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Ricordi

Ok boomer (la mia sul rifiuto dell’orale di maturità)

Parliamo dei ragazzi che si rifiutano di fare l’orale di maturità, dai. Facciamoci del male.
Io il mio orale di maturità l’ho fatto con la camicia hawaiiana. Questa cosa è successa (davvero, giuro) perchè il commissario esterno di matematica mi aveva detto: “Scommetto che lei non ha le palle per venire vestito da hawaiiano a fare l’orale di maturità.”. Tipo Marty McFly.
Precisazione 1: la mia situazione era tutt’altro che quella di uno che con il solo voto degli scritti avrebbe matematicamente conseguito il diploma.
Precisazione 2: nella mia classe sono usciti in 17 su 27 con un voto compreso tra 60/100 e 61/100, cosa che mi dava margine per pensare che, prima di segare me, avrebbero dovuto segare troppe persone e che quindi potevo permettermi di accettare la sfida.
Precisazione 3: i membri di commissione esterni alla maturità sono la ragione per cui io, a 44 anni, non sto ancora cercando di diplomarmi. Perchè, si può pensarla un po’ come si vuole, ma se 17 alunni su 27 arrivano alla maturità con una media che permette di ambire massimo a 60 e 61 o tutti gli idioti del 1981 iscritti al liceo scientifico Paolo Frisi di Monza furono scientemente raggruppati dentro un’unica sezione, oppure forse c’era qualcosa che non funzionava benissimo nell’equipe di luminari professori che ci ha portati in quinta.
Precisazione 4: non ricordo che genere di scommessa ci fosse in ballo col professore di cui sopra, ma ricordo che si rifiutò di concedere vittoria perchè “io intendevo con il gonnellino di paglia e i cocchi sui capezzoli”. A costo di citare Michael Bay: questa, giuro, continua ad essere una storia vera.

Questo racconto serve a dire che il punto della maturità, ma se vogliamo di tutto il mio percorso al liceo, per me non è mai stato il voto. E’ sempre stato sopravvivere. E  non lo dico con il tono melodrammatico di chi “ai miei tempi sì che il liceo era una roba pesa”, ma perchè era davvero così. Era una guerra, psicologica, contro i professori, combattuta sui due fronti ad armi impari. Una cazzo di guerra di resistenza. Solo che, anche se provavano tutto ciò che fosse in loro potere per buttartela al culo, i miei professori avevano quantomeno il merito di riconoscere l’onore delle armi a chi riusciva a difendersi, in un modo o nell’altro, e restare in piedi. Gente come me, che tirava serenamente a campare galleggiando sulla soglia della sufficienza non tanto/solo per la mancanza di voglia di studiare, ma anche/soprattutto per la volontà strenua di non dar loro alcuna soddisfazione.
Precisazione 5: in 5a liceo io mi presentavo ai compiti in classe di latino senza dizionario. Dopo cinque anni di sonore insufficienze era evidente che avere o meno il Castiglioni/Mariotti con me non facesse alcuna differenza, ma era altrettanto evidente che non fosse necessario esplicitare in modo così veemente che di prendere l’ennesimo 4 non me ne fregava grossomodo un cazzo.
Precisazione 6: il mio prof. di italiano e latino adorava uno dei miei migliori amici (aka Orifizio). Prima dell’orale di maturità si accordarono su quel che avrebbe voluto gli chiedesse e, essendoci stati io ed un altro paio di testimoni, lo chiese anche a noi. Io non avevo mai avuto un rapporto con il mio prof di italiano, come avrete potuto intuire dalla precisazione precedente. Quando mi chiese “Mancuso, cosa preferisce che le chieda?” io risposi “Mi chieda quello che vuole”. Lui mi guardò negli occhi e mi disse: “Le chiedo Ungaretti”. Per un secondo l’avevo preso come un gesto distensivo, che riconosceva la mia schiena dritta nel momento della verità. Poi mi presentai davanti alla commissione e mi sparò una domanda volutamente incomprensibile, forse per testare i miei limiti o forse per farmela pagare, non lo so. Io partii a nastro parlando di Ungaretti e ancora oggi non ho idea se quel che dissi era la risposta a quel che aveva chiesto o meno. Lui si limitò ad un “può bastare” dopo un paio di minuti di monologo e io passai alla materia successiva.

Non lo so che idea si possa fare una persona esterna nel leggere queste righe, ma per me quelli delle superiori sono stati anni bellissimi. Mi hanno insegnato tutto quello che oggi ritengo importante per vivere in questo mondo di merda.
Precisazione 7: a meno di un mese dalla fine della 5a viene indetta simulazione di terza prova d’esame. Le materie erano fisica (media dell’8 da tre anni, inscalfibile), inglese (grossomodo sempre sotto dalla 1a) e filosofia (media del 7 letteralmente sudata col sangue dopo una debacle totale su Kant nel primo quadrimestre). Nel tentativo di salvare questo terzo risultato, bigio. Al rientro, la prof. di fisica mi disse, testualmente: “Lei pensa di avere 8 in pagella saltando l’ultimo compito?”, poi mi chiamò alla lavagna e mi fece fare scena muta. Volutamente, per darmi 4. Unica insufficienza in fisica mai presa. La settimana successiva, mi chiamò di nuovo fuori, a sorpresa, chiedendomi se volessi recuperare. Feci una bella interrogazione, presi di nuovo 8. “Bravo. Peccato per il 4 della scorsa settimana, ma la porto comunque all’esame con 7”. Ed era la prof. a cui volevo più bene (e che ne voleva di più a me).

E’ giusto, doveroso anzi, sviluppare un certo antagonismo verso il sistema scuola durante l’adolescenza. Perchè la scuola è fondamentale, ma non perfetta e i professori ti aiutano a crescere anche per il fatto che sanno essere degli stronzi senza pari. Chiudere il liceo in cinque anni combattendo contro di loro è stata la mia vittoria più grande. Più di qualsiasi trenta preso all’università, più del dottorato, più di qualsiasi successo lavorativo se in quel che ho mai fatto ci possa essere qualcosa di definibile come “successo”. Mettendo lo stesso impegno nello studio, invece che in questa sfida continua, ce l’avrei fatta uguale e probabilmente anche con un bel voto, ma per me era più importante tenere il punto.
Precisazione 8: in prima liceo, a un mese dall’inizio di un percorso scolastico nuovo in un ambiente in cui conoscevo letteralmente quattro persone, un “amico” di quinta conosciuto in oratorio mi chiese se mi andasse di far parte della loro lista per il consiglio di istituto, che gli mancava uno. Scoprii, tardi, che era una lista di CL. Avevo quattordici anni. Per diversi prof. ero e sono rimasto CLino per cinque anni, con tutta la simpatia che ne può conseguire in un ambiente come quello del liceo in cui andavo io alla fine degli anni novanta (ho ancora amici che me la menano per sta cosa. Dopo trent’anni.). A me, però, di andare a spiegare che non fossi CLino non è mai interessato, mi faceva ribrezzo l’idea di doverlo fare. L’idea che mi avrebbero valutato diversamente.

Quindi boh, a me non è che faccia tutta questa impressione uno studente che, col culo al caldo della promozione aritmetica conseguita sulla base di essere stato cinque anni per benino dentro ai binari, se ne esca con l’idea di “boicottare l’orale di maturità”.
Però se a questi ragazzi sarà utile per provare a tirare delle somme e crescere con un’idea della vita che gli consenta, anni dopo, di continuare a vedere il confine tra il giusto e lo sbagliato anche quando ci si rende conto di non poter più essere (o forse non essere mai stati) dalla parte del giusto, non quanto si sarebbe voluto, allora fanno bene a farlo. Sicuramente, gli servirà di più di qualsiasi versione, teorema, poesia o legge della termodinamica imparata nei cinque anni precedenti.


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Due

[…]
Ne consegue che egli sa perfettamente come andranno le cose fra Aidi e il sottoscritto. Potrebbe, cortesemente, farlo presente anche a me?
Sorride alla domanda, poi mette su una strana aria fra l’esausto e l’innocente. “Quando un uomo ha passato la linea d’ombra, di tanto in tanto si trova di fronte al se stesso ragazzo” mi fa correre un brivido lungo il filo della schiena. “In occasione di quegli incontri, il giovane prende la parola per primo e rivolge all’altro sempre la stessa domanda.”
“Quale?” balbetto, indifferente alle trombette, agli stravizi e ai propositi di spostarsi in piazza per dar fuoco a quel porco dell’anno vecchio.
Il Manuel lascia andare un sospiro, poi mi guarda dritto in volto e svela: “Valgono ancora le regole che ti eri dato da ragazzo, quando nessuno poteva ricattarti? Sei rimasto fedele a quello che ti faceva sentire libero come l’aria?“.
Il mistero delle sue parole mi ha lasciato addosso un’inquietudine nuova, capace di sopravvivere al rogo in piazza e alla festicciola destroy a casa della Megghi.
[…]

Quando Brizzi ha comunicato di essere prossimo alla pubblicazione di un sequel di Jack Frusciante è uscito dal gruppo io, come spesso in queste circostanze, l’ho vissuta bene il giusto. Non curante di quel che questa cosa potrebbe lasciare intendere di me, sono qui a ribadire che il primo capitolo della storia tra il vecchio Alex e Aidi è stato il libro più importante della mia vita, per una serie di fattori che hanno a che fare con l’autodeterminazione. Il goffo, ma tenace tentativo che tra i quindici e i vent’anni si fa per tracciare il perimetro della persona che si vorrebbe almeno provare ad essere. Non sto esagerando. Ero così convinto di dovere tantissimo a quel romanzo, da non averlo voluto rileggere per anni. Ho dovuto aspettare di percepire le mie spalle sufficientemente grandi da tollerare l’eventualità di aver usato come bussola un libro del cazzo. Nel 2015, preso il coraggio a due mani e con ormai piuttosto chiaro in testa la persona che ero effettivamente diventato, me lo sono riletto. Fortunatamente non sono rimasto deluso, ma se vi dicessi che ero sereno nel farlo, mentirei.
Eh, l’ho detto che non esageravo.

Tornare sopra a quella faccenda lì non deve essere stata una roba facile neanche per Brizzi, però, perchè per scrivere il sequel di anni ce ne ha messi addirittura trenta. Un  po’ lo capisco: cosa c’era ancora da raccontare, di quella storia? Come intercetti l’interesse di un pubblico per cui quei trent’anni sono passati? Io per primo ho approcciato la lettura con il forte dubbio che non avesse nulla da darmi/dirmi.
Mi sbagliavo, ovviamente.
Perchè a Brizzi non è solo riuscito il trick di catapultarmi in una vita che ricordo ancora in toni vividi, ma a cui penso per forza di cose troppo raramente, ma anche di farmela vedere con gli occhi di adesso. Se la storia continua formalmente dal punto in cui si era interrotta, la lente con cui ci viene mostrata tiene molto conto del tempo che è passato. E allora non ci vuole un secondo a capire che l’anno raccontato nel libro sia di fatto la rappresentazione dei trenta che abbiamo vissuto noi, tra cambi di prospettive, amicizie, relazioni e obbiettivi. Trent’anni semplificati e velocizzati perchè tutto, a diciotto anni, è più semplice e veloce. Di conseguenza il tema non è la relazione tra due adolescenti dopo un anno di vita a distanza, il tema diventa fare i conti col percorso che si è fatto, tra le scelte prese e quelle che ci sono state imposte, e capire se sia ancora il caso di voler bene a noi stessi.

A scrivere questo post ci ho messo parecchio, rivoltandolo più volte.
Il paragrafo che ho riportato ad inizio post, quella domanda in grassetto, è uno schiaffo che mi ha colpito dove già avevo male. L’idea iniziale era di provare a rispondere, ma ne sarebbe venuto fuori un testo simile a quello che ho scritto qualche mese fa per spento, probabilmente anche più brutto (l’ho appena riletto e, per una volta, non mi sono vergognato). Il punto quindi non è tanto rispondere, ma continuare a farsi la domanda. Perchè è vero che oggi la vita può ricattarci e portarci ad infrangere le regole che ci eravamo dati, ma quelle regole non cessano di esistere. Possiamo averle cambiate, riviste, aggiornate, ma sulla base del non ritenerle più giuste, non del non riuscire più a rispettarle.
Altrimenti è barare.


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I Nofx a 100 euro (encore)

“Noi siamo qui per timbrare il biglietto.
Tipo tu c’eri alla morte del rock? Anche io, dai beviamoci una birra.”
(A.P.)

Quando sono uscite le date italiane per il tour di addio dei Nofx avevo scritto un pistolotto infinito, incentrato soprattutto sulla questione prezzi. Oggi, dopo aver presenziato, è giunto il momento di mettere in fila le idee e raccontare cosa sia davvero stato, per me, questo final show.

Ognuno di noi ha una manciata di gruppi la cui strada incrocia quella della propria vita nel momento sbagliato. Alcuni li scopriamo troppo tardi, altri paradossalmente troppo presto, molti semplicemente in un frangente in cui non siamo propensi alla loro proposta. E’ una cosa che capita e con cui tocca fare i conti. Io ho visto suonare larghissima parte dei gruppi che mi piacciono, ma non sono mai riuscito a vedere gli autori del mio disco preferito.
Coi Nofx è successo esattamente il contrario, tra me e loro c’è stato un sincronismo totale, perfetto.
Quando sono stati all’apice della loro grandezza, compositiva e performativa, io ero presente. I loro dischi più importanti li ho vissuti in diretta ed ero un teenager quando li suonavano dal vivo, con tutta la carica e l’energia necessarie (ambo le parti). Stavo sotto al palco, non avevo il minimo problema nel farmi tritare dentro al pit, anzi, era l’unico posto in cui avesse senso stare in quel momento. Se Domenica i Nofx avessero ipoteticamente suonato un set analogo a quelli di fine anni novanta, io non me lo sarei comunque goduto quanto me li godevo allora. Forse quindi, se io non sono più quel ragazzino, dovrei accettare che loro non siano più quella band.
Eppure.
Eppure sono venuto via dal Carroponte con la rabbia che provi dopo essere andato a trovare tua nonna malata di Alzheimer.
La vedi, è lei, eppure non è più lei. Non è una presa di coscienza facile da gestire.

Il problema non è la scaletta.
Se scrivi 40 songs sulla locandina e poi ne suoni la metà (23, se non sbaglio), a me non fai un danno particolare. I Nofx non hanno mai suonato due concerti uguali e se dovessi stilare la mia top 50 delle loro canzoni, sono ragionevolmente sicuro di averle sentite tutte, almeno una volta, dal vivo. Certo, quando erano usciti i dischi che avrebbero dovuto suonare per intero domenica ero piuttosto contento e mi sarei aspettato qualcosa di più di un 5/13 da White Trash e un 8/16 da So Long, soprattutto se lo spazio dedicato al resto lo vai a colmare tutto con roba che non mi ha mai riguardato, uscita quando ormai non c’era più necessità di ascoltarla. Niente da Ribbed, niente da Heavy Petting Zoo, la rivendicazione ultima di Fat Mike a ribadire che tutta la loro carriera ha lo stesso valore. Una presa di posizione che, davvero, non ho problemi ad accettare pur non essendo eufemisticamente d’accordo con lui. Empatizzo volentieri con chi ha bestemmiato per la scaletta, intendiamoci, ma non più di quello. Quello che trovo intollerabile invece è suonare 22 pezzi in 90 minuti (escludendo The Decline dal computo). Quattro minuti a pezzo, se sei i Nofx, vuol dire 2 minuti di musica e 2 minuti di niente, di chiacchiere che non mi interessa stare a sentire. Che nessuno dei presenti ha pagato per sentire, altrimenti in locandina ci avrebbero messo quello come selling point, non le copertine dei dischi.
E no, per come la vedo io questa cosa non è punk, è essere stronzi. Non è la stessa cosa, non ho mai pensato lo fosse.
Poi se volete ci mettiamo anche il fatto che i volumi fossero completamente sbagliati (se cantavo i pezzi sentivo solo la mia voce, una cosa da ufficio inchieste), che la chitarra di Melvin fosse completamente muta (almeno dal mio lato del palco) e la batteria microfonata a caso, ma almeno di quello credo non si debba chieder conto alla band.
Il punto è che il mio ultimo concerto di sempre dei Nofx è stato per ampio distacco il loro peggior concerto di sempre. Senza possibilità di appello.

Nell’immediato post concerto ero davvero arrabbiato.
Come dicevo sopra però, credo questa rabbia abbia più a che fare con l’elaborazione del lutto che non con il concerto, per quanto brutto. Nonna è morta e nonostante in cuor nostro sappiamo sia meglio così, abbiamo comunque una gran voglia di piangere. Forse se avessero suonato il concerto perfetto qualcuno avrebbe potuto recriminare, così quantomeno credo si sia tutti d’accordo nel dire che finirla sia la decisione più giusta. Per tutti.
Da parte mia oggi, smaltito il senso di frustrazione delle prime ore, c’è la consapevolezza del fatto che aver saputo questa fosse l’ultima possibilità di vedere i Nofx su un palco sia stato un regalo enorme. Nessuna aspettativa mancata può anche solo avvicinarsi al rimpianto per non esserci stato.
Per quasi 10 anni della mia vita i Nofx sono stati un caposaldo.
L’ulitmo pezzo che gli ho sentito suonare dal vivo è la cosa migliore che abbiano mai scritto e l’ho cantato tutto insieme ad altre 6000 persone, per diciotto minuti filati.
Dito alzato, groppo in gola e occhi bagnati.
Giusto, giustissimo così.

“So long… and thanks for all the shoes.”


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I vent’anni di un (altro) disco

Scrivere del ventennale dei dischi è una roba che non mi risulta si faccia più. Probabilmente il motivo è che quelli bravi, quelli che hanno incominciato a farlo, hanno esaurito i ventennali che gli interessavano ormai diversi anni orsono.
Vecchi di merda.
Io invece di dischi della vita che fanno vent’anni nel presente ne ho ancora tantissimi.
Un paio di mesi fa è stato il turno di Tell all your friends e avevo anche messo giù 3/4 di pezzo con l’idea di mandarlo a Spento, ma prima che lo finissi Marco mi ha scoopato, come si dice in gergo, e ho desistito dal finire la mia lagna da X-mila battute.
Tempo dopo è stato il turno del S/T dei Box Car Racer. Anche lì avevo pensato di mettermici e dire due robe, ma poi non lo avevo fatto, neanche ricordo perché. Probabilmente sarebbe stato un post con la centomilionesima versione sempre uguale del mio rapporto con Tom Delonge, quindi a conti fatti meglio così. Per tutti.

Due giorni fa però ho scoperto da Twitter essere il ventennale di un altro disco e questa volta non è proprio cosa lasciar correre, per me.
Il disco è questo qui:

Ai The Used io ci sono arrivato da Munnezza, una webzine/forum che ho citato mille volte qui sopra. Erano i primi anni di internet, per me, di conseguenza i primi tempi in cui riuscissi ad uscire dalla mia bolla provinciale per aprirmi ad ascolti nuovi, non necessariamente buoni. Allora avevo l’approccio al mezzo che i boomer hanno avuto negli anni ’80 con la TV e che oggi hanno con Facebook: se è scritto in una recensione online, deve essere vero. Also: chi scrive una recensione online deve essere un* che ne capisce. Solo anni dopo ho realizzato che probabilmente su quella webzine, come su tante altre, scrivessero più che altro ragazzini come me, al massimo più convinti di essere ‘sto cazzo (ma neanche sempre), però sto tergiversando.
Quando ho iniziato a bazzicare quel sito dei The Used si faceva un gran parlare. Era appena uscito il loro secondo disco e il mood generale era che la stagione di tutta quella roba lì fosse ormai finita. Dopo aver tessuto lodi sperticate per grossomodo qualsiasi cosa uscita tra il 2002 e il 2004, nel 2005 era diventato tutto una merda. Il nuovo avanzava, toccava girare pagina.
Io, però, ero come sempre in ritardo.
Andando a memoria, sul sito non c’erano le recensioni dei dischi considerati buoni di questa ondata nu-emocore di inizio millennio, venivano solo citate le band come riferimento in recensioni più recenti e spesso negative. Idem sul forum, dove chiedere dettagli su questa roba era il viatico preferenziale al ricevere insulti.
Alla fine quindi avevo scaricato un po’ di cose e, come probabilmente è giusto che sia, mi ero messo sotto a fare una cernita da solo. Si trattava di scavare in una montagna fumante di letame, lo riconosco, però mentirei se dicessi di non averci cavato un ragno dal buco. Anzi. Chiaramente non ci si poteva aspettare la qualità dei Q and not U, non so bene perché feticcio di moltissimi capiscers dell’epoca, ma se c’è una cosa su cui sono arrivato in anticipo rispetto a Boris e ai successivi meme è che la qualità ha rotto il cazzo, quindi bene così.
Tutto questo per dire che era il 2005, io stavo prendendo il “sole” sdraiato su una “spiaggia” irlandese con alcuni amici ed ero in uno stato di dormiveglia. Avevo probabilmente sentito tutto The Used senza farci un gran caso, mezzo rincoglionito, e di massima era quella situazione in cui il disco viaggia sulla strada buona per farsi dimenticare. Non so se vi capiti mai.
Ci sono dischi che ascolti fin dalla prima volta con attenzione, interessato a farti un’opinione corretta, e altri che invece piazzi in cuffia solo per riempire il silenzio e vedere se ce la fanno a farsi notare, a sconfiggere la nostra indifferenza mista a mancanza di aspettative.
The Used, con me, ce l’ha fatta in zona cesarini.
Pieces Mended è l’ultima traccia del disco e ricordo come fosse ieri che riuscì a destarmi da quel torpore vacanziero e scazzato e farmi di colpo tornare presente all’ascolto del disco. E poi farmelo rimettere da capo.
Negli anni credo di aver ascoltato tanti dischi il cui fulcro sta nella sofferenza, sia questa reale o posticcia, ma ancora oggi il senso di angoscia e disagio che mi trasmette Berth su Poetic Tragedy non ha pari. Non ho idea di cosa parli il pezzo, non mi è mai interessato approfondire. Per me è e rimarrà il lamento di uno che non se la passa bene, da ascoltare quando anche io non me la passo bene. Perché alla fine di questo si parla: emozioni. Stati d’animo che la musica crea in noi, ma anche in cui noi vogliamo immergerci tramite la musica. Almeno per quel che mi riguarda.
Il disco è tutto bellissimo, lo ascolto ancora spesso senza necessità di urlare GUILTY PLEASURE sui social e sentirmi una persona meglio. Ogni volta che parte Say Days Ago testo la capacità dell’impianto/supporto con cui lo sto ascoltando e dei miei timpani, di conseguenza.
Sui social frequento un paio di gruppi revisionisti/revival in cui l’apprezzamento per certa roba è ormai sdoganato e si vive un clima bello di sincerità e non curanza che dovrebbe sempre stare alla base del dibattito musicale. Chi scriveva su Munnezza oggi probabilmente si divide tra il darsi una posa su twitter (no link needed, you know who you are) e bazzicare gli stessi gruppi che bazzico io, ma in incognito. Buon per loro, c’è sempre da venire a patti con la propria autostima e se questo è il modo, bene così.
Io, di mio, ho fatto pace coi miei gusti troppo tempo fa per star dietro alla scena.

Canzoni che amo di gruppi che odio

Qui è essenzialmente dove butto mezzo pomeriggio in cui dovrei assolutamente lavorare, incasinandomi con ogni probabilità il weekend, per scrivere un post e fare una playlist.
I dettagli però li vediamo dopo, adesso è necessario vi leggiate questa cosa qui.

La musica nella mia vita è sempre stata l’elemento di autodeterminazione principale, quello attraverso cui tiravo le righe dei confini che via via ho utilizzato per definire me stesso e il resto. A quarant’anni non ne farei proprio una questione di Bene e Male, ma mentirei se dicessi che è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui la musica era questione di appartenenza non tanto ad una scena o a qualche struttura sociale (dieci anni abbondanti ad andare a concerti a cui presenziavano sempre le stesse cento facce, ma senza mai nemmeno provare a parlare con qualcuno non sono decisamente il CV di uno che vive la scena), ma più all’immaginario di quello che avrei voluto essere, o sembrare di. In un processo di questo tipo, l’odio è lo strumento principale che un ragazzino può usare per delimitare i confini, perchè senza un antagonismo sincero verso ciò che sta fuori dal proprio recinto, quel recinto diventa sfumato e si finisce per non avere più idea di chi si è e di chi non si voglia diventare.
Probabilmente la musica non è l’unico strumento che permette questo processo di crescita, ma io non ne ho avuti altri e forse per questo quando sento ragazzini vestiti tutti uguale passare con noncuranza da un pezzo trap ai Maneskin al grido di “mi piace tutta la musica”, mi prende una paura fottuta e sento la necessità di abbracciare i miei figli e dire loro che andrà tutto bene. “Ok boomer” è una possibile risposta a questa mia spataffiata, ma è una risposta sbagliata.
Alla fine però, per quanto solida sia l’armatura che ci siamo incollati addosso, se si è quel tipo di persona che può stare in una macchina mentre gira un disco che non ha scelto lui senza per forza doverlo coprire con le parole o che spaccherebbe il dito dell’amic* che schiaccia skip a metà di un pezzo nonostante il pezzo in questione sia una merda inqualificabile, allora c’è e ci sarà sempre un tallone d’Achille. Un minuscolo spazio indifeso in cui le canzoni belle si insinuano e si fanno spazio fino al cervello, arroccandocisi dentro per non uscirne mai più. Nella mia vita ho odiato tantissimi gruppi, alcuni da subito, alcuni in corso d’opera. Difficilmente ne ho riqualificati dopo averli odiati, magari pensandoci qualcosa in mente mi verrebbe anche, ma diciamo che non farebbe statistica. Il marchio dell’infamia è una strada a senso unico. La maggior parte di questi gruppi ai miei occhi ha prodotto solo merda e, anche se è indubbio che potrei approfondire e verificare se sia vero anche oggi, non mi sento particolarmente in difetto nel dire: “Anche no” e tenermi la mia opinione. Eppure ci sono pochi infamissimi elementi che quel varco l’hanno trovato e sono riusciti ad infilarci un pezzo, maledetti loro.
Questo post e questa playlist parlano di loro.

Ci sono tante ragioni per odiare un gruppo e radicalizzare il proprio gusto musicale e nel fare questa playlist credo di aver elencato una dozzina di gruppi che odio per ragioni molto diverse tra loro. La cosa più difficile da ammettere è quanto suoni bene questa oretta di musica.
Fa quasi incazzare.
Ora devo resistere alla tentazione di fare il Nolan delle playlist, quindi chiudo il post senza andare nel didascalico e spiegare le ragioni delle scelte, anche se l’idea che qualcuno possa chiedersi cos’ho mai contro, che cazzo ne so, i Black Eyed Peas mi dilania dentro. Nel caso remoto qualcuno fosse arrivato fin qui a leggere e avesse il dubbio, per favore, me lo dica.

Ha segnato Seedorf

E’ una cosa stupida.
Quando penso ad una situazione brutta, apparentemente irrisolvibile, da cui però alla fine si riesce ad uscire contro ogni aspettativa razionale, l’immagine che mi viene in mente è sempre il derby di Milano del 2004, forse la partita più indimenticabile della mia carriera di tifoso del Milan.
L’ho vista al Barcollando di Brugherio, un pub chiuso ormai da molti anni dove ai tempi andavamo a vedere tutte le partite del Milan, in compagnia, visto che allora nessuno di noi aveva abbonamenti alla pay tv.
A San Siro piove parecchio.
Nel primo tempo il Milan finisce sotto due a zero, prendendo un gol orribile su calcio d’angolo da Stankovic ed uno incredibilmente ancora più brutto su un tiro di Cristiano Zanetti deviato in porta da uno dei nostri, sempre sugli sviluppi di un calcio d’angolo.
A questo secondo gol Aui, amico interista seduto affianco a me, aveva esultato in modo deciso. Perchè il derby è una partita strana e se vai sopra di un gol la tensione resta comunque superiore alla gioia, quindi sul primo gol non si era troppo sbottonato. Sul secondo però l’esultanza era arrivata. Giustamente.
Forse non ve l’ho mai dato a vedere (#sarcasmo), ma non sono una persona particolarmente propensa a pensare positivo. Per me una partita sotto 2 a 0 è una partita persa, anche se c’è ancora un tempo da giocare.
Il secondo tempo inizia con la nebbia dei fumogeni che si aggiunge alla pioggia e al mio morale pessimo, ma il Milan pare avere ancora voglia di provarci. Seedorf, soprattutto, che queste partite le sente sempre più di altri. Ci prova da fuori, un tiro sterile e brutto (seppur meglio di quello di Cristiano Zanetti) su cui però Toldo fa una porcheria e così John Dahl Tomasson la butta in porta, rapace.
Il Milan accorcia, ma ci vuole ancora troppo ottimismo per vedere luce in fondo al tunnel e infatti io, in quel momento, continuavo a vederla nerissima.
Passano i minuti e a centrocampo l’inter perde un pallone stupido. Forse Farinos, forse Zanetti, non ricordo. La palla la raccoglie ancora Seedorf che la appoggia a Kakà nel cerchio di centrocampo. Per i cugini è una buona idea farlo avanzare indisturbato e palla al piede fino al limite dell’area, così Ricardo li ringrazia infilando un rasoterra chirurgico alle spalle di Toldo, questa volta incolpevole.
Facciamo 2-2.
Ora il tunnel un uscita ce l’ha e l’adrenalina circola forte insieme ad almeno un paio ti Tennents. Non ricordo i dettagli, ancora una volta, ma conoscendomi anche in quel momento non avrei scommesso sul fatto che potessimo vincerla.
Lo so, sono patologico, infatti quando a 5′ dalla fine Seedorf (sempre lui) raccoglie palla sulla 3/4 dopo una punizione sparata sulla barriera e alza la testa verso la porta, ricordo nettamente di aver pensato: “MA COSA CAZZO TIRI DA LI’???”.
Me lo ricordo davvero.
La frase però non credo di averla detta fino in fondo, perchè sono saltato in piedi insieme a Simo e abbiamo ribaltato il tavolino del pub.
Che gol pazzesco.
Il singolo momento di gioia più grande della mia vita sportiva.
Più del gol di Grosso, più del rigore di Sheva.
Seedorf, giocatore immenso che da tifoso ho odiato per anni, è l’interprete del gesto sportivo più iconico che ho nella mia mente, simbolo non solo di una vittoria, ma assurto a emblema del trionfo del bene sul male, del ribaltamento della sorte avversa.
Il mio personale concetto di resurrezione.

Questa mattina mio papà ha fatto la sua prima dose del vaccino Pfizer.
Dopo qualche ora mi avvisano che a Treviglio i medici stanno dicendo a chi si vaccina che hanno dosi in eccesso, quindi di contattare amici e parenti over 60 e mandarli lì. Me lo dice uno zio di Paola e io ci spedisco mia madre, che riceve anche lei la sua prima dose.
Lo so, ora c’è comunque da aspettare e non farsi prendere la mano.
Io però mi sento come quando ha segnato Seedorf.

Una cosa bella che non c’è più

C’è un album che, ogni volta che mi chiedono di dire i 10 dischi della mia vita, metto sempre dentro. Ce ne saranno forse altri due o tre con lui, più di metà della lista varia a seconda del giorno, dell’anno o di come sto in quel momento. A differenza di tutti gli altri però, inamovibili o meno, di questo non ho mai scritto. Non lo so perchè.
Non mi ricordo come mi fosse passato per le mani, ma lo avevo acquistato appena uscito ed infatti ho la prima ristampa, che è poco più di un demo avvolto in un cartoncino.
La copertina è così bella che ce l’ho appesa in casa a mo’ di quadro.
Il disco si chiama Pneuma ed è il primo lavoro dei Moving Mountains.
Ce n’è un secondo, che ho atteso con un’impazienza incalcolabile e che mi ha ovviamente deluso a mille, tanto da non farmelo ascoltare praticamente mai negli anni successivi, e poi ce n’è un terzo che non è piaciuto praticamente a nessuno e che invece per me è stupendo, tanto che basterebbe da solo a mettere i Moving Mountains tra i miei gruppi preferiti di sempre.
Sono riuscito anche a sentirli suonare al Lo-Fi di Milano e c’erano forse 30 persone. Io avevo l’accredito, di conseguenza dubito qualcuno avesse pagato per esserci. Non fu un concerto indimenticabile, i suoni facevano schifo. Comprai comunque la maglietta, probabilmente perchè mi sentivo in colpa per non aver pagato il biglietto di un evento semideserto, ma la presi troppo grande. Per qualche anno è stata un pigiama, poi non è stata più.

Dei Moving Mountains non è uscito nulla per un lasso di tempo che a scriverlo adesso, facendoci caso, è enorme, ma che prima di ora non percepivo tale. Quasi otto anni. In cuor mio avevo smesso di credere esistessero ancora, ma in qualche modo forse covavo la speranza di venire sorpreso un giorno da un disco nuovo.
Su twitter ho scritto che ormai erano come la nonna malata da tanto tempo. Tu sai che è malata, ma ormai la malattia è diventata una condizione che per te andrà avanti per sempre, immutabile, e se anche non credi sul serio un giorno possa guarire come per magia, non sei mai davvero preparato al momento in cui andrai a trovarla e scoprirai che non c’è più.

Circa un’ora fa, non so bene perchè, sono andato sul sito dei Moving Mountians e ci ho trovato un blog con sette post a tema Herpes (?), prova che probabilmente nonna ci ha lasciati per non tornare e in questo momento sto decisamente peggio di come stavo prima di scoprirlo.
Qui sotto metto la playlist della sessione live che avevano registrato per presentare l’ultimo disco, perchè mi piacerebbe qualcuno riascoltasse quei pezzi oggi e provasse a dirmi in faccia che non sono meravigliosi.
Avrei potuto mettere Pneuma, ma avrei dovuto scriverne e probabilmente non è una cosa che voglio fare.
Penso di sapere perchè non ne ho mai scritto: non credo di esserne capace.

Where’s your anger? Where’s your fucking rage?

“Io capisco se in scaletta ci mettono dopo i Pennywise, ma i BoySetsFire?
Chi cazzo sono i BoySetsFire?”

Non so se esistesse davvero una scena punk-rock in Italia tra fine anni ’90 e primi anni ’00, quello che so è che in quegli anni io ed alcuni amici seguivamo alcune band in giro per la Lombardia come fosse un lavoro. Se suonavano da qualche parte ci si andava, che tanto non c’era comunque di meglio da fare.
Una di queste band erano i Persiana Jones.
Erano i primi anni della comunicazione digitale, internet che passava da posto dove cercare le cose a posto dove incontrare le persone. ICQ, MSN, le message board, i forum. Non ricordo bene tramite quale canale successe, ma ad un certo punto a furia di stare dietro ai Persiana Jones avevamo conosciuto Sara, che era una figura all’interno del loro team (non ho idea del ruolo, ricordo che sul telefono avevo il suo numero sotto “Sara Persiana Jones”) e con cui ci si sentiva prima di andare ai concerti, così da passare un po’ di tempo coi ragazzi prima e dopo lo show. Non che fosse necessario avere agganci per fare una roba del genere, l’evento tipo di cui stiamo parlando era una qualsiasi Festa Campagnola di Biassono e i PJ non erano propriamente gli Oasis, però avere una sorta di aggancio per noi era una roba carina.
Ho questo ricordo: fa abbastanza caldo e siamo in un qualche campo brianzolo in cui la giunta comunale ha allestito il classico tendone bianco con i tavoli e la fila per prendere le salamelle, due o tre cessi chimici ed un palco evidentemente sovradimensionato per le band che ci suoneranno sopra. Stiamo bevendoci una birra e a qualcuno di noi viene in mente di dire che andremo anche a Bologna a vederli in un festival grosso, che potrebbe essere il Deconstruction o l’Independent. E’ lì che Silvio un po’ si incazza e tira fuori la frase con cui ho aperto il pezzo. Dice che loro hanno suonato di spalla a tante band e che hanno rispetto per tutti, ma che in Italia muovono parecchie persone e non è giusto che li facciano suonare prima di gruppi americani che non si incula nessuno.
A quel festival ci vado abbastanza prevenuto.
Come si permettono ‘sti BoySetsFire di fare i prepotenti e togliere spazio ai Persiana Jones? Per protesta, me li guardo dalla montagnetta che sta in fondo all’Area Parco Nord. Poi succede che arriva il loro turno, effettivamente piuttosto alto in scaletta, salgono sul palco e attaccano a suonare prendendo a sberle grossomodo tutta la folla presente che, in larga parte, non aveva idea di chi fossero.
A fine set io sono seriamente impressionato, Carlo scende al merch e gli compra tutti i dischi (l’ultimo, in quel momento, era Tomorrow come Today). Qualche tempo dopo me li faccio prestare e li ascolto. Altro tempo dopo li compro pure io. Ancora dopo, diciamo ieri, stavo su twitter a rimpiangere il fatto che di dischi come quelli non ne escano più e che, magari sbaglio, di band come i BoySetsFire non ne esistono più.

Il discorso qui sopra è importante per quel che voglio dire.
Io credo che in questi anni la voglia di dire delle cose, di prendere delle posizioni nette, manchi più delle chitarre distorte nel panorama musicale che ci circonda.
Non tutta la musica deve portare un messaggio, non tutti i messaggi che la musica porta devono essere condivisibili, ma ad oggi mi piacerebbe veder suonare gente che crede nei propri valori quanto ci hanno sempre creduto i BoySetsFire e magari sono io, magari il mio giudizio è viziato dai sentimenti, ma quel fuoco vivo dentro gli occhi prima che dentro ai testi io non l’ho mai visto uguale in nessun altra band.

L’ultima volta che ho visto suonare i BoySetsFire è stato al Transilvania Live nel 2006 (a naso quindi li ho visti solo due volte).
Ricordo che hanno suonato per cinquanta persone mal contate, in un locale che sembrava se possibile ancora più vuoto di quanto fosse. Saliti sul palco ci buttarono lo stesso livello di energia, impegno e attitudine di tre anni prima, per poi saltare giù dal palco e venire direttamente al bancone per passare un po’ di tempo con tutti i ragazzi che ne avessero voglia. 
Dopo quel concerto li ho seguiti ancora per un po’, dal brutto incidente capitato a Josh fino a quando decisero di prendersi una pausa. Lì una pausa me la sono presa anche io e per quanto fossi felice di sapere della reunion nel 2010, non sono più tornato ad interessarmi di quel che facessero o di dove suonassero. E’ possibile io abbia recensito il disco post reunion, While a Nation sleeps, non lo ricordo nemmeno brutto, ma è più onesto dire che non lo ricordo proprio.

Come dicevo poco più su, da ieri sono tornato abbastanza in fissa con i loro tre dischi cardine, After the Eulogy, Tomorrow come Today e The Misery Index
Son tre ottimi dischi, sebbene io mi dimentichi quasi sempre di citarli tra i miei preferiti. Probabilmente è perchè quando penso ai BoySetsFire penso al mio gruppo preferito non per tanto per la musica che ha scritto, ma per le persone che mi hanno sempre dato l’idea di essere.
Anche se, diciamocelo chiaro, hanno scritto una manciata grossa di canzoni incredibili.

La situa: #ScrubsRewatch

Quando Prime Video ha annunciato che avrebbe messo a catalogo tutte le stagioni di Scrubs ho pensato fosse l’occasione di fare il rewatch che mi promettevo di fare da tanto tempo.
Ho sempre considerato Scrubs la mia serie preferita, ma dopo tanti anni volevo verificare di non averla idealizzata eccessivamente. E invece, devo ammetterlo, lo avevo fatto.
È evidente sia un prodotto pensato ben prima del concetto di binge watching: ci sono una montagna di incongruenze e soffre di lungaggini e parti inutili che oggi forse una serie non potrebbe più permettersi. Ad essere del tutto onesti, anche la qualità non rimane certamente altissima per tutti e 182 gli episodi, anzi, ma il cuore della faccenda, racchiuso grossomodo nella prima e nell’ultima stagione, è ancora tutto lì a farsi ammirare. E mi ha riconquistato in pieno.
Non è stata solo operazione nostalgia però, in questa terza visione ho apprezzato cose che nelle precedenti non avevo notato. Carla, ad esempio, è uno dei personaggi femminili meglio scritti che mi vengano in mente, soprattutto per una serie che usa spesso linguaggio e stereotipi che oggi farebbero incazzare molti (anche giustamente).

Nota a margine: pur essendo Scrubs di fatto finito con l’ottava stagione, per la prima volta ho voluto guardare i 13 episodi di Scrubs Med School, quella specie di seguito/spin-off che è venuto dopo, con cast semi rivoluzionato. Pur essendo chiaro dal minuto 1 non sapesse dove andare a parare, devo riconoscere che il livello non è poi così distante dalla media delle altre stagioni, quindi il suo essere stato cancellato a metà della prima stagione è quasi più incomprensibile dell’idea di averlo voluto realizzare. Forse molti, come me, si sono semplicemente rifiutati di guardarlo, ma dopo un finale PERFETTO come quello della 8×19 era una scelta più che legittima, che mi sento di rivendicare in pieno.
Ora però bando alle ciance, è tempo de “La Situa”, ovvero di tutti i tweet che ho pubblicato durante questi due mesi in cui ho riguardato tutti gli episodi, marcando ciascun con l’hashtag #ScrubsRewatch.

30 Ottobre:
– S1e01 sto per premere play e sono onestamente emozionato.
– S1e01 miglior pilota di sempre e s1e02 attacca con quell’iconico montaggio musicale. Che serie meravigliosa.
– S1e03. Credo Scrubs abbia inventato il termine friendzone.
Poi vabbeh, potremmo discutere di quanto fosse avanti nello sviluppo dei personaggi femminili e di come i primi tre episodi siano la perfezione, ma viene tutto dopo gli ERASURE.
– Non riesco a non commentare ogni episodio al momento. S1e04, il tema della morte gestito con una maestria pazzesca. Piangerissimo.
– Sono stato in aereo e sono arrivato a s1e10. Forse tutto si normalizza un po’ dopo i primi episodi, ma le dinamiche tra i pg sono sublimi. Alla s1e06 compare Jordan e mi sono innamorato di nuovo.
1 Novembre:
– Scrubs è come quelle band nu-emocore in fissa con Gesù. Non sei magari d’accordo col messaggio, ma nella poetica gli riconosci spesso una marcia in più. S1e12 e s1e14 smaccatamente democristiani, eppure solo cuori. Ah, Alex figa atomica.
3 Novembre:
– S1e22. Ben. :(
5 Novembre:
– S2e01, si ricomincia dalle basi, ovvero dall’utilizzo della musica come chiave su cui tenere in piedi un episodio, cosa che forse era mancata un po’ nella seconda metà della prima stagione.
9 Novembre:
– S2e06. Episodio tutto sommato anonimo, ma poi arriva il discorso del dr. Cox a Turk ed è una di quelle cose per cui Scrubs è Scrubs.
13 Novembre:
– S2e12 è il primo episodio in cui le scenette surreali non avvengono nella testa di JD, ma nella realtà. Ero convinto succedesse ad inizio terza stagione, ma é un po’ il salto dello squalo per la serie. Poi non diventa brutta, ma certamente diversa.
18 Novembre:
– S2e17. Sto andando piuttosto a rilento, che cazzo di problema ho?
19 Novembre:
– S2e22 e finisce la seconda stagione. Ho riso più che con la prima, ma ho sofferto anche un filo più di stanca. TCW amore vero.
24 Novembre:
– S3e05 torna Dan. Personaggio meraviglioso, Dan.
– S3s06 e SBAM. Arriva Tara Raid. Ti amo ancora, Tara Raid.
25 Novembre:
– S3e12. Michael J. Fox pazzesco.
– S3e14 e non credo di farcela. Manco un po’, in effetti.
Lo ricordo come una delle cose più belle e toccanti abbia mai visto.
1 Dicembre:
– S4e01 e la scena della vasca sono il salto dello squalo.
– S4e04 e non riesco a seguire nessun episodio perché c’è Heather Graham con tutte quelle magliette scollate.
2 Dicembre:
– S4e15 la morosa di colore di JD non è la stessa ragazza della caffetteria della domanda Vaniglia o Cioccolato? Non ho voglia di controllare.
– S5e03 la fantasia del ladro di mele messicano si conferma una delle vette della serie.
3 Dicembre:
– La stagione 5, molto sopra la quattro fino ad ora (s5e09) è sia quella dei Toto che quella di More than a Feeling. La musica torna protagonista, non succedeva da un po’.
– E’ almeno la terza volta che vedo s5e16 nella mia vita, ma è la prima volta che la vedo da papà e, incidentalmente, la prima in cui mi vengono i lucciconi.
– S6e04 e la parodia di Dr. House con tanto di musichetta fake. Che stile.
4 Dicembre:
– S6e06 è quello musical.
Madonna.
Che.
Merda.
9 Dicembre:
– S6e11 è la puntata con il best of. Credevo fosse impossibile fare peggio di quella musical.
11 Dicembre:
– Credo la sesta sia la peggior stagione di Scrubs, e credo sia per quello che si son giocati la morte di Laverne (s6e15). Però funziona.
18 Dicembre:
– La stagione 6 mi sta mettendo a dura prova. Credo che una delle cose belle di Scrubs sia il suo non essere adatta al binge watching.
Cmq s6e20 ed ecco spuntare un giovane Reverendo Newlin. Quasi quasi riguardo True Blood.
22 Dicembre:
– s7e09 e il pensionamento di Bob Kelso. Che personaggio meraviglioso Bob Kelso.
23 Dicembre:
– Non capisco perché la stagione 6 e la 7 abbiano episodi in ordine palesemente sbagliato.
Andiamo alla 8, che ricordo come una delle migliori.
– S8e02 è ancora uno dei miei preferiti. Riprende una delle tematiche che il miglior Scrubs affronta in modo impareggiabile e lo fa come ci aveva abituati a fare.
Nota a margine: l’ottava stagione ha una fotografia tutta nuova. Sembra un’altra serie.
24 Dicembre:
– S8e06. Hanno palesemente rimosso pezzi di quanto successo nella stagione precedente. Boh.
27 Dicembre:
– S8e14. Oggi come allora una voglia di finire alle Bahamas che neanche quando guardavo Black Sails. E io ho amato Black Sails.
28 Dicembre:
– Con la 8×19 si conclude il mio rewatch, ma è stato come la prima volta. IL. MIGLIOR. FINALE. DI. SEMPRE.
Magari sto giro provo a guardare lo spin-off, ma dopo un finale così non ha molto senso. È stata una bella corsa, più difficile di quanto ricordassi.
– Mi sono visto anche Scrubs Med School alla fine, per la prima volta. È una sorta di Community che punta a coverizzare idee e personaggi delle stagioni precedenti spacciandoli per nuovi. Tipo Episodio VII.
E ho visto pure Interns, la webserie: Inutile.