi fa è stato votato l’emendamento di Boldrini a tutela delle donne vittime di cyberbullismo (e voglio vedere all’atto pratico se farà differenza)? Come possono tante donne gradire un comportamento dal quale allo stesso tempo non hanno i mezzi per difendersi quando non è richiesto?

E’ probabilmente vero che il comportamento e l’educazione femminile non può essere analizzata a compartimenti stagni e che sulla libertà sessuale pesa, in primo luogo, la mancata emancipazione economica della donna. Nella prima parte del tuo commento però fatico un po’ a seguirti, non perchè quel che dici sia sbagliato o non condivisibile, ma perchè mi sembra tu voglia un po’ troppo aprire il campo da gioco e non lo faccia sempre in modo “attinente“.
Commento la seconda parte quindi, provando a rispondere alla tua riflessione. Premessa: hai citato degli articoli che in pratica sostengono mandare dick pics sia inutile, ai fini di cui discutevamo. Per me la cosa non ha senso, ma non ha senso nemmeno mandare dick pics, quindi ecco, ci sta il mio presupposto fosse basato sul un metro di giudizio che evidentemente non è largamente condiviso nel mondo maschile (etero?). Siamo venuti a capo della domanda principale, quantomeno. 
Ora, come possono le donne gradire qualcosa da cui però non possono difendersi? Qui per me torniamo al problema centrale: perchè dovrebbero “difendersi” dalla foto di un cazzo? Nell’articolo che citavi si dice:
“The woman may feel threatened because she knows this man who keeps violating her by sending her pictures she doesn’t want could easily go a step further”.
Io capisco il ragionamento e non mi permetto di dire sia infondato, ma ci sono dei dati a supporto di questa “
paura“? Una correlazione tra foto di cazzi non gradite e effettivi “step further“? Perchè quel che cerco di dire dal principio (probabilmente male) è che una narrazione che sovraccarica comportamenti che abbiamo assodato essere fastidiosi e irrispettosi, di implicazioni violente a mio avviso non fa bene alla causa. E’ sacrosanto diritto della donna non ricevere foto non gradite di cazzi, ma non penso faccia bene averne paura. Non se non c’è un reale motivo per averne. 
In altre parole, estremizzando giusto un po’ per darti l’appiglio a non seguire il discorso e partire per la tangente (
I’m joking), non credi il tuo discorso sugli uomini come macro categoria assomigli ad un certo tipo di discorsi fatti sugli immigrati o i rom, come macro categorie? 

Io vorrei essere stringata e rimanere sul punto della domanda, il problema è che è impossibile, ma non per le mie scarse doti di sintesi, semplicemente perché hai preso in esame un argomento che è interconnesso con un problema risultante da una cultura sociale, politica ed economica che dalla notte dei tempi opprime la donna: il patriarcato.
Tu dici:

“[..]comportamenti che abbiamo assodato essere fastidiosi e irrispettosi, di implicazioni violente a mio avviso non fa bene alla causa. E’ sacrosanto diritto della donna non ricevere foto non gradite di cazzi, ma non penso faccia bene averne paura.”
Ecco, quello che pensi tu è irrilevante, e quello che davvero non fa bene alla causa è che tanti uomini pensino di essere in diritto di avere un’opinione sul cosa e come una donna dovrebbe sentirsi in una posizione disagiata in cui è stata messa. La persona del commento di cui sopra ha intuito giusto: la donna atavicamente è stata delegittimata e privata di potere e nel momento in cui è oggetto di una molestia, oltre alla sgradevolezza dell’atto, c’è anche l’impotenza che deriva proprio dal sapere di non avere alcun potere, e di non avere i mezzi per rispondere adeguatamente, per esempio con una denuncia, se ritiene il caso. Se una donna sente la propria incolumità in pericolo, non conosco la sua storia, le sue esperienze, la sua situazione, e quindi di sicuro non mi sento di derubricare una paura a esagerazione: penso non dovrebbe farlo nessuno.
Ma se vuoi l’estrema sintesi: la liberazione sessuale delle donne è inscindibile dal potere economico, finché la donna non avrà pari opportunità di guadagnare, fare carriera, ricoprire incarichi di potere tanto quanto gli uomini, gli uomini vedranno sempre nelle donne un oggetto sessuale a disposizione, in ogni caso, una persona di rango inferiore.

“Non credi il tuo discorso sugli uomini come macro categoria assomigli ad un certo tipo di discorsi fatti sugli immigrati o i rom, come macro categorie?”
Non saprei, tu ritieni forse che gli afroamericani quando parlano di razzismo trattino i bianchi come macro categoria tipo i discorsi sugli immigrati o i rom? Bisognerebbe essere un afroamericano per saperlo.
Chiudo con un consiglio: Nanette di Hannah Gadsby, disponibile su Netflix, illuminante per la questione femminile.

 

Cinecomics: una chiacchierata con Nanni Cobretti

Per un certo periodo di tempo i blog sono stati una cosa bella. Sia quelli personali, che soprattutto quelli tematici. In questa sorta di “età dell’oro” io avevo identificato essenzialmente tre siti che, quotidianamente o quasi, mi offrivano spunti di riflessione interessanti a tema musica, cinema e serie TV. Non era sempre quello di cui scrivevano, la chiave, spesso era (ed è) come lo scrivevano. Tempo fa ho deciso di provare a fare una chiacchierata virtuale col fondatore del primo di questi tre siti ed andò bene. Un paio di anni dopo dopo fu la volta del secondo e anche in quel caso ne uscì una cosa carina. Da quel momento ho cercato uno spunto per poter chiudere il cerchio e fare la stessa cosa anche con Nanni Cobretti, fondatore e capo supremo de I 400 Calci. Qualche settimana fa, dopo aver visto Logan e Suicide Squad in rapida successione, ho pensato che parlare di Cinecomics con lui potesse essere interessante e così è nato il pezzo qui sotto.
Come sempre non è una vera e propria intervista perchè le mie più che domande sono pipponi faziosi, ma ormai dovreste saperlo. Diciamo che io faccio delle affermazioni più o meno comprensibili a tema e Nanni, con pazienza, cerca di spiegarmi come stanno le cose in realtà.
Chiudo con una nota: prima di conoscere i 400 calci avevo letto dei pezzi su siti che non esistono più e per me furono una vera e propria folgorazione. Ne ricordo uno su un live di Andrew WK, per esempio, così come uno sull’aver visto Twilight al cinema. La firma in calce era un’altra, ma anni dopo scoprii che si trattava sempre di Mr. Cobretti. Grazie quindi a Nanni per aver partecipato a questa cosa, per me è un punto di riferimento e chiudere questa sorta di trilogia con lui è davvero una soddisfazione grossissima.

NOTA: Manq parla e chiede in corsivo,
Nanni risponde giustamente in grassetto.

Io non sono mai stato un lettore di fumetti coi supereroi, neanche da ragazzino, di conseguenza ad entrare nel vortice dei cinecomics ci ho messo un po’ di tempo. Non mi sono mai filato Superman, per dire, e dei vari Batman pre-Nolan ricordo giusto quello di Tim Burton dell’89, mentre tutti gli altri li ho infilati in quell’angolo del cervello in cui stanno film che guardi con gli amici per non stare a casa da solo. Anche gli Spiderman di Raimi li ho visti tranquillamente in home video molto dopo, apprezzandoli il giusto.
Ad un certo punto però è arrivata la Marvel e le cose sono cambiate. Io il click credo di averlo fatto con il primo Avengers. Da lì sono entrato in una sorta di fase completista che mi ha fatto recuperare tantissima roba uscita prima. Per un paio di anni buoni sono stato in fottissima, mi piaceva tutto e non smettevo di volerne ancora. E’ ovvio che le cose non potessero durare ed ora sono nella mia terza fase: la stanca. Guardo ancora tutto ciò che esce al cinema, ho lasciato perdere le derive seriali, ma lo faccio quasi per dovere, non restando mai (o quasi) completamente insoddisfatto, ma uscendo sempre meno volte dalla sala con la sensazione di aver investito bene il mio tempo.
Ora parliamo di mia moglie, che oltre a non avere mai avuto una passione per i fumetti non è nemmeno una fanatica del grande schermo (eufemismo) e quando le capita di dover scegliere un film da un qualsiasi servizio on demand, parte da categorie tipo “cinema in famiglia” o “commedia romantica”. Ecco, lei ha fatto il mio stesso percorso e, ad oggi, non manca in sala un appuntamento che sia uno.
Per arrivare a fidelizzare persone prive delle basi culturali che stimavo necessarie a poter apprezzare questo specifico prodotto deve essere successo qualcosa. Molti dicono che i cinecomics (o forse i Marvel cinecomics) abbiano cambiato il cinema, dieci anni fa. Sei d’accordo? Riconosci al “genere” un merito nella storia del cinema recente? La prendo larghissima, per iniziare.

Partiamo da un dato più grosso: i film Marvel, tendenzialmente, a livello mega-blockbuster, mettono d’accordo pubblico e critica come non succedeva forse dagli anni ’80. Lo fanno a tal punto, e con tale regolarità, che abbiamo ricominciato ad avere delle pretese e persino che non associamo più automaticamente la parola “sequel” all’inevitabilità di un prodotto inferiore, quelle cose che una volta davi talmente per scontato che ti sentivi in dovere di citare Il padrino e Terminator come eccezioni, un po’ come oggi scatta ogni volta identico il mantra “i remake fanno tutti schifo” “e però La Cosa e La Mosca”. Questo alla facciaccia di chi magari è ancora convinto che non diventeranno classici.
La formuletta pare chiara: si scommette tutto sulla sceneggiatura, su personaggi sufficientemente elaborati e umanizzati da far scattare l’empatia, si appiattisce il contorno visivo in modo da renderlo intercambiabile e dare l’idea di questa lunga saga incrociata di cui devi vedere anche gli episodi meno “intriganti” per seguire (quanti hanno visto Ant-Man solo per fiducia e completezza?). Il resto è roba da catena di montaggio: le scene action non puntano più a essere “la cosa più spettacolare che vedrete quest’anno” (formula obbligatoria per i blockbuster post-Independence Day e pre-Avengers) ma vengono addirittura storyboardate dal comparto tecnico prima ancora che venga scelto un regista. Il quale viene spesso pescato tra gente che viene dalle commedie leggere appunto per curare il lato narrativo/umano.
E così incroci tutti, crei un prodotto più solido e universale, e spendi pure meno.
Come formula alla lunga personalmente mi annoia, ma solo un pazzo furioso non ne vede meriti (proprio meriti, non semplice influenza) nella storia del cinema recente.

La formula annoia te e inizia ad annoiare me, eppure il fenomeno sembrerebbe tutt’altro che in fase calante se guardiamo alla quantità di roba in uscita/produzione. E’ una cosa ben oltre il cinema, ormai, ma anche a voler restare focalizzati sui prodotti destinati alla sala tutto sembra tranne che ce ne libereremo a breve. Qualcosa però sta inevitabilmente cambiando.
Leggendo la recensione di Logan sui calci, Jackie affronta il tema del cambiamento parlando di un percorso che sta portando a raccontare la figura dell’eroe in un modo diverso, non più esaltando la sua superumanità (?) ed i suoi poteri, ma focalizzandosi sul peso che queste due componenti hanno sulla parte umana dell’eroe stesso, impegnato soprattutto a non rimanerci schiacciato sotto. Commentando il pezzo non mi sentivo molto allineato, nel senso che io questo percorso non lo vedo per nulla e trovo il tema sviluppato sì in Logan, ma in maniera estemporanea.
Quello che vedo, invece, è un cambiamento del ruolo del supereroe non tanto nello script, quanto nella struttura vera e propria del film. Vediamo se riesco a spiegarmi. Se in principio i supereroi erano ciò che si voleva raccontare, ora sono lo strumento attraverso cui raccontare o addirittura la scusa per poter raccontare qualcosa prendendosi qualche rischio in meno sul botteghino. Guardo Logan e mi trovo a pensare che l’unico ruolo di Wolverine nel film sia portare la gente al cinema a vedere un western cupo, violento e disilluso che, con un protagonista diverso e senza questo richiamo in locandina, avrebbe fatto un centesimo degli incassi. Non c’è la minima continuità con il personaggio nè con l’ambientazione, più che una storia di Wolverine è una storia con Wolverine. Ho questa impressione magari sbagliatissima per cui “Il nuovo film di Capitan America” sarà presto come dire “Il nuovo film di Di Caprio”. I Guardiani della Galassia è un cinecomics perchè tratto da un fumetto, ma è un film di fantascienza/fantasy come potrebbe essere Star Wars. Il secondo Capitan America è uno Spy Movie imbottito di steroidi. Anche Lo Chiamavano Jeeg Robot (su cui mi piacerebbe tornare dopo in maniera più specifica) a conti fatti è grossomodo un episodio di Romanzo Criminale. Forse una roba molto più convenzionale di quel che in realtà si dica di loro sono i Batman di Nolan.
Da un lato non è poi sta grande epifania, perchè dire “tratto da un fumetto” è come dire “tratto da un libro”, eppure per me “tratto da un fumetto” ha sempre avuto un significato chiaro ed identificabile, che solo ultimamente scricchiola.
Tu cosa ne pensi? C’è davvero una volontà crescente di raccontare altro usando i supereroi o è solo un modo per mantenere viva l’attenzione?
Ah, Ant-Man per me filmone.

Logan è un caso isolato a Hollywood per certi versi paragonabile a Mad Max Fury Road. Entrambi, per motivi diversi, hanno goduto di una libertà artistica che normalmente non viene concessa: Mad Max è stato afflitto da una produzione lunghissima e funestata di incidenti che dall’altro lato hanno permesso a Miller di giocare con calma con più idee e approfondire e limare tutto fino al minimo dettaglio; Logan dall’altra parte non ha vantaggi temporali ma nasce come ultimo capitolo dichiarato, e quindi come tributo a Hugh Jackman, come specie di medaglia al servizio. Le regole a Hollywood sono semplici: se vuoi che un film incassi molto devi farlo sembrare interessante, ma fondamentalmente è solo se poi vuoi farne un altro che ti devi anche preoccupare che piaccia. Logan si vendeva da solo (è un film di Wolverine) e non aveva esigenze di sequel: Jackman e Mangold – che comunque hanno contenuto i costi raccontando una storia abbastanza piccola – hanno potuto fare più o meno quello che volevano. Questo per dire: ci andrei piano a prenderlo come simbolico di tendenze, se non “involontariamente” per via del fatto che, pur non avendo giocato affatto sul sicuro, è piaciuto e ha incassato molto. A me interessa di più osservare se il genere supereroistico, oltre a omaggiare il western, ne rifletterà davvero le fortune: il western ha avuto il suo periodo d’oro quando portava al cinema le persone cresciute con quel tipo di storie, che è quello che accade ora coi supereroi. Sono curioso di vedere se subirà lo stesso tipo di contaminazioni e lo stesso tipo di parabola.

Non lo so.
I cinecomics portano al cinema persone cresciute con quel tipo di storie quanto F&F porta al cinema la gente in fissa con le macchine. Certamente si è partiti da lì, ma a mio avviso la fortuna è arrivata scollinando, come dicevo all’inizio. C’è un monte di gente in giro per il mondo che gioca a World of Warcraft, ma per limiti di scrittura e/o di estetica eccessivamente “cafona” il film non ha fatto lo stesso salto ed ha incassato solo in cina (ho questa ipotesi per cui il giocatore medio di WoW abbia pagato un cinese per andare al cinema al posto suo).
Non ho i numeri alla mano e non ho le basi per definire quanti/quali cinecomics abbiano floppato al botteghino, ma da quanto ho letto in giro la parola “fallimento” in Marvel non è pervenuta e la DC è riuscita a portare a casa incassi onestissimi anche per prodotti insalvabili come Batman vs. Superman e Suicide Squad, il cui “sequel” uscirà comunque e ha tutta l’aria di non voler alzare il livello. Probabilmente mi manca qualche pezzo, ma penso di non seguire il discorso. Logan è un prodotto conclusivo, certamente, ma non è l’ultimo X-Men che faranno. Davvero essere la conclusione di un capitolo in un libro ancora in scrittura conferisce così tanta libertà? Non voglio rifarti la domanda di prima solo perchè non ho capito, quindi provo ad ampliare il discorso. Come dicevamo all’inizio, l’impressione è che ci sia ormai un mare magnum di cinecomics che la gente va al cinema a vedere a priori, eppure la DC sceglie di non osare nemmeno con un prodotto concepito per essere eccessivo come appunto Suicide Squad. Per motivi diversi e con modi diversi Deadpool e Logan dimostrano che lo spazio per calcare la mano ci sarebbe e non si rivelano, soprattutto il secondo, quel passo falso che si ha forse paura di fare non volendo associare nella testa del pubblico generalista la parola cinecomics alla parola violenza. Eppure tu stesso sottolinei non possano che essere eventi sporadici.
Tirando le somme: Mamma Marvel i toni li cambia bene tra i diversi prodotti, ma resta pur sempre Disney e ci sono direzioni che credo le siano precluse. Quello spazio potrebbe essere riempito, nell’ottica di diversificare, raccontare qualcos’altro e provare a crearsi un’identità, da Fox e DC. La prima ha sondato il terreno solo con prodotti sulla carta senza prospettive e non mi pare intenzionata a tornarci su seriamente nonostante le sia andata tutto sommato gran bene (in questo senso sono piuttosto curioso di vedere che roba sarà il secondo Deadpool). La seconda… boh, non ho ancora capito dove voglia andare a parare.
Ci deve essere una logica in tutto questo, anche se io non la vedo, quindi mi piacerebbe se la spiegassi provando a valutare le mosse dei tre player e dando un quadro d’insieme.

Ma i cinecomics sono ormai un intero genere a parte, con le sue regolette, convenzioni e luoghi comuni. F&F è solo un franchise, WoW solo un brand. Unbreakable di Shyamalan è un film nel suo complesso semi-orribile, ma è un dramma che – con anticipo clamoroso – rielabora il genere supereroistico proprio come oggi qualcuno rielabora i western nella forma di qualcos’altro. Il campo è quello, e sono curioso di vedere quali altri similitudini persisteranno, se lo faranno. Un giorno magari saranno i cinevideogames a essere la norma, e qualcuno dirà (sparo a caso) “oi, avete notato che la trama di Trevor, lo spin-off di GTA, è un cinecomic moderno?”. Nel frattempo gli X-Men saranno andati avanti un altro po’ con un Wolverine diverso (ma chissa’ quando avranno davvero il coraggio di eleggerlo).
Detto questo, se le sperimentazioni funzionano si proseguono, e la Sony ha appena annunciato Venom versione fanta-horror Rated R ispirato a La Cosa di Carpenter.
Il futuro non e’ facilissimo da decifrare, pero’ la distinzione piu’ ovvia da tenere a mente e’ che la Marvel ha creato al proprio interno i Marvel Studios con il preciso scopo di dare a Kevin Feige un’intera area esclusiva dedicata alle produzioni cinematografiche e televisive, mentre la DC non ha nulla di simile e per ora sta solo affiancando Geoff Johns a un trio semi-improvvisato composto da Christopher Nolan, David Goyer e Zack Snyder (che comunque hanno gia’ compiuto una serie di scelte precise e vincenti sul lato principalmente estetico), e dall’altra parte Fox e Sony sono rimaste abbandonate a loro stesse a proseguire sostanzialmente tra inerzia e botte di culo.
I film Rated R aumenteranno perche’ hanno funzionato e incassato bene, ma credo che rimarranno una via percorribile solo da brand che hanno un target preciso in quel senso (Deadpool, o Lobo che probabilmente sta aspettando gli incassi di Deadpool 2 per avere il green light) o in generale da film che possono permettersi di rischiare. Di certo non da quelli che costano $200 milioni.

Ci sta.
L’ultima domanda mi piacerebbe dedicarla alla situazione di casa nostra. “Lo chiamavano Jeeg Robot” è stato decisamente il caso cinematografico dello scorso anno: ha riscosso consensi trasversali da pubblico e critica e, soprattutto, si è imposto agli ultimi Sylvester in tutte le categorie che contano. Io andai a vederlo al cinema fomentato proprio dalle belle parole spese dai calci e ci rimasi un po’ così. Le parti decisamente italiane del film, quelle che raccontano la malavita del nostro Paese come da Romanzo Crimimale in poi sappiamo fare gran bene, per forza di cose risultavano un po’ eccessive e caricaturali. Ci sta, nell’ottica “fumetto”, il calcare i tratti caratteristici dei personaggi, però sul napoletano che mangia le mozzarelle (forse erano babbá, non ricordo) io ho accusato il colpo, per fare un esempio. Dall’altro lato, le parti fracassone in cui il lato fumetto sarebbe dovuto arrivare prepotente, mi son sembrate un bel po’ loffie. Risultato: un mix di due registri che per essere coerenti tra loro ne sono usciti gambizzati entrambi, nonostante sia indiscutibile gli attori principali fossero tutti in grande spolvero.
Non ti chiedo un parere sul film, a meno che tu non voglia illustrare quanto sia sbagliata la mia analisi, ma guardo più che altro alla situazione del cinema italiano in questo nuovo “genere” supereroistico. È palese i mezzi del nostro cinema non arrivino a quelli di Hollywood, quindi perché correre in quella categoria? Non sono un esperto ma credo la nostra cultura fumettistica possa offrire materiale assai più semplice da trasporre anche con mezzi limitati, senza andare ad infilarsi in storie di super poteri e città demolite che soffriranno sempre un po’ il paragone.
In fin dei conti in un film di supereroi l’impatto visivo avrà sempre un lato importante e per quanta qualità di scrittura ed interpretazione ci si metta, da sole rischiano di non bastare. Da quel lato, per esempio, film come Smetto quando voglio mostrano molto meno il fianco e finiscono per risultare (a me) pensati meglio.
No?

In questo momento, da tifoso della cinematografia italiana nel senso ampio e “industriale” del termine, mille volte un film imperfetto che sblocca la situazione di uno perfetto che rimane nella nicchia da dove proviene. Smetto quando voglio è impeccabile ma è ancora superficialmente vendibile come commedia classica e bisogna guardarlo per accorgersi che osa ben di più (e non ho visto il sequel che mi si dice alzi ancora di più la scommessa). Jeeg Robot è più arrogante e non può nascondersi, e il suo pregio maggiore è proprio quello di avere azzeccato almeno gli ingredienti base per “localizzare” il film di supereroi in un modo che fa convivere entrambi gli aspetti – il film saldamente piantato nella cultura italiana e il cinecomic – senza farli stonare e senza vergognarsi né dell’uno né dell’altro. E azzecca diverse cose incredibili anche a livello assoluto, basti vedere ad esempio quant’è impietoso il confronto tra il Joker di Jared Leto e lo Zingaro di Marinelli. Sono anche il primo ad ammettere che non ero convinto avrebbe funzionato col grande pubblico, un po’ perché il personaggio della Pastorelli è delicatissssimo e temevo respingesse, un po’ perché effettivamente il finale spaccone suda visibilmente a cercare il miglior compromesso fra teoria, risorse e resa. Però sono felicissimo che abbia fatto bella figura e abbia effettivamente ispirato non solo il pubblico ma tutta l’industria, e che stia gradualmente passando la paura di proporre film “di genere”. Il sottobosco italiano è imballato di gente che non vede l’ora di girare horror, action o sci-fi, e sarebbe ora di tornare ad ammettere che ci mancano solo il coraggio e la lungimiranza.

Gli SPOILER: una chiacchierata con G. Di Giamberardino

Recentemente ho chiacchierato via twitter con Giovanni Di Giamberardino in merito al concetto di SPOILER. Giovanni, che forse alcuni conoscono anche come Reifrak, è un giovane scrittore che ha contribuito alla creazione di Serialmente e che scrive di serialità televisiva in un sacco di posti interessanti, come Rolling Stone o Bad TV. Siccome ho pensato che la discussione fosse promettente ed interessante, ho chiesto a Giovanni di rispondere in maniera un filo più articolata, diciamo uscendo dai 140 caratteri, ad alcuni quesiti a tema SPOILER e quello che segue è il risultato della sua disponibilità. Cosa di cui, ovviamente, lo ringrazio. Non è una vera e propria intervista perchè le mie domande sono in realtà opinioni travestite, proprio come la volta scorsa, però credo sia qualcosa che può valere la pena leggere.
Giorni fa avrei precisato che nel pezzo ci sono diversi SPOILER, ma dopo averne parlato con Giovanni ho capito che non è così, quindi leggete sereni. Ipotizzio che la presenza o assenza di SPOILER possa tuttavia essere uno SPOILER di per se stesso sul contenuto del pezzo e realizzo che forse avrei dovuto chiedere un chiarimento anche su questo.
Le mie non-domande sono in grassetto, per facilitare la lettura, ma soprattutto perchè il blog è mio e mi piace darmi importanza.

L’altro giorno mi sono imbattuto in un tuo twitt, in cui riportavi una notizia relativa all’uscita dal cast di uno dei protagonisti di una serie abbastanza seguita. Io ho letto quanto scrivevi e ho pensato che, se fossi tra gli spettatori della serie in questione, la cosa avrebbe potuto infastidirmi.
Nei tempi in cui viviamo credo che la questione dello SPOILER sia ormai argomento piuttosto difficile da canonizzare. Il tutto è lasciato all’etica, o sensibilità se vuoi, del singolo individuo senza nemmeno uno straccio di indicazione o linea guida, probabilmente per il fatto che la Bibbia, di SPOILER, non parla. Una volta ho detto che l’ultimo libro di R.R. Martin è orrendo e mi è stato risposto che avevo fatto uno SPOILER. Storia vera. Questo è accaduto nello stesso mondo in cui titolare un articolo per la home di un quotidiano tipo Repubblica con il nome del vincitore di Masterchef un giorno prima della messa in onda della finale del programma è del tutto normale. O quantomeno lecito. C’è confusione, insomma.
Per iniziare quindi ti chiedo se esiste un’etica dello SPOILER universale, se ci sono delle regole tipo nel bowling o se invece la cosa è più simile al Vietnam. E poi, già che ci siamo, vorrei sapere quanto sei suscettibile tu agli SPOILER, quale che sia la definizione, o soglia se vuoi, che dai al termine.

Allora, io comincerei proprio dal significato del termine. SPOILER viene dal verbo inglese TO SPOIL che significa “guastare, rovinare”. Quindi SPOILER è letteralmente “ciò che rovina”, in questo caso ciò che rovina la visione di un film, la lettura di un libro. E cos’è che le rovina? Sapere cosa succede. Perché se so che succede poi che me lo guardo/leggo a fare?
Lo SPOILER perciò è legato principalmente alla trama ed è qualcosa che può essere detto solo da chi ha visto/letto il qualcosa in questione. E’ un’informazione che proviene direttamente dal testo, o da chi in questo caso te lo “rovina”. Questo quindi esclude dichiarazioni ufficiali e comunicati stampa.
Facciamo un esempio: se Repubblica mi scrive il finale di Harry Potter come titolo di un articolo è SPOILER, perché è un’informazione che avrebbe potuto ottenere solo dal testo. Se un anno prima un attore di una serie tv non rinnova il contratto e il canale e la casa di produzione rilasciano un comunicato assieme agli autori, beh, quello non è uno SPOILER. Diventa uno SPOILER se qualcuno venisse a raccontare gli eventi, all’interno della storia, che porteranno all’uscita di scena del personaggio.
Riassumendo, lo SPOILER parte dal testo e poi esce fuori, un movimento dall’interno all’esterno. Se un’informazione parte dall’esterno non è SPOILER, anche se sappiamo che avrà delle conseguenze sulla trama stessa, ma non sappiamo quando e in che modo. E’ come sapere prima che la stagione di una serie sarà l’ultima: sappiamo che finirà ma non sappiamo come. Informazione esterna che avrà una ricaduta interna che però non conosceremo finché non verrà rivelata dal testo stesso.
Questa è almeno la definizione comunemente accettata di SPOILER. Poi ovviamente ognuno ha la sua sensibilità. La mia migliore amica per esempio mi ha nascosto da fb perché anche solo leggere “episodio bello” o “episodio brutto” nei miei commenti la far star male. Però ecco, lo SPOILER è un’altra cosa.

Conosciamo entrambi persone strane, te lo concedo. La tua definizione mi funziona bene, così come trovo interessante riflettere sul fatto che, effettivamente, l’uscita dal cast di un protagonista non riveli poi granchè sulle trame che vedremo sullo schermo.
Ad inizio mese sono andato al cinema a vedere Fast & Furious 7. Sapere che Paul Walker fosse morto durante le riprese mi ha messo in una particolare condizione per cui ogni scena drammatica in cui era protagonista, ogni dialogo, ogni riferimento più o meno marcato alla morte colpiva forte e duro per motivi che però, di fatto, esulano dalla realizzazione delle scene stesse. Sapere della morte di Paul Walker non è ovviamente uno SPOILER, ma è un’informazione non necessaria alla visione del film che altera di fatto la percezione e la valutazione di chi guarda. Te lo puoi godere di più o te lo puoi godere di meno, non importa. La tua relazione col prodotto è alterata. Butto lì un’altra parola maiuscola che c’entra con tutto questo: META. Se vuoi la spieghi tu, che mi sembri preparato.
Andando alla domanda, la dimensione che il fenomeno Serie TV ha acquisito nel mondo genera una montagna di materiale ad esso correlato fatto di interviste, commenti, recensioni, siti specializzati, speciali in TV e via dicendo. I media tradizionali pescano da queste fonti in maniera copiosa e gli spettatori stessi discutono quotidianamente sui social di quanto sentono e leggono. Guardare una serie TV e basta, senza “dietrologia”, è diventato oggettivamente impossibile. E’ bello che chi voglia approfondire possa farlo, ma non dovrebbe essere possibile l’opzione “grazie, anche no.”?

Non è una questione di approfondimento, ma di informazione e l’informazione è libera. Quando un attore lascia il cast di una serie tv per unirsi come protagonista al pilot di un’altra serie, come è possibile tenere nascosta questa informazione? E per il bene di chi? Si apre subito una discussione più complessa: sulla bilancia cosa pesa di più, il mondo in cui viviamo o uno (degli infiniti) mondi di finzione? E’ più importante il diritto di cronaca o quello dello spettatore? Ha più diritto l’attore a comunicare la sua uscita di scena e annunciare il suo prossimo progetto o ha più diritto il fan a non volerlo sapere in modo da proteggere il mondo di fantasia che ama? O hanno più diritto gli autori a proteggere il loro processo creativo? O i produttori a salvaguardare la loro proprietà? Insomma, i diritti di chi battono i diritti di chi altro?
Altra considerazione da fare è stabilire se divulgare una determinata informazione rechi davvero un danno al pubblico: quando un personaggio è molto amato comunicarne l’uscita è anche un modo per preparare lo spettatore all’evento e attutire il colpo. Per esempio, nei giorni scorsi Nina Dobrev di The Vampire Diaries ha annunciato che al termine della sesta stagione non farà più parte della serie, nonostante ne sia di fatto la protagonista. Se questa notizia fosse stata tenuta nascosta forse il colpo inferto ai fan sarebbe stato troppo grande. D’altronde il legame che il pubblico instaura con i personaggi di una serie tv è molto più profondo e famigliare rispetto ai personaggi di un film o di un libro. Quindi i fan come avrebbero reagito meglio? Sapendolo o non sapendolo? Aggiungo una domanda più “smaliziata”: conviene di più agli autori, al canale e alla produzione comunicare la notizia per indirizzare le possibili responsabilità all’attore e nella pratica scaricare su di lui la “colpa” di questo avvenimento e proteggere l’integrità della serie?
Ci sono ovviamente casi in cui produttori, canale, autori, maestranze e attore riescono a mettersi d’accordo per costruire l’uscita di scena di un attore in modo da sconvolgere il pubblico, come successo l’anno scorso con The Good Wife. E ci hanno guadagnato tutti: per qualche settimana non si è fatto che parlare della serie. Esistono tuttavia delle controindicazioni: è stato quasi impossibile per chi non avesse seguito la serie live non venire a conoscenza di questa brusca uscita, proprio per la discussione accesa che ne è conseguita. E qualcuno a questo punto potrebbe controbattere: ma non avrebbero fatto meglio a comunicare l’addio dell’attore alla serie con anticipo e preparare tutti i fan a questa svolta invece che danneggiare quelli che, poverini, proprio quella sera non avrebbero potuto guardare la puntata e lo sarebbero venuti a sapere, volenti o nolenti?
Lo vedi, è complesso. Anche dopo essere riusciti a incasellare per bene lo SPOILER (un’informazione narrativa che parte dal racconto per essere rivelata all’esterno) e a trovarsi d’accordo sulla sua dannosità (qualità più sfuggente però, in quanto dipende dal tipo di informazione interna divulgata), resta l’ultima considerazione: per quanto uno SPOILER è uno SPOILER? Se io oggi parlo tranquillamente del finale del Sesto Senso, o del fatto che Darth Vader è il papà di Luke Skywalker, faccio davvero uno SPOILER? Se dico che Anna Karenina muore, è sempre uno SPOILER? E allora quand’è che non lo è più? Quando un’informazione narrativa smette di essere informazione ed entra a far parte della cultura collettiva? Quando smette di essere in torto quello che ti dice come finisce “I dolori del giovane Werther” e comincia a essere ignorante quello che non lo sa?

Questa cosa che sei tu a fare le domande mi destabilizza, credo anche per via del fatto che non so rispondere. Vorrei evitare di lanciarmi in voli pindarici iniziando una discussione sul diritto di cronaca che probabilmente finirebbe per sollevare ulteriori questioni legate non tanto al dovere di informare, ma più che altro al clickbait e allo sfruttamento dell’indole al voyeurismo che caratterizza la nostra specie in questo tempo. Non è il caso, direi.
Mi interessa invece di più discutere dell’ultimo punto che sollevi, la dinamica temporale. Il sito della Fox che pubblica la foto di Beth con il mid-season finale di The Walking Dead conclusosi da picosecondi per molti fu SPOILER. Scriverlo adesso qui sopra probabilmente non lo è più. L’ipotesi che tiene conto del tempo immagino presuma che le persone realmente sensibili allo SPOILER siano quelle interessate al prodotto, ovvero quelle che indipendentemente dal rischio colmeranno la loro lacuna nel più breve tempo possibile diventando così immuni. Passata una ragionevole porzione di tempo (che mi aspetto tu sia pronto a definire con precisione svizzera), chi ci teneva è al sicuro e quindi liberi tutti. La cosa mi funziona perchè, parlando personalmente, io leggo costantemente spoiler di serie/film/libri che non conosco senza pormi il problema, conscio che se mai dovessi recuperarli certamente quell’informazione non sarebbe radicata a sufficienza nella memoria da costituire un effettivo scoglio. Funziona tutto, apparentemente, eppure mi restano ancora dei dubbi.
Se ti consigliassi un giallo di Agata Christie e per presentartelo ti rivelassi l’assassino credo sarebbe uno SPOILER, anche se non si tratta propriamente di opere appena uscite. Certo, potrei darti dell’ignorante perchè non conosci quel libro, e magari avrei anche ragione, ma con ogni probabilità se tu l’avessi già letto non avresti avuto il bisogno di parlarne con me e chiedermi se ne valesse o meno la pena. Se ho battuto il record del mondo di forme e tempi verbali sbagliati, chiedo scusa. Ciò che intendo è che nella maggior parte dei casi chi si lamenta di aver subito uno SPOILER è qualcuno che si vuole avvicinare ad un prodotto da cui è incuriosito, ma che ancora non ha approcciato. A queste persone si può certamente dire che avrebbero potuto svegliarsi prima, ma a che pro? Non sarebbe meglio limitarsi a parlare delle opere senza rivelare dettagli di fatto ininfluenti? Da quando recensire un libro, un film o una serie è diventato farne il riassunto? E’ colpa delle scuole medie? La cosa che mi lascia ancor più sgomento, è che poi chi legge in molti casi è proprio il riassunto che cerca, salvo poi lamentarsi del fatto che contenga gli SPOILER.

Allora, se ti do un libro e ti dico come finisce proprio mentre te lo do, beh questo riguarda la sensibilità personale e alla fine è qualcosa che riguarda me e te e il fatto che probabilmente ti detesto (o almeno è ciò che il gesto in sé pare suggerirmi). Mi sembrava però che stessimo facendo più un discorso diciamo “istituzionale” riguardo la comunicazione per canali ufficiali, senz’altro più interessante. Cos’è uno spoiler? E quando uno spoiler non è spoiler? E quando è uno spoiler con intenzioni malevole c’è l’aggravante? Secondo me sì e la pena dovrebbe essere l’esilio.
Poi sulle recensioni apri una discussione in cui potremmo perderci, che riguarda più che altro lo “stato dell’arte” della critica di oggi, che spesso scrive senza avere niente da dire o che ancor più spesso, come dici tu, nemmeno è critica.

Scrivere di musica: una chiacchierata con FF

Questo pezzo è costituito da uno scambio di mail tra Manq (a.k.a. io) e Francesco Farabegoli, l’uomo dietro a BASTONATE noto anche come FF, @disappunto, kekko senza la z finale e probabilmente altro. Tutte e dieci le persone che frequentano questo blog ormai dovrebbero sapere che BASTONATE per il sottoscritto è un sito di musica che andrebbe letto e così, dopo aver passato un po’ di tempo a pensarci su, ho deciso di chiedere a FF se avesse voglia di fare una chiacchierata a tema “scrivere di musica”. Ha accettato e questo è quello che ne è venuto fuori. Non la definirei intervista perché le domande sono in realtà farcitissime di opinioni e questo per me in un’intervista è sbagliato. Però ecco, nel dire la mia gli chiedo delle robe e lui, dicendo la sua, risponde.
A tal proposito, mi prendo l’ultima riga per ringraziarlo della disponibilità. [SPOILER] A quanto pare difficilmente si nega a questo tipo di cose, ma a me fa comunque tanto piacere che nello specifico abbia accettato.[/SPOILER] E’ un pezzo lunghissimo, ma secondo me dovreste leggerlo.

Tu scrivi molto spesso di musica e la targhetta dice che nel 2013 l’hai fatto particolarmente bene. Io leggo praticamente sempre quel che scrivi, ma a memoria non ricordo un disco di cui hai parlato bene che mi piaccia.
All’inizio pensavo che il trucco fosse nel fatto che leggevo i tuoi post sui Fugazi come leggo racconti che parlano, chessò, di gente che ammazza altra gente. Non serve essere affine all’esperienza raccontata per godersi il pezzo. Però non è così, nel senso che se leggo una tua cosa (pure oggi, con la statistica che ormai rema davvero contro), di norma mi prende la voglia di ascoltare ciò che ci sta dietro. E no, non mi prende voglia di fare stragi quando leggo di killer, di conseguenza non è solo come scrivi, ma inevitabilmente anche quello di cui scrivi. Tutto questo fa un po’ a pugni col concetto per cui, alla fine, leggere di musica resta idealmente un controsenso totale. Prendere un disco e ascoltarlo dovrebbe funzionare meglio di leggere mille battute sul tema, per farsi un’idea o addirittura un’opinione in merito. Questa autosufficienza non è estendibile ad ogni contesto e credo di divagare troppo dicendo che pensare lo sia è uno dei mali maggiori del nostro tempo, ma insomma, per la musica credo funzioni senza troppe controindicazioni. Quello che mi piacerebbe sapere, per cominciare, è se scrivi di musica perché ritieni sia invece necessario spiegarla a chi non può evidentemente farcela da solo. Cosa che, nel mio caso, farebbe il paio col fatto che ogni volta dopo aver letto il tuo pezzo, ascoltato il disco (o parte di) e averlo trovato orrendo mi ritrovo addosso un senso di inadeguatezza.

Ti faccio un esempio: ultimamente sono ossessionato dal disco nuovo di Lady Gaga. Ok? Il disco nuovo di Lady Gaga è un disco che non piace quasi a nessuno, ma a me mi sta scoperchiando il cervello e penso che sia una delle opere più poderose del passato recente e mi metto lì a ragionarci sopra, ci perdo un pomeriggio, faccio collegamenti, eccetera. Ok? Nel momento in cui scrivo del disco di Lady Gaga ti racconto un pezzo di me, cioè non ho la pretesa di raccontarti perché il disco dovrebbe piacerti. Ti racconto perché piace a me, che cosa mi smuove, eccetera. Eventuali momenti in cui mi son sentito nel passato come quando ho sentito ARTPOP, premesse ideologiche, analisi dei costi, eccetera. Per dire, a me interessa più l’intensità della musica di quanto mi interessino le canzoni, ok?, e il disco di Lady Gaga per me è di un’intensità devastante, non so dirti, sembra scritto con un coltello alla gola. Poi uno arriva, magari non ci trova i singoloni crassi e ignoranti alla Poker Face e pensa “boh, no, per me è una merda”. Ci sta, voglio dire. Se tu mi dici “la musica che ascolti mi fa schifo ma leggo comunque i tuoi pezzi”, non so, per me da una parte è il complimento più bello che mi puoi fare e dall’altra è una cosa ovvissima, quasi banale. Voglio dire, io non conosco tanta gente coi miei gusti musicali. Si può dire che conosco una sola persona con dei gusti musicali che rispecchiano i miei: se dovessi stare a quelli che la pensano come me, immagino mi toccherebbe chiudere bottega.
Sulla componente educativa dello scrivere di musica, non lo so. Per me la musica e lo scrivere di musica sono due cose diverse. Ora magari è facile dirlo: mi conviene farmi un’idea del disco ascoltandomelo piuttosto che leggendo quello che scrive la gente su quel disco, senza dubbio; e quindi lo scrivere di musica deve essere qualcos’altro. Però, se ci penso, quando ho iniziato a leggere le riviste mi facevo un mio viaggio mentale su dischi che non avevo mai ascoltato, così a prescindere, era una parte del gioco. Era un viaggio mentale disgiunto da quello che diceva il pezzo, magari: ti leggi una recensione e ti sembra troppo carica di insulti o campata per aria, e ti fai un’idea del disco che è il contrario di quello che hai letto, senza aver sentito il disco.
Venendo a me e te, non sono io a doverlo giudicare ma credo che la roba che scrivo abbia una componente narrativa in cui qualcuno si ritrova, molto di più che nei gusti musicali, quindi magari è quella –magari gli Shellac non sono il tuo gruppo preferito, ma il tuo gruppo preferito fa una musica che ti dà quello che gli Shellac danno a me. Non lo so. Tu riconosci l’autorità critica di qualcuno tra quelli che leggi? Tipo “se ne ha parlato bene lei/lui mi fido”?

No. Però secondo me c’è tutto un mondo tra leggere un pezzo a tema ARTPOP apprezzandolo anche parecchio e leggere un pezzo a tema ARTPOP e ritrovarsi alla fine con la voglia di capire se ci siano le condizioni perché anche a me possa scoperchiare il cervello. Poi quello che succede dopo aver ascoltato il disco conta relativamente nell’ambito del discorso che stiamo facendo. Che importa è arrivare ad ascoltare i pezzi invece di chiudere il browser dopo una lettura piacevole. Una delle cose più belle che mi sia mai capitato di leggere su un blog l’ha scritta XXX (NdM: privacy) in merito ad un live di Andrew WK (qui), ma ciò nonostante non gli riconosco la portata di cui sopra. Per me è questo il punto della questione ed è una cosa che, se me lo chiedi, dipende da chi scrive mentre per molti sta nella curiosità di chi legge. Sempre in tema di valutazioni personali, per me non è affatto ovvio parlare a molti scrivendo di qualcosa che poi piace a pochi, perchè assodato che non stiamo analizzando il piacere di una lettura indipendente dal suo contenuto, viene fuori tutta quella cosa dello scrivere della passione che sta dietro alla musica e dei fenomeni che la musica smuove. Cose che possono essere indipendenti sì dal tipo di musica di cui si discute, ma che non possono prescindere dall’avere la musica al centro invece di, chessò, le sementi. Poi magari domani apri un blog sulle sementi, io lo leggo e reagisco tipo: “PERCHÉ’ CAZZO NON HO UNA SERRA SUL BALCONE?” e allora il discorso cade. Ma non ho motivo di pensare sia così, oggi. La cosa che dici sul farsi il film di come suona il disco di cui hai letto prima di averlo sentito per me è vera oggi come ieri, tanto più la parte in cui valutazioni e ipotesi sono disgiunte dal suono ed entrano nel merito dei giudizi del recensore.
Tu hai un blog su cui scrivi della musica che ti piace, che poi credo sia l’operazione che sta alla base di chi scrive di musica per puro diletto. Mi piace una roba e ne parlo, fenomeno che prevede la stroncatura nella misura in cui parli di qualcosa che ti ha fatto schifo, ma in virtù del fatto pensassi/sperassi potesse essere buona quando l’hai approcciata. Quando io ho iniziato a scrivere di musica (che abbia scritto e scriva tutt’ora di musica è un fatto che esula dal merito dei risultati ottenuti) a tutto questo aggiungevo un livello ulteriore: la necessità. Per me era necessario che qualcuno parlasse della musica che mi piace. Chiarita la tua idea sulla valenza educativa dei pezzi, vorrei capire quanta importanza ha su BASTONATE l’aspetto divulgativo e, già che ci siamo, anche se ti fila il discorso sulla stroncatura unicamente come espressione di delusione oppure reputi sia un mezzo necessario ancora una volta a diffondere il tuo messaggio di cosa è sbagliato. Che poi in merito una mia idea leggendoti ce l’ho, ma vorrei capire se è giusta.

In linea di principio Bastonate nasce come blog divulgativo, verso i primi anni duemila. C’era questa idea di mettere in piedi una webzine che parlasse solo di sludge, approfonditissima, molto dettagliata, molto specifica. Così insomma i primi pezzi su Bastonate erano tipo “c’è questo gruppo nuovo, c’è questo gruppo con nome stupido, c’è questo streaming” e cose simili. Come impostazione l’abbiamo mollata per due motivi: il primo è che ci annoiavamo, il secondo è che non ascoltiamo dischi a sufficienza. L’altro giorno ho incontrato Matteo, che è quello con cui l’ho aperto, e mi ha detto che nel 2013 ha ascoltato tre dischi nuovi. Forse ora sono sei. Metti che io ascolti trecento dischi nuovi all’anno: è comunque tutta roba che mi rimbalza addosso, non è roba che vado a cercare con la lanterna o cosa. quasi tutto mi piomba a casa, e quindi la mia sensazione è che non sia così necessario mettersi a pompare questa musica.
Un’altra cosa che è importante si rifà a quel discorso che ti facevo prima: nello scrivere di musica, la cosa principale è lo scrivere. Così insomma, da un paio d’anni l’unica regola fissa su Bastonate è che il pezzo dev’essere buono. Se il disco è buono e il pezzo non è buono, il pezzo non esce. Naturalmente “buono” vuol dire tante cose, a volte escono delle ciofeche però magari hanno dei passaggi che mi piacciono, oppure contengono un punto di vista interessante, oppure hanno un bel corredo di immagini, non so. la cosa brutta dei pezzi divulgativi, informativi e quel che è, in senso stretto, è che non sono buoni quanto gli altri perché non raccontano una storia o ne raccontano una banale. poi ovviamente un riscontro diciamo pop c’è sempre, sia chiaro: se parlo di katy perry faccio più accessi che se parlo dei Bongzilla.
riguardo alla stroncatura, segue più o meno quello che ti ho detto sul resto. Se la stroncatura è buona la metto, se non è buona non la metto. Ogni tanto ne parlo con Enzo Baruffaldi, che cerca di convincermi che la stroncatura non ha grandissimo senso ed è molto meglio censurare il pezzo sul gruppo. ecco, ok, è un modo di vedere le cose, non so, la musica mi dà ancora molte emozioni -anche negative. E poi ha senso perché la stroncatura si basa su un concetto di appartenenza tribale piuttosto forte, almeno per gli standard della roba di cui stiamo parlando. Se stronchi un gruppo come i Sonic Youth, per dire, sai benissimo chi sarà tuo amico e chi sarà tuo nemico. Se promuovi i Sonic Youth, invece, è probabile che nessuno te ne chieda mai conto. Quindi in prospettiva diventa importante stroncare, un po’ per dare un’idea generale di cosa vuoi dalla musica (è importante far trasparire una visione d’insieme, o la gente non entrerà mai in sintonia con la tua roba), un po’ per dare al tuo scrivere un’impronta, assumerti la responsabilità di non piacere a qualcuno. è per quello che scrivere stroncature è così divertente: non sono gli insulti al gruppo, è sapere che stai deliberatamente mettendo i bastoni tra le ruote a qualcuno che magari non ti ha fatto niente. dà una certa forza allo scrivere.

La cosa di assumersi la responsabilità di non piacere a qualcuno è bellissima. Io non credo di esserci portato, ad una roba del genere, quindi probabilmente parlo per invidia. Porsi contro come veicolo per definire se stessi e il proprio prodotto funziona moltissimo, ma a volte prende il sopravvento e detta le priorità in un pezzo a tema musicale. Parti costruendoti una certa figura nell’ambito della critica musicale, definendoti, e poi magari arriva il prodotto che ti spiazza (no, ok, esagero, però diciamo che non è facile collocare dentro o fuori) e si crea quel dilemma per cui parlarne bene o male dipende molto più dall’aderire al proprio manifesto che non alla reale portata del prodotto. E poi a cascata, con i lettori che si collocano a seconda dei pezzi scritti dalle loro penne/tastiere di riferimento. Cosa che, nei tempi dell’internet, porta inevitabilmente a stormi di opinioni intrecciate e radicali difese fino alla morte da gente che magari il disco deve ancora ascoltarlo. Ipotizzo. Che poi è lo stesso bisogno di appartenenza che ti porta a decidere di ascoltare quel genere musicale quando hai dodici anni ed è la via per virare da babbo ad alternativo senza cambiare nulla della tua quotidianità. Mentre scrivo, realizzo che probabilmente il web è pieno di dodicenni esattamente in quel momento della loro vita e che andrebbero valutati come tali invece di dar loro rilevanza solo perché il nick non ha credenziali anagrafiche. E capisco anche che ogni tanto ho la tendenza a parlare del web come fosse un’entità precisa e codificata E come io fossi un grillino o uno di Repubblica. Ok, è anche il momento di andare a parare da qualche parte con questa domanda. Tu dici che, cito, “una cosa radicale/violenta può essere fatta solo da qualcuno che pensa in un modo radicale/violento per me non è chiusura mentale, è buon senso.“. Dargen D’Amico sostiene: “Se io avessi un pubblico propriamente indie, non mi sognerei mai di partecipare a Sanremo, sarebbe un suicidio…“. Io di mio capisco che il tutto ha un suo senso legittimo e coerente, ma mi trovo a relazionarmi con l’essere nato in una buona famiglia, vivere in un contesto da ceto medio, non aver mai assunto droghe e lavorare tutti i giorni per una casa e una famiglia MA ascoltare prevalentemente roba che parla di disagio, droga, violenza, vita irresponsabile fino ad arrivare a pochi, ma presenti, adoratori del Demonio (che reputo peggio degli adoratori di Dio. E’ come credere nello sport e tifare Juve, tipo.). E non discuto ci sia un grosso problema di coerenza in me, ma arrivare a dovermi sentire fuori posto perché mi piace un genere musicale che non fitta con la mia estrazione sociale è disturbante. La domanda è: conta davvero così tanto l’essere coerenti nel fare e nello scrivere di musica?

Sai se mi dici LA COERENZA a me viene in mente, non so dirti perché, mia mamma che a quindici anni mi tira il cazziatone in privato per come mi vesto, e poi in pubblico mi difende dicendo “MA SÌ DAI È LA MODA E POI L’IMPORTANTE È CHE STANNO BENE LORO”. Questa cosa nella musica corrisponde ad ascoltare la musica che cazzo ti pare e piace, e quindi direi che l’estrazione sociale non c’entri niente. Io però a uno che grida contro il capitale e ha la villa poco fuori Bertinoro non gli credo, così come non credo a uno che canta STRAIGHT EDGE e quando scende dal palco si scola una birra. Nel pezzo che mi citi parlavo dei Deafheaven e descrivevo un genere musicale: quel black metal da cameretta fatto di dieci minuti di chitarra plin plin e pedali a manetta e poi cinque minuti di urla selvagge effettate e chitarre pese a pioggia. A me quella roba è sempre sembrata poco di pancia, molto frutto di sforzi intellettuali, e allora magari tra le due mi sento un Trucebaldazzi che quando canta io ciò troppo odio sai che è vero e l’odio lo senti proprio uscire dallo stereo. Però insomma è solo un’idea mia sulla faccenda. Essere coerenti nel fare musica, non lo so, è una delle cose. Non mi piace la parola. COERENZA mi sembra una cosa che ti fissa a uno standard che magari non sei stato nemmeno tu a fissare. Mi viene da pensare a termini alternativi e mi vengono in mente parolacce tipo RIGORE o ETICA o ONESTÀ; ma io non lo so se questa roba definisca quello che ho in testa. Non so, decidere che la tua musica deve passare attraverso certi canali. Io quando ho saputo che i Fugazi non concedevano interviste a Rolling Stone perché avevano pagine di pubblicità degli alcoolici, non so, sono rimasto folgorato, e alla fine se avessi un gruppo forse vorrei fare una cosa simile, decidere di passare per certi canali e boicottarne certi altri; la musica come atto politico fuori dalle logiche di destra o di sinistra, ecco, questa cosa mi piace abbastanza. Però dell’etica dei Fugazi non fregherebbe un cazzo a nessuno se la musica non fosse così buona, ecco, e quindi la musica viene prima. Per quanto riguarda lo scrivere non so, se i musicisti non si pongono domande dovrebbe essere chi scrive a porle. E allora la critica musicale inizia ad avere un senso, magari. Invece sulla COERENZA o RIGORE o ETICA o ONESTÀ in sé di chi scrive, non lo so, io scrivo per quasi chiunque me lo chieda (ho rifiutato forse cinque collaborazioni in tutto il tempo che ho scritto), cerco di scrivere ogni singolo pezzo al meglio delle mie possibilità, nient’altro. Come ascoltatore la COERENZA o RIGORE o ETICA o ONESTÀ è che se ho soldi da spendere nella musica li spendo nella musica e cerco di spenderli in un modo che abbia senso, quindi magari pagare un disco a venti euro al negozio invece che quattro dischi a venti euro su Amazon. O che so, pagare più concerti possibile invece che chiedere accrediti stampa a destra e a manca nei locali. Lasciare una birra al bancone e comprare una maglietta al gruppo e quelle cose lì.

Non lo so. Capisco la faccenda del rigore e della credibilità, ma continuo a vederci un eventuale valore aggiunto che però non è imprescindibile. L’altro giorno girava un pezzo a tema black metal nazista e violento (commentato anche da te su Bastonate) che raccoglieva, come ciclicamente accade, tutta quella serie di luoghi comuni che però partono dal presupposto ci sia una coerenza, no ok, un’onestà che invece non è per nulla necessaria. E’ chiaro che tu porti esempi in positivo, come quello dei Fugazi, in cui l’integrità fornisce uno spessore notevole alla questione. Però se la stessa integrità ce l’avessero gli Slayer, e magari ce l’hanno anche ma io a quel punto non voglio saperlo, per me diventerebbe complicato ascoltarli. Così come diventerebbe legittimo farsi domande su chi invece problemi non se ne fa. Non dico di prender buoni i messaggi che vanno nella mia direzione e auto-convincermi dell’essere finti di quelli che puntano altrove, ma, in sintesi, che se fai un pezzo bello E dici una roba figa sei un genio, se fai un pezzo bello dicendo una cazzata puoi essere comunque un musicista che mi piace. Se fai un pezzo osceno dicendo cose fighissime io non lo saprò mai perché non ti ascolto a prescindere e quindi non rientri nei casi in analisi. Per me funziona così. Mi piace molto però la parte in cui dici che chi scrive di musica deve porre le domande che chi fa musica non si pone, lo trovo vero in generale se si parla di giornalismo, ma questa è una cosa che, riflettendoci ora, nei tuoi pezzi apprezzo particolarmente.

L’articolo che citi è un buon modo di farti capire cosa intendo. L’articolo parte da un film norvegese sugli zombi nazisti e dice “sì, tra l’altro in Norvegia ci sono sempre stati problemi coi nazisti. Esempio? L’Inner Circle bruciava le chiese.” è un modo stronzo di mettere in piedi la cosa per diversi motivi: il pezzo contiene insinuazioni anche molto pesanti (tipo Burzum coinvolto nella strage di Utoya), parla di roba successa vent’anni fa, taglia tutto con l’accetta e tanti saluti. Il tutto per denunciare cosa? Che la Norvegia non è immune al nazismo? Ci sono partiti in Norvegia che stanno al 20% e promuovono politiche anti-immigrazione. Ci sono anche in Italia, per dire, ed è una cosa contro cui si dovrebbe combattere di giorno in giorno. E quindi, se vuoi, ci troviamo in una situazione in cui non ci frega un cazzo di cosa succede dietro casa nostra ma dobbiamo pesare quello che dice un gruppo nei testi? Non lo so. Io gli Slayer credo di capirli, per me sono espressione di un disagio reale -lo erano, quantomeno, venticinque anni fa- e la loro musica mi parla. poi la roba che mi dice magari è orribile, ma preferisco un gruppo che mi tenga acceso il cervello e mi spinga a dissociarmi, soprattutto se la musica è la musica degli Slayer. E questo è un modo di essere integri, ecco. Poi se ti vai a leggere i loro testi a volte c’è da starci male. A volte c’è da starci male anche coi testi dei Fugazi, per dire.

Andrei avanti per altri diecimila scambi sul tema, perché mi sto divertendo davvero molto, ma lo scopo ultimo resta tirar fuori un pezzo sul blog che sia leggibile in termini di lunghezza e credo noi si abbia sforato già da diverse battute. Adesso quindi sparo l’ultimo argomento che vorrei analizzare, che è la questione dialogo/scambio. Quando scrivi di musica sul blog o su una rivista, il pezzo è necessariamente autoconclusivo. Oggi però internet ha aperto le porte alla facilità di interazione e in potenza chiunque può parlare direttamente all’autore dell’articolo ponendo questioni, facendo analisi e contestando passaggi. Io arrivo da un’epoca in cui i forum funzionavano parecchio, ma lì le discussioni nascevano con l’intento di essere uno scambio di opinioni. Un pezzo sul blog, dicevo, non nasce per essere discusso. Tu hai la sezione commenti sempre aperta e, di norma, partecipi agli scambi che ne escono in maniera abbastanza attiva. C’è molta gente che apre un blog, lascia spazio ai commenti, ma poi non risponde e questo a me da i nervi perché la considero sempre una mancanza di considerazione, quando in realtà in molti casi uno magari sente di aver già detto tutto nel pezzo e semplicemente non ha cazzi di ripetersi. L’ultima domanda è quanto valore aggiunto può dare, se può darne, la facilità di discussione 2.0 nell’ambito dello scrivere di musica e quanti danni, invece, pensi possa fare il concetto web dell’uno vale uno (cit.) per cui tutti possono volendo dire la loro. E’ una domanda un po’ del cazzo se vuoi, ma mi incuriosisce.

Quelli che non hanno tempo di star dietro ai commenti del proprio blog sono le “blogstar” o quella gente lì, le persone che magari hanno 70 commenti per ogni pezzo, cosa che io non ho (un mio post fa 20 commenti se proprio la gente si scatena). Però, per dire, scrivo saltuariamente (non dirlo in giro) per un sito di cinema che si chiama XXX [NdM: non l’ho detto in giro.], fa cento e passa commenti ad articolo, e lì rispondere ai commenti non mi stanca. Immagino però che XXX abbia un pubblico incredibilmente buono, relativamente parlando. Per dire, leggo i pezzi di Tea Hacic su Vice, alcuni sono molto belli, e sotto cento commenti di gente che le dà della troia. Allora perché ti ci dovresti prestare, e quindi vaffanculo. Ovviamente mi danno fastidio le persone brutte e i minus habens, e quelli che con il cuore impavido (e una mail falsa) danno opinioni scomode sul mio blog tipo “Bianconi handicappato di merda”, in un pezzo sui Baustelle nel quale magari io ho pesato gli accenti per dare un punto di vista originale. Ma poi non è fastidio, è che non capisco come faccia uno a essere così idiota e così desideroso di dimostrarlo. Ma LA DISCUSSIONE è sempre la cosa, quella che mi fa più piacere. Per me è abbastanza naturale ficcarmici. Per dire, quando scrissi quel pezzo sui Baustelle una tizia lo linkò su Facebook dandomi del fascista, io le scrissi in privato, ora siamo amici e tre ore fa mi ha mandato un suo pezzo per Bastonate (true story).
Comunque non è una vera domanda, giusto? Nel senso, i blog hanno i commenti, e quindi si tengono aperti ai commenti. Commento libero e non moderato, niente generalità, regola fissa. Nel form di wordpress devi inserire un indirizzo email, credo nient’altro. Poi magari ne cancello qualcuno ogni tanto, tipo “era ora che Vic Chesnutt morisse, meno male”: in fin dei conti è uno spazio mio e ogni tanto mi piace buttar fuori un cretino. Se c’è uno spunto interessante generato da un MIO pezzo a cui posso dare una MIA risposta sul MIO blog, cazzo, rispondo e ho pure fretta e sono eccitato come un bambino.