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Ricette

Lo spaghetto alle cozze GIUSTO

Per quanto mi secchi dare ragione a chi me lo faceva notare, questa deriva di chiamare gli spaghetti al singolare nel nome dei piatti è abbastanza rappresentativa di tutto ciò che io per primo trovo sbagliato nella ristorazione attuale. Lo ammetto. Potrei dire che c’è differenza tra chi prova a dare al proprio menù una posa gourmet al fine di rincarare tutto del 30% e chi ci scrive al massimo il titolo di un articolo su un blog irrilevante, ma sarebbe una scusa. Il fatto è solo che ormai “lo spaghetto” è entrato nel mio slang e tocca venirci a patti. Anyway.
Come spesso accade quando questo blog attraversa un momento di stanca e non ho molto di cui mi vada di scrivere, finisco per tornarci all’unico scopo di regalare al mondo una ricetta GIUSTA e oggi non fa eccezione, quindi mettetevi comodi e preparatevi a conoscere l’unica via verso lo spaghetto con le cozze.
Ora, se la prima reazione che vi viene a leggere il piatto è: “Non sarebbe meglio farlo con le vongole?” siete messi peggio di quanto mi aspettassi e quindi mi tocca partire da

LE BASI:
Le cozze sono più buone delle vongole e costano meno. Non c’è proprio gara.
Adesso che siete sul pezzo, direi che possiamo partire con la ricetta che è davvero di un semplice che levati.

INGREDIENTI:
– Cozze
– Spaghetti o eventualmente linguine
– Due spicchi d’aglio
– Olio EVO
– Vino bianco (opzionale, poi spiego)
– Pepe nero macinato fresco
– Scorza di un limone grattuggiata

Non c’è scritto prezzemolo, ma soprattutto non c’è scritto peperoncino. 
Il motivo? Non stiamo facendo uno spaghetto con le vongole.

PROCEDIMENTO:
Una volta che si conoscono alcuni principi inderogabili, preparare una buona pasta con le cozze è davvero facile, veloce e regala una soddisfazione assurda. Vi invito a provare e poi farmi sapere.
Per prima cosa mettete l’acqua a bollire per la pasta, salata.
In una pentola bassa mettete a soffriggere abbondante olio con i due spicchi d’aglio. Io l’aglio lo taglio a metà per il lungo ed estraggo l’anima, che è quella specie di tronchetto interno che viene via da solo facendo leva con la punta del coltello. Lo faccio perchè mi dicono questo renda l’aglio più digeribile, ma tanto mia moglie non me lo fa mangiare uguale quindi a me cambia poco. Volete usare l’aglio in camicia (aka con la buccia) e poi toglierlo in cottura? Boh, non sono qui a giudicare nessuno, ma non ho grande opinione di voi.
Quando l’aglio inizia a prendere colore, buttate le cozze e mettete un coperchio, tenendo la fiamma bella viva.
Lo so, c’è un elefante nella stanza: come pulisci le cozze? 
Non ne ho idea. O meglio, so come andrebbe fatto, ma è uno sbattimento infinito che mi priva della gioia di poter cucinare una pasta buona in pochissimo tempo. E’ un po’ come vedere quelli che si mettono con il termometro a fare la fondutina di pecorino per fare la cacio e pepe, o che fanno lo zabaione di uovo pastorizzato per la carbonara: non discuto il metodo e neanche il risultato, ma per me è una roba completamente senza senso. Nerdismo della peggior specie.
Io quindi le cozze le prendo pulite e sotto vuoto al banco del pesce fresco. Vanno consumate subito, ma hanno il vantaggio di essere pronte a finire in padella, necessitano solo un piccolo check per verificare l’effettiva rimozione della barbetta da ogni bivalvia.
Altra questione importante: quanto le devo cuocere?
Qui la situazione è più delicata perchè qualsiasi ricetta o corso vi insegna che la chiave del successo, quando si cucinano i molluschi, è non stracuocerli. Spesso però l’adattamento casalingo di questo metodo porta noi spadellatori amatoriali a trovarci con l’ansia di toglierle dal fuoco prima possibile, che si traduce nel trovarsi poi metà buona dei gusci ancora chiusi. Secondo me è una pirlata. Se devo rischiare tra buttare 1/3 del pesce o servirlo oltre cottura per me non c’è neanche da pensarci, soprattutto perchè le cozze tendono meno a diventare dure e gommose rispetto ad altri molluschi. L’ideale quindi è usare un coperchio trasparente e monitorare costantemente lo stato di cottura/apertura delle cozze.
Quando sono aperte, è il momento di sfumare con il vino bianco.
ATTENZIONE.
Qui è dove secondo me si gioca la partita.
Il vino bianco usato per sfumare, di solito, è un vinaccio. Di conseguenza l’unico apporto che conferisce al piatto è acidità. Non fraintendetemi, la componente acida è necessaria in questo piatto, ma non deve per forza di cose arrivare dal vino. Se quindi siete soliti sfumare con il tavernello nel cartone (come faccio io 9/10), evitate questo passaggio. Se invece avete la possibilità di sfumare con un buon vino bianco, profondo e aromatico, che possa portare complessità di gusto al vostro sugo, allora usatelo. Io ho provato a sfumare con un buon bianco e la differenza si sente. Tanto. Però sono anche tra quelli che preferisce bersi il vino, piuttosto che metterlo nella pasta, quindi capisco chi non voglia sprecare un bicchiere di qualità. Davvero, I feel you, my alcoholic friend. Solo, in quel caso, suggerisco di non sfumare proprio. Fidatevi.
Ora possiamo spegnere le cozze, che dovrebbero essere in una brodaglia molto lenta (aka liquida), e buttare la pasta nell’acqua che bolle nella seconda pentola. Ci siamo detti che stiamo facendo uno spaghetto, ma può andare anche una linguina. Pasta lunga secca non all’uovo, abbastanza sottile. Niente capelli d’angelo, bucatini o tagliatelle perchè porcaccio il clero vi vengo a prendere a casa.
Il trick adesso è portare la pasta a metà cottura (aka leggere il numero scritto sulla confezione e puntare un timer con la metà di quei minuti), mentre sgusciamo una ad una tutte le nostre cozze, rituffando il mollusco nella brodaglia che c’è in padella e buttando i gusci, che nessuno vuole nel piatto. Mai. Never.
Quando è trascorso il tempo necessario a metà cottura, riaccendete la brodaglia delle cozze e buttateci la pasta mezza cruda dentro. Questo servirà a due scopi:
1) Restringere il brodetto delle cozze presentando alla fine una pasta “asciutta” e non brodosa.
2) Finire la cottura della pasta, che avrà ancora amido da regalare e che quindi addenserà di suo quello stesso brodetto, rendendolo più cremoso. 
Si potrebbe mettere la pasta nel brodetto delle cozze da cruda e fare tutto in un’unica padella? Sì, ma io ho standardizzato questo metodo che mi permette di accorciare i tempi e non stracuocere davvero le cozze oltre ogni logica. L’ho replicata diverse volte e non ho mai avuto bisogno di aggiungere acqua di cottura nella fase finale, il brodetto è di massima l’esatta quantità di liquido che mi serve a chiudere la cottura senza che asciughi troppo o resti troppo liquida. Io faccio così, ma non voglio tarparvi le ali, insomma.
Ora che il piatto è essenzialmente pronto va aggiustato con gli ultimi due ingredienti: pepe nero e scorza di limone.
Il pepe nero serve a rendere questa pasta vicina al piatto principe che ha la cozza come protagonista, ovvero l’impepata. Ce ne dovete mettere tanto e, quando vi sembra di aver esagerato, grattarne ancora. Discorso diverso per la scorza di limone, che deve essere presente e decisa, ma non deve sovrastare. Soprattutto, deve tenere conto del fatto che abbiate o meno sfumato con il vino. Se lo avete fatto, ce ne vorrà meno e avrà più lo scopo di profumare che non di conferire acidità, se invece non avete sfumato avrà questa duplice mansione. Assaggiate, per dio, e le quantità le capirete da soli.

Fine, nulla di più semplice.
Provatela e ditemi se non prende a calci in culo quell’aglio, olio e peperoncino mascherata che è la vostra fottuta pasta alle vongole.

Il chili GIUSTO

Una delle cose belle dello smart working è che puoi fare il chili per il martedì a mezzogiorno. 
E’ una bella cosa perchè, senza falsa modestia, io faccio un chili eccellente. La ricetta è stata costruita negli anni a fronte di esperienza diretta, incontro con la cultura messicana e spunti di vario genere e provenienza. E’ importante sottolineare che il chili con carne è un piatto più texmex che tradizionale americano, quindi il grosso della mia ricerca è stato focalizzato al tentativo di avvicinarne il gusto alla tradizione centroamericana, fatta di sapori complessi e molto stratificati.
Quella che vi riporto quindi è una versione che io definisco GIUSTA perchè centra perfettamente l’obbiettivo e restituisce quelle sensazioni, più vicine al mole poblano che non a Taco Bell.
Puto yanqui.

La seconda premessa riguarda la diatriba sul tipo di carne da utilizzare. Se dico chili con carne è immediato immaginare una preparazione fatta con la carne macinata, eppure vi garantisco che la si può anche preparare a cubetti, come una sorta di spezzatino, ottenendo qualcosa di diverso, ma comunque GIUSTO. La domanda che dovete farvi è: voglio metterlo in una tortilla o mangiarlo con le posate e magari del riso? Io tendo ad essere #TeamTortilla, ma non mi spiace variare. Poi oh, non starò certo qui a negare di aver messo anche la versione a spezzatino dentro una tortilla, il limite è la vostra fantasia.
Nei due casi però la scelta del tipo di carne cambia. 
– Se volete farla con il macinato, la soluzione che preferisco è un trito misto maiale/manzo (1:4). Non suggerisco tagli particolari, io dico solo al macellaio di non usare pezzi troppo magri.
– Se volete provare la pezzettoni experience invece è fondamentale prendiate carne da spezzatino che non diventi troppo asciutta dopo la cottura. Il chili infatti cuoce con una dose minima di liquidi, questa è proprio la chiave del successo, deve venire fuori qualcosa di molto cremoso, ma asciutto. Se ci puoi pucciare il pane hai sbagliato qualcosa, se gocciola fuori dalla tortilla anche. Potete usare il classico cappello del prete, ma la carne migliore per me è quella degli ossi buchi fatta a tocchetti. Trust me. 

INGREDIENTI (4 porzioni):
– Burro
– 500 grammi di macinato / spezzatino
– 1 bicchiere di tequila (meglio se reposado)
– Olio EVO
– 1 cipolla bianca piccola
– 1 scalogno (se la cipolla vi uccide potete fare solo scalogno, se vi piace solo cipolla)
– 2 spicchi d’aglio
– peperoncino (vedi nel procedimento)
– 400 grammi di fagioli secchi neri o rossi, ammollati dalla sera prima in acqua.
– 1/2 cucchiaino di cumino secco
– 1/2 cucchiaino di coriandolo secco (il coriandolo fresco fa CA-GA-RE.)
– 1 cucchiaino di paprica dolce
– 1 cucchiaino di paprica affumicata (se ce l’avete, altrimenti raddoppiate la dolce)
– Timo, alloro e maggiorana secchi a piacimento (mezzo cucchiaino scarso per ognuna è sufficiente)
– 2 cucchiai abbondanti di triplo concentrato di pomodoro
– 1 cucchiaino pieno di cacao amaro in polvere
– 1 tazzina di caffè espresso o da moka, ma non solubile.
– 100g di panna da cucina non zuccherata
– 100g di yogurt greco
– il succo di mezzo lime o limone

INGREDIENTI CHE NON DOVETE USARE:
Carote, sedano, salsa di pomodoro, pomodori freschi (!), peperoni freschi (!!) e il fottuto mais (!!!).

PROCEDIMENTO:
Come per tutte le ricette, la base è apprendere l’arte delle cotture separate. Se si rosola la carne insieme alle verdure viene tutto male, dobbiamo rosolare entrambe le parti al meglio per avere un risultato vincente, facendo pochissima acqua.
Iniziamo dalle verdure, quindi. In una casseruola rosoliamo con olio extravergine la cipolla, lo scalogno, l’aglio e il peperoncino. E’ importante aggiungere il peperoncino subito nel soffritto perchè l’olio estrae il piccante, l’acqua molto meno, quindi va messo quando i liquidi ancora non ci sono. Ok, ma quale peperoncino usiamo? L’ideale è usare del peperoncino fresco tipo habanero, perchè ha una caratteristica di gusto perfetta che va oltre il piccante. Si può anche usare del peperoncino essiccato, sempre habanero (io faccio così, avendo la pianta). Non starò a dirvi che altri peperoncini non vanno bene perchè è una minchiata, anzi, se avete del peperoncino in polvere è più semplice dosarlo le volte successive per avere il piccante che preferite, mentre usandolo fresco è una specie di roulette russa. Unica cosa davvero importante è che il chili deve spingere, quindi ragionevolmente e in conformità al proprio palato cercate di andare un filo oltre quello che per voi è il piccante giusto, il motivo ve lo spiego dopo.
Quando la cipolla e lo scalogno iniziano ad appassire e l’aglio ad imbrunirsi, aggiungiamo i fagioli scolati (non buttate l’acqua!!!) e tostiamoli una minima, senza far bruciare il resto. A questo punto via dal fuoco e passiamo alla carne. 

Prendiamo una padella, meglio se di alluminio/ferro o comunque non antiaderente, e ci mettiamo una generosa noce di burro. Quello chiarificato rosola meglio, ma non sono qui a fare il fighetto di stocazzo quindi usate il burro che avete, che tanto va bene. Quando sfrigola, buttate la carne stando attenti a non ammassarla, ma distribuendola bene su tutta la superficie della pentola. Soprattutto con il macinato, procedere buttando piccoli fiocchetti è importante, altrimenti la carne farà acqua, l’acqua abbasserà la temperatura a 100° C e non si rosolerà più niente. Sono piccole cose, ma fondamentali. Non richiedono poi tutto questo lavoro in più, solo un po’ di accortezza., quindi fatele senza farmi bestemmiare.
Rosoliamo la carne fino a che fa una bella crosticina marrone scuro e se non ci sta tutta insieme andiamo per gradi: togliamo quella rosolata bene dalla pentola e aggiungiamo quella cruda, fino ad esaurimento. Non andate in para se la carne rosolata rimane fuori dal fuoco ad aspettare, non è un problema. Una volta rosolata tutta la carne, sul fondo della padella dovreste avere un bel fondo marroncino. Se non c’è non avete rosolato bene, se è nero avete bruciato la carne e vi suggerisco di fermarvi, buttare tutto e ordinarvi una pizza.
Il fondo marroncino lo dobbiamo deglassare (aka sfumare) con la tequila: fuoco alto, buttiamo la tequila e con un cucchiaio di legno scrostiamo il fondo della padella mentre facciamo evaporare l’alcol. La tequila reposado (quella color paglierino e non trasparente, per intenderci) ha tendenzialmente più aromi e quindi è meglio di quella bianca, mentre non ho mai provato ad utilizzare il mezcal. La birra no. Davvero, non fatelo. No.
Deglassato bene il fondo buttiamo il tutto nella casseruola delle verdure insieme alla carne rosolata, diamo una bella girata, saliamo, pepiamo (il pepe serve anche se c’è il peperoncino, ma senza esagerare) e aggiungiamo le spezie. In ultimo aggiungiamo il concentrato di pomodoro.

Qui parte la magia, ovvero la cottura, che va fatta col coperchio, a fuoco bassissimo e giocando sapientemente con i liquidi. Lo scopo infatti, come dicevo prima, è tenere il chili il più asciutto possibile ed è per quello che usiamo il concentrato di pomodoro e non la salsa/passata. Se però non stiamo all’occhio, tenendolo asciutto rischiamo di farlo bruciare ed attaccare al fondo della pentola, rovinando tutto il lavoro. Vuol dire che dobbiamo stare fissi a guardarlo cuocere per ore? No.
Se vi siete tenuti l’acqua di ammollo dei fagioli da parte, potete aggiungerne un paio di mestoli ogni mezz’oretta, direttamente a temperatura ambiente. Questo abbasserà la temperatura in pentola e allungherà i tempi di evaporazione, mantenendo la vostra preparazione umida, ma non liquida. Potete anche usare acqua normale, se non volete riciclare quella dei fagioli. Spreconi.
Il chili dovrà cuocere per circa due ore e mezza, ma non abbiamo ancora finito con l’aggiunta degli ingredienti: ora arrivano i due colpi di classe, quelli che indirizzano il piatto verso l’autenticità messicana. Dopo un’ora di cottura, quando il tutto è amalgamato bene (soprattutto il concentrato di pomodoro), aggiungete il cacao amaro e la tazzina di espresso*. 
SBAM. Avete svoltato.

Nell’ora e mezza che ci manca a concludere la cottura ci resta da preparare un’ultima cosa fondamentale, ovvero la panna acida. Non ci vuole chissà cosa, basta unire parti uguali di panna da cucina non zuccherata (non necessariamente fresca) e yogurt greco, irrorando il tutto con il succo di mezzo lime (o limone). Mescolate tutto insieme e lasciate riposare almeno un’oretta in frigo. 
La panna acida ha un doppio scopo: il primo è scomporre il sapore ultra complesso del chili rendendolo più facile da apprezzare nelle sue sfumature, il secondo è tagliare il piccante. Se però siete stati parchi con il peperoncino, rischiate che la panna acida ve lo copra del tutto e un chili non piccante è una sconfitta. Di massima la panna acida va usata come l’acqua nel whisky: dosi giuste amplificano il godimento e smorzano l’eccesso di alchol, se si esagera va tutto affanculo.

Al termine delle due ore e mezza di cottura spegnete il fuoco e lasciate riposare coperto per altri 30 minuti prima di servire, accompagnando con la panna acida e, se volete esagerare, un guacamole GIUSTO.
Non ve ne pentirete.

* Il caffè è l’ultima aggiunta che mi ha permesso di certificare questa ricetta come GIUSTA e per questo devo ringraziare Riccardo.

Che pizza!

Mia moglie è in fissa per i lievitati.
Più che cucinare in generale, a lei piace impastare e cimentarsi in tutti quei prodotti che spaziano tra panificazione e pasticceria, con decisa predilezione per pizze e focacce.
In casa nostra si faceva il pane da ben prima del lockdown, per dire, e con l’isolamento ormai ci mancano giusto un paio di animali da pascolo in giardino per autoproclamarci agriturismo.
Per il dottorato, come colleghi, le avevamo regalato la Macchina del Pane, qualche anno dopo io le ho regalato anche la Planetaria. Di suo, lei si spara viaggi assurdi dentro blog di cucina degni del deep web in cui capita che ad Agosto qualcuno chieda indicazioni su come fare un Pandoro (#TrueStory), ma si applica e regala spesso grandissime soddisfazioni.
A Natale quindi ho deciso di fare un ulteriore investimento al fine di stimolare la crescita di questa passione, regalandole un forno da pizza.

Nelle community di BBQ che ultimamente frequento io ha iniziato a circolare questa passione parallela per i fornetti della Ooni e così ho deciso di fare una ricerchina e prenderne uno.
Delle tante versioni disponibili (gas, elettrico, legna e pellet) io ho scelto l’ultima perchè, nella mia testa, il forno da pizza deve essere a legna, ma la legna vera è più sbattimento da gestire e la soluzione a pellet mi intrigava. Oltretutto il pellet pare essere anche l’ultima frontiera in ambito grill, quindi era un modo per avvicinarmi alla questione.
Il nostro nuovo fornetto del cuore si chiama “Fyra“, quindi, e lo abbiamo testato ieri sera.
Prima cosa da dire è che il prodottino è molto curato: materiale che dà l’idea di essere solido e ben pensato per un prezzo* che a me pare abbastanza onesto. Si monta in 30 secondi, ma per procedere alla prima infornata è necessario munirsi di “accessori”.
1) Il pellet. Grazie al cazzo, direte voi, però meglio precisarlo. Un sacco da 3Kg di pellet Ooni costa poco meno di 10 euro all’Agribrianza di Concorezzo, che è tipo il Peck dell’outdoor. Per iniziare io ho preso quello, ma se ne trovano anche di più economici adatti allo scopo, proprio perchè il mondo BBQ ormai è pellet dipendente.
2) Una pala per pizza. In questo caso quelle Ooni sono davvero fuori dalla grazia di Dio in termini di prezzo. Noi ne avevamo in casa una in legno e abbiamo usato quella senza problemi.
3) Un termometro a pistola di quelli ad infrarossi. So che state pensando: “E chi non ce l’ha, nel 2020?”, ma quello che vi serve deve avere un range che arrivi oltre i 500°C, quindi immagino che il Chicco preso per mandare i figli all’asilo non faccia al caso vostro. Se ne trovano comunque online a cifre ultra ragionevoli e se avete speso quasi 300* euro per un fornetto hobby non credo il problema sia il costo del termometro. Io ho preso questo completamente a caso su Amazon.
Ottenute queste tre cose, nulla vi separa più dalla vostra smania da pizzaioli.

La domanda ora è una sola: funziona bene?
La risposta breve che posso dare, dopo un singolo utilizzo, è un sì convinto, ma essendo un blog provo ad argomentarne una più dettagliata.
La caratteristica chiave di questi forni rispetto ad altre soluzioni, da quanto ho capito studiacchiando in giro, è che sono veloci e devo dire che da parte mia è una caratteristica che confermo.
All’acquisto mi parlavano di 15′ per mandare il forno in temperatura e circa 90″ per cuocere una pizza. Noi, orologio alla mano, l’abbiamo portato a 500°C in 25 minuti circa, ma forse ha inciso il fatto che l’ambiente in cui lo stavamo facendo andare preparava la bufera di neve che se siete di Milano state vedendo fuori dalla finestra. Per me comunque anche 20/25 minuti di setup è un tempo accettabile, considerato che tutto quel che devi fare è accendere il pellet e aspettare e farsi una pizza non è proprio una cosa che decidi all’ultimo secondo dovendo preparare impasto e condimenti.
Sul tempo di cottura invece è necessario fare qualche precisazione. La prima pizza è cotta perfettamente in 90″, la seconda pure. Poi il forno ha iniziato a scendere di temperatura e di conseguenza i tempi si sono allungati. Il motivo, secondo noi, è legato al fatto che il forno va a palla quando ha lo sportello chiuso, ma perde potenza abbastanza rapidamente con lo sportello aperto. Il punto è che la cottura va fatta con lo sportello aperto, da indicazioni, e crediamo sia perchè se lo si chiude il forno torna a cannone in un secondo e brucia la pizza.
Di conseguenza, ad una prima prova, l’idea che si siamo fatti è che forse conviene fare dei round di cottura intervallati da periodi di innalzamento temperatura, soprattutto se come noi non siete proprio lestissimi nello sfornare una pizza ed infornare la successiva.
Spannometricamente: se devi fare tre pizze, falle in fila e amen. Se ne vuoi fare sei, io forse le farei due alla volta, intervallando 5 o 10 minuti a porta chiusa. Secondo me è anche una cosa carina per chi fa le pizze, che non deve stare al forno mentre gli altri mangiano, e aumenta la convivialità: metti le prime due in mezzo, ognuno prende una fetta, e mentre si mangia il forno ricarica. Poi magari continuando ad usarlo capiremo come ottimizzare il tutto, ma il punto è che due perfetti neofiti della pizza al forno a legna come me e la Polly ieri sera hanno sfornato 7 pizze in un’ora scarsa, cappellandone irrimediabilmente solo una.
Ottimo risultato.

Ok, ma com’era la pizza?
Pazzesca, da pizzeria. Croccante, ben cotta, non bruciata. Per essere un primo tentativo, ben oltre le aspettative. Ora, Paola probabilmente non è Sorbillo, ma un minimo di lievitati è pratica e se me lo chiedete sulla resa finale penso conti molto più la qualità dell’impasto che non la resa del forno. Per sommi capi: impasto buono salva una cottura del cazzo, una cottura perfetta non credo salvi un impasto del cazzo. Lei ieri ha usato questa formula qui, conoscendola non credo pescando a caso dal mazzo. Ne proveremo probabilmente altre, ma davvero la combo impasto+forno, per essere un pilota, ha dato risultati importanti. Abbiamo provato diverse combo (con e senza pomodoro, con e senza mozzarella, più o meno farcite) e l’unica sbagliatissima è stata quella coi pomodorini crudi, credo però più per via del forno sceso troppo di temperatura.

Altro da aggiungere?
Mah, forse i consumi. Sul manuale dice che con 150g di pellet tiene 15 minuti di cottura, ma di fatto noi ne abbiamo usato circa il doppio. Anche quello credo sia ottimizzabile, ma diciamo che abbiamo cotto 6 pizze con un euro di pellet. Se sia tanto o poco non lo so, ma diciamo che si torna all’idea di spendere 300* euro per farsi la pizza in casa.

Questa è una foto che ho provato a fare nel forno durante una delle cotture. Fa schifo, ma già non sono Toscani di mio, immaginatevi dovendo fotografare dentro ad un coso che sta a 500°C. 

* Ooni Fyra io l’ho pagato 279,00 euro a Settembre nella stessa Agribrianza di cui dicevo sopra (avevo paura del secondo lockdown e ho preso un regalo di Natale a Settembre, sì.).
Sul sito, oggi, lo vedo a 259,00.
Come dicevo prima, per me li vale.

DISCLAIMER: Non credo si possa anche solo ipotizzare che qualcuno mi dia dei soldi per parlare di prodotti, ma lo specifico in ogni caso: tutto quello che ho scritto è solo per iniziativa personale.
Detto questo, se voleste pagarmi per farlo, sono qui.

Verticale di cotechini

Ogni tanto mi piace mettere qui sopra delle ricette. Di solito lo faccio quando, dopo innumerevoli tentativi, definisco il protocollo migliore per il piatto in questione e lo cristallizzo. A quel punto la ricetta diventa GIUSTA e mi piace metterla a disposizione di chi fosse interessato.
Ad oggi credo di averlo fatto quattro volte in quindici anni, quindi il mio non è propriamente il blog di Benedetta Parodi, però dai feedback che ho tirato insieme le ricette sono state apprezzate e questo mi fa piacere.

Oggi tuttavia non posterò una ricetta GIUSTA, ma il frutto di un esperimento volto a definire il miglior modo di cuocere un cotechino, che ha dato certamente qualche risposta, ma che non ha ancora definitivamente chiuso la questione.
Se sei tra quelli che pensano che il cotechino si debba fare unicamente bollito, forse continuare a leggere qui sotto può aprirti un mondo.
Ah, precisazione stupida, ma forse necessaria: qui si parla di cotechini crudi, non di quelle porcate precotte da scaldare che trovate nei cesti da 0,99 euro.
Non fatemi bestemmiare.

VERSIONE 1: El Clásico
Bollire il cotechino non è l’unica via, ma è certamente la più comune e tradizionale, anche perchè parte di uno dei pilastri della nostra cucina: il bollito misto. Ciò nonostante è incredibile quante persone non siano in grado di farlo.
Per cucinare il cotechino bollito bisogna avere una gran pazienza.
Si prende il cotechino, lo si buca con uno stuzzicadenti in più punti, lo si immerge in acqua fredda non salata e poi lo si mette sul fuoco. Quando l’acqua sobbolle, si abbassa la fiamma al minimo e lo si lascia andare per circa due ore e mezza.
A quel punto, si spegne il fuoco e lo si fa raffreddare nella sua stessa acqua di cottura fino ad una temperatura che ne permetta il servizio.
NOTA 1: Il tempo di cottura dipende dalle dimensioni del cotechino, qui io faccio riferimento a cotechini standard diciamo lunghi sui 25 cm e dal diametro intorno agli 8 cm. Se fate una bogia mantovana probabilmente vi servirà molto più tempo.
NOTA 2: Alcuni macellai consigliano di avvolgere il cotechino nella stagnola e legarlo, prima di bucarlo e metterlo in acqua fredda. Io non lo faccio.

VERSIONE 2: New Era
Questa versione, come le prossime, prevede un cambio drastico nel metodo di cottura, passando dall’acqua bollente alla brace. Il motivo principale per portare il cotechino nel bbq è la possibilità di affumicare.
Per intraprendere questa nuova via è necessario avere un minimo di basi nella cucina al bbq di tipo americano, ovvero essere in grado di:
– Cuocere in modalità indiretta, quindi con l’alimento non a diretto contatto col calore derivante dalla brace.
– Stabilizzare un dispositivo bbq, ovvero impostarlo perchè rimanga ad una temperatura costante che stia tra i 100° C e i 120° C per tutto il tempo necessario
– Affumicare, ovvero avere a disposizione un bbq chiuso in cui si possa aggiungere legna bagnata sul fuoco e generare fumo che resti a contatto con gli alimenti conferendo il tipico aroma affumicato. Per i cotechini ho usato del legno di ciliegio, che oltre ad essere molto indicato per il maiale conferisce un bel colore rosso vivo alla carne.

La seconda versione del mio cotechino è stata quindi cotta nel weber in due fasi. La fase iniziale di affumicatura è durata 30′ con il cotechino “nudo” in cottura indiretta. Al termine di questi 30′ ho avvolto il cotechino nella carta stagnola e proseguito per altre due ore. L’obbiettivo della stagnola era fermare il processo di affumicatura, lasciando quindi un gusto più mild, ed evitare che il cotechino seccasse vista l’assenza di liquidi di cottura. Per questo motivo non ho effettuato buchi nel cotechino.

VERSIONE 3: Beer Bong
Sempre utilizzando il bbq ho voluto provare una strategia che viene comunemente utilizzata per la cottura di salsicce e salamelle, ma applicandola al cotechino. 
Partito in parallelo alla versione 2, una volta trascorsi i 30′ di affumicatura questo cotechino è stato trasferito in una casseruola di terracotta in cui avevo pre-riscaldato della birra (ho usato la Moretti Rossa). La casseruola, chiusa adeguatamente col coperchio, è stata poi re-inserita nel bbq per continuare la cottura nelle successive due ore.

VERSIONE 4: Hardcore
Qui siamo alla versione più estrema delle quattro, quella in cui il cotechino è rimasto per 2 ore e 30′ nudo in cottura indiretta e senza alcuna protezione/schermo dal fumo presente nel dispositivo. Il processo di affumicatura è quindi coinciso con tutta la durata della cottura.

CONCLUSIONI:
Come detto, i 4 cotechini sono stati cotti simultaneamente per lo stesso tempo e grossomodo alle stesse temperature. Dopo un piccolo riposo di fine cottura che li ha portati ad una temperatura interna di circa 75°, li ho serviti a cinque commensali in modo da raccogliere pareri ed opinioni.
Quello che ha riscosso un maggior successo è stato il New Era. Aver fermato l’affumicatura ha dato al cotechino una spinta in più in termini di gusto, ma senza allontanarlo completamente dalle sue origini. La stagnola ha anche permesso di mantenere l’ambiente di cottura più umido, quindi il cotechino più morbido e simile alla versione classica bollita. Per chi non è abituato ai sapori del bbq è probabilmente il passaggio più facile, ma in qualche modo è anche la versione che riesce a soddisfare i puristi del cotechino bollito, che continuano a trovarci quelli che considerano i trademark del piatto.
La versione Hardcore, comunque apprezzata, porta il cotechino a tutto un altro livello che non ha oggettivamente nulla in comune con la versione classica. Cambio totale di colore, consistenza e gusto. Per me in questa versione la nota affumicata è fin troppo accentuata, anche se non arriva ad essere fastidiosa, perchè trasforma il cotechino in un cugino delle salsicce tirolesi e io non sono particolarmente fan delle salsicce tirolesi.
Delusione totale per la versione Beer Bong. La cottura in umido mantiene certamente il cotechino più morbido e non elimina i toni affumicati presi nello step iniziale, tuttavia il retrogusto amarognolo conferito dalla birra non è di fato un plus, anzi “rovina” il gusto del cotechino. Forse la scelta della birra è stata completamente sbagliata, serviva qualcosa di più morbido e rotondo di una Moretti Rossa, ma a conti fatti è l’unica versione che difficilmente riproporrei.
Su El Clásico invece nulla da dire: messo nel piatto unicamente come benchmark per gli altri tre, resta una pietra di paragone scomoda da superare. Il gusto è probabilmente meno complesso e particolare, ma rimane un piatto per me irrinunciabile.

L’amatriciana GIUSTA

Ci sono essenzialmente tre motivi per cui mi arrogo il diritto di scrivere la ricetta dell’amatriciana GIUSTA pur non essendo di Amatrice e avendoci anzi messo 2/3 abbondanti della vita a realizzare che non si chiamasse “pasta alla matriciana”:
1) Ho il giusto livello di ODIO verso le rivisitazioni gourmet.
2) Ho fatto un corso dedicato alle paste alla romana.
3) Se Enzo al 29 avesse una tessera frequent eater, la mia sarebbe d’oro.

Perchè l’amatriciana? Perchè dei sughi alla romana è l’unico che sono capace di fare. Pur essendo semplicissimi e composti da un numero minimo di ingredienti, infatti, i primi piatti laziali nascondono una miriade di insidie e realizzarli nel modo GIUSTO è una sfida che non è facile superare.
Prendiamo la carbonara, per esempio. 
In casa mia, da anni, sono abituato a mangiare spaghetti con la frittata. Li faceva mia madre e li fa anche la Polly. Mi piacciono eh, tanto anche. Però non posso non riconoscere siano una variante sbagliata perchè la ricetta esige l’uovo fluido, crudo e cremoso. Questo è addirittura un problema, per me, perchè io l’uovo crudo lo odio e ho sempre il terrore di ordinare una carbonara fuori casa proprio perchè, se viene fatta male, l’uovo crudo mi risulta mille volte meno sopportabile dell’uovo troppo cotto.
Quando però la mangi GIUSTA, capisci realmente cosa sia la carbonara e non puoi più fingere chiamando così anche la versione casalinga.
In giro si trovano ricette super complesse per arrivare al risultato, tipo questa, ma non credo che una carbonara GIUSTA valga tutto quel lavoro, soprattutto se posso farmi la mia pasta con frittata e apprezzarla comunque parecchio. La carbonara GIUSTA quindi io me la mangio al ristorante e morta lì.
Idem Cacio&Pepe. Non ho la minima voglia di impazzire per non far stracciare la cremina di formaggio, quindi quando la faccio a casa scolo la pasta e ci rovescio sopra due quintali di pecorino e pepe nero macinati, senza che faccia creme e generando una roba sbagliatissima, che però ha comunque il suo gusto.
Il messaggio è: la cucina GIUSTA esiste, ma sbagliare non è certo un dramma, basta farlo in modo consapevole.

Arriviamo quindi all’amatriciana.
Esiste un disciplinare per questo sugo, delle regole ferree per quanto concerne origine e dosaggio degli ingredienti, tipo di pasta e via dicendo. Questa ricetta se ne batte allegramente il cazzo, ma vi farà portare a casa la miglior amatriciana che abbiate mai preparato con le vostre mani. Pronti?

INGREDIENTI:
– Guanciale, una fetta spessa mezzo centimetro. 
– Passata di pomodori datterini Mutti
– Pecorino romano
– Pasta (su quale ci scanniamo dopo)
– Olio, sale e pepe nero macinato
– NON SERVE UN CAZZO D’ALTRO, mettete via quel peperoncino. Dai. Veloci.

PROCEDIMENTO:
Partiamo dal guanciale. Prendete la vostra fetta, pulitela dalla cotenna, e tagliatela a listarelle. Diciamo che dei parallelepipedi 0.5×0.5×2 cm funzionano, ma non dovete mettervi lì col righello. Basta non tritarlo e stare più regolari possibile per cuocerli in modo omogeneo.
Scaldate un bel po’ di olio in una padella e quando è caldo ci buttate il guanciale. “Eh, ma minchia pure l’olio, c’è già il grasso del guanc…” ZITTI. L’olio aiuta a rosolare il guanciale, è fondamentale, ma poi mica finisce nel sugo. Quando il vostro guanciale è super croccante lo togliete dalla padella e buttate tutto il grasso che rimane nella stessa. A questo punto avrete una ciotolina con i vostri pezzettini di guanciale croccanti, che devono avere la consistenza di un cracker e scrocchiare sotto i denti, e una padella senza grassi dentro, ma con quei residui marroncini appiccicati sopra che definiamo “fondo di cottura”. Ok?

Bene, ora è tempo di mettere a bollire l’acqua salata per la pasta. Ma che pasta?
Pare ovvio, i bucatini. E invece no. Non perchè non siano buoni, ma perchè dopo un po’ di tentativi ho realizzato che la pasta migliore per questo sugo, in termini di resa, sono i gran fusilli Voiello. Non prendo soldi eh, non sono marchette le mie. E’ proprio che se li fate con quella pasta lì il rapporto sugo:pasta in bocca è perfetto.

Prepariamo il sugo. 
La pentola è quella di prima, con le sue belle crosticine marroni. La rimettiamo sul fuoco e ci rovesciamo la passata di datterini Mutti. Perchè questa? Perchè è dolce. Il trucco infatti è non salare il sugo e usare una salsa dolce, visto che il pecorino romano è salatissimo. Idem come sopra, non è una marchetta, non sono un influencer. Sono solo goloso.
La salsa, liquida, vi aiuterà a deglassare il fondo del guanciale, basta passare un cucchiaio di legno e staccarlo, per mandarlo ad amalgamarsi al pomodoro. Fiamma bassa, lasciamo sobbollire fino a che la pasta è pronta. Al dente.

Ora abbiamo tutto quel che serve, basta mettere insieme i pezzi.
Scoliamo la pasta e la rovesciamo nella pentola del sugo, che togliamo dal fuoco. Aggiungiamo il guanciale croccante e mantechiamo tutto con il pecorino romano grattugiato, abbondante. Mantecare vuol dire mescolare fuori dal fuoco, ma lo sapete perchè ormai i programmi di cucina in TV occupano il 75% dei palinsesti.

Fine, l’amatriciana è pronta, potete al massimo aggiustarla di pepe se vi piace spinta. Io lo faccio, per dire, ma va a gusti. L’importante è realizzare che non state facendo un’arrabbiata o una puttanesca.
Una volta che capite questa cosa, avete svoltato.


Questo è il millesimo post di questo blog. MILLE.
Per un momento ho pensato che usarlo per la ricetta dell’amatriciana fosse uno spreco mondiale, ma alcuni sedicenti lettori mi hanno suggerito che difficilmente avrei potuto produrre niente di più rilevante e quindi eccoci qui.
A me un po’ di emozione però questa cosa la suscita, scusate, quindi mi prendo una postilla per ringraziare tutti quelli che, almeno una di queste mille volte, si son fermati a leggere quel che avevo da dire.
Grazie a tutti. <3

Il guacamole GIUSTO

Questo non è un blog di cucina e io non sono un cuoco. Cucino eh, anche con risultati discreti se mi ci metto (mi sto dilettando col bbq ultimamente), ma non è una mia passione. La mia passione al massimo è mangiare, cucinare solo una via per soddisfarla.
Non mi piace scrivere ricette esattamente come non mi piaceva scrivere i protocolli in lab, quindi non essendo le prime parte integrante del mio lavoro evito volentieri. Ci sono peró una manciata di piatti a cui sono affezionato e che negli anni, vuoi per moda o per altro, sono stati massacrati dalla più massiccia ed ingiustificabile dose di SBAGLI possibile, arrivando a farmi odiare non tanto il piatto in se, ma chiunque lo proponga. Specie se si tratta di quei posti pretenziosi in culo che per educazione mi limiterò a definire “Gourmet”.
A queste bestemmie culinarie ho deciso di contrapporre delle ricette GIUSTE, linee guida da scolpire nel marmo e tenere presenti come unica verità possibile. Tempo fa ho scritto quella dell’hamburger e quella della cassoeula, ora è il momento vi mostri la via del guacamole.

Il guacamole è quella cremina di avocado che vi rifila a tradimento qualunque ristorante tex-mex insieme a nachos di cartone. A me è sempre piaciuta, un po’ come agli americani piace Pizzahut, ma quando sono stato in Messico ho realizzato quanto fossi radicato nello sbaglio e così ho chiesto ad un’amabile signora di spiegarmi come si facesse il guacamole GIUSTO.
Si fa così.

INGREDIENTI:
– Un avocado maturo
– Mezza cipolla bianca
– 1/4 lime (succo)
– Sale
Tutto è ovviamente scalabile in proporzione. So cosa stai pensando, ma no, non manca niente. Poi nelle FAQ ti spiego.

PROCEDIMENTO:
Per prima cosa devi scegliere l’avocado. Non ti mentiró, gli avocado che trovi qui fanno cagare. Anche quelli bio. Anche quelli che paghi oro. Ovviamente il guacamole dipende al 90% dall’avocado quindi è un bel problema, ma ho la soluzione che limita i danni. Se devi fare il guacamole subito, tipo che fai la spesa la mattina per prepararlo la sera, devi tastare gli avocado e sceglierne uno che pensi sia marcio. Deve essere molliccio e darti quella sensazione che per qualsiasi altro frutto si tradurrebbe in un tuffo nell’umido. Se invece vuoi farlo dopo giorni prendine pure uno duro e mettilo in una pentola con delle mele ad incubare fino a quando è pronto. It’s science, bitch.
Quando hai il tuo avocado bello maturo lo tagli a metà, poi scavi con un cucchiaio la polpa mettendola in un recipiente e la innaffi subito col succo di lime.
A questo punto devi schiacciare la polpa con un mortaio fino a che tutto diventa una cremina. Se non hai un mortaio va bene schiacchiare la polpa con una forchetta. Non. Devi. Frullare. Usa la forchetta (cit.).
Il tutto deve diventare cremoso e liscio, ma non troppo. Nel guacamole piccoli grumetti di polpa sono un plus.
Ora triti a coltello la mezza cipolla in modo che sia più fine possibile e aggiungi il trito alla crema insieme ad un pizzico di sale. Quindi riprendi la tua bella forchetta (do per scontato tu non stia usando mortaio e pestello perché sei un pigrone) e ricominci a passare la crema, per due motivi:
1) la cipolla deve integrarsi e scomparire.
2) di sicuro non avevi tirato a sufficienza la polpa di avocado e invece dei piccoli grumi qua e la avevi una sorta di poltiglia che sembra pre masticata.
Fai tutto questo almeno un paio d’ore prima di servirla in modo che si amalgami bene. Lasciala riposare con la pellicola a contatto se no fa la crosticina opaca. Non è un dramma, ma già che sei in ballo fai le cose a modino.
Bon, hai preparato il tuo miglior guacamole da mangiare con quel che ti pare, anche i tuoi affezionatissimi nachos di cartone.

FAQ:
– Hai dimenticato i pomodori?
No. So che li mettono sempre, ma non ci vanno. Porcodue.
– Hai dimenticato il peperoncino/i jalapeños?
No. Il guacamole non è piccante. Porcodue.
– Ho preso l’avocado che sembrava marcio ed era marcio. Perché?
Eh, capita. Però statisticamente è più probabile trovarsi con uno acerbo e inutilizzabile prendendone uno che non faccia senso al tatto. Fidati. La selezione si impara col tempo.
– L’ho fatto e sa troppo di cipolla. È normale?
Si. Però capisco ad alcuni dia fastidio (Signore perdonali.). Alternative possibili sono scendere ad un quarto di cipolla, oppure usare la cipolla rossa di Tropea. Alla mal parata anche lo scalogno, ma sappiate di essere sul bordo dello sbaglio con un piede già nel vuoto.
– Non ho il lime, uso il limone?
No. Cambia proprio sapore. Non mi chiederesti di usare il mango perché non hai l’avocado, no? VERO?
– Non ci sono varianti accettabili?
L’unica licenza che mi prendo io è metterci una grattata di pepe nero macinato. Per me ci sta proprio bene, ma se tornassi dalla signora che mi ha trasmesso la GIUSTA via, non credo le farei questa confessione. Per il resto no, non ci sono varianti accettabili.
– Non ho cazzi di schiacciare tutto nel mortaio o con la forchetta, tanto col frullatore viene uguale.
No, non viene uguale, ma sei così scemo che nella sezione domande hai postato un’affermazione, quindi spiegartelo non servirebbe.
– Se i nachos fanno cagare con cosa lo mangio?
Sta da dio con un sacco di cose, la prima che mi viene in mente è la salsiccia alla griglia. Fai delle prove e sviluppa un tuo gusto. Poi se proprio hai il tarlo dei nachos, ma non vuoi cedere al cartone, puoi farteli in casa. Non sto a scrivere la ricetta, ma funziona così: fai le tortillas di grano bianco (acqua e farina, a memoria), le cuoci, le tagli in quattro e poi le friggi ad immersione in olio di semi. Non comprerai più un pacchetto di nachos nella tua vita.
Si chiamano totopos, tra l’altro.

La cassoeula GIUSTA

Alla fine è successo.
Ho bucato un mese sul blog. In quest’ultimo ottobre non ho mai messo mano al mio diario per scrivere una paginetta. Mancanza di tempo? Sarebbe bello poter dire di sì, invece è più che altro mancanza di cose da dire. Trenta giorni senza mai percepire la necessità di dire la mia su qualcosa. Ha del patologico, conoscendomi.
Comunque sia, sta mattina preso dai sensi di colpa ho pensato a cosa potesse valer la pena condividere e l’unica risposta che ho saputo darmi (anche imbeccato, ad onor del vero) è che potrei illuminare il mondo con la ricetta per la cassoeula GIUSTA.
Io faccio la miglior cassoeula possibile.
Davvero.
Non sono un fenomeno ai fornelli, ma su questa cosa non temo confronti. Mi mangio le vostre nonne, mando a scuola le vostre madri, umilio eventuali suocere e mogli. Potreste mangiare la mia cassoeula e quella di Cracco in parallelo e alzarvi dal tavolo con la voglia di prendere lo chef a schiaffoni. Questo lo so perchè la ricetta di Cracco sta nel suo libro e l’ho letta. Sarebbe una sfida anche più semplice di quella a mamme, nonne e suocere in realtà.
Se sono divantato un pro però, è anche perchè ho saputo negli anni intrecciare diverse tradizioni e fondere filoni paralleli in un blend definitivo, che unito a minime conoscenze di lavoro ai fornelli post medioevo ha elevato il piatto al sopra citato livello di GIUSTEZZA, che poi è l’unico aggettivo da usare quando si parla di alimenti, ma questo ve l’avevo credo già spiegato.
Veniamo quindi a noi e partiamo con la ricetta della cassoeula GIUSTA. Cosa sia la cassoeula non sto a spiegarvelo, metto giusto il link a wikipedia per eventuali meridionali giunti a questa pagina fiutando il profumo delle verze.
La ricetta per la cassoeula GIUSTA è per 8 persone, perchè la cassoeula si mangia in compagnia degli amici.

Ingredienti:

  • 4kg di verze possibilmente gelate (segue spiegazione)
  • 20 pezzetti di puntina di maiale
  • 10 verzini (segue spiegazione)
  • 8-10 quadratini di cotica di maiale
  • 1l di vino rosso
  • 1 scatola di pelati
  • 2 carote
  • 2 coste di sedano
  • 1 cipolla
  • 1 scalogno piccolo
  • 1 dado per brodo vegetale
  • Olio, burro, sale e pepe

Preparazione:
Per prima cosa sposatevi, oppure andate a convivere. Alla mal parata restate a casa con mamma, l’importante è avere qualcuno che vi possa aiutare a “mondare” le verze, ovvero lavarle, pulirle e asciugarne le foglie. Questo per due motivi:
1) E’ un lavoro tremendo
2) Se le pulite da soli va a finire che le pulite male o non le pulite proprio.
ATTENZIONE: questo blog suggerisce solo di richiedere collaborazione alla propria controparte femminile, non di sfruttarla per i lavori noiosi, umili e degradanti. Questo blog non si prende nemmeno la responsabilità di eventuali divorzi conseguenti richieste mal formulate in termini di aiuto/collaborazione.
Negli ingredienti segnalo che la verza deve essere “gelata”, ovvero colta dopo che le temperature notturne sono scese sotto lo zero. Così almeno vuole la tradizione. Causa global warming io non uso verze gelate praticamente mai, anche perchè comprandole al supermercato sa Dio da dove arrivino e a che temperature siano state sottoposte. La regola fa riferimento all’epoca degli orti. C’è chi oggi ovvia passando la verza in freezer una notte prima di pulirla, ma ho idea sia una mezza cazzata e di solito non lo faccio. Anche perchè, nel mio freezer, non ci entrano certo 4kg di cavoli. Una volta pulita e asciugata la verza, mettetela da parte.

In due pentole sbollentate i pezzi di cotenna e fate bollire i verzini. I verzini sono piccoli salamini che qualsiasi macellaio lombardo saprà prepararvi su specifica richiesta. Sono fatti apposta per la cassoeula. Non fatemi bestemmiare usando le salamelle o qualche altra strana salsiccia creativa. Queste due parti di maiale vanno precotte per sgrassarle e rendere la cassoeula più digeribile. Se lavorerete come si deve il sapore non ne risentirà e potrete mangiarne il doppio, alla fine. Il verzino, in particolare, va fatto bollire per almeno venti minuti e poi fatto raffreddare nella sua acqua.

Ora pulite le carote, il sedano, la cipolla e lo scalogno e preparate un trito grossolano. Non fate una roba finissima, perchè i pezzettoni devono rimanere visibili a fine cottura. A chi vi dice che il trito grossolano non cuoce in maniera uniforme date una sberla e ditegli che è la sberla di Manq (cit.), tanto è probabile sia Cracco o un suo emissario.
In una padella di alluminio aggiungete olio e burro in modo che il grasso presente sia sufficiente a coprire l’intera superficie in modo abbondante. Non lesinate, tanto poi il grasso si butta. E’ importante che la padella sia di alluminio, o di ferro, o di rame e non di acciaio, perchè l’acciaio scalda male e rosola peggio. Rosolate le verdure e quando sono dorate rimuovetele dalla padella.

Nella stessa padella ora rosolateci i pezzetti di puntina, da ambo i lati, fino a che acquistino una bella crosticina. Se non ci stanno tutti sul fondo della pentola, come probabile, rosolateli in più riprese. L’importante è che siano tutti belli dorati. A quel punto toglieteli. Vi rimarrà una padella con un bel fondo abbrustolito e del grasso (olio e burro) in eccesso. Rimuovete questa parte grassa e usate un bicchiere abbondante di vino per deglassare il fondo di cottura a fuoco vivo, aiutandovi con un cucchiaio di legno. Il gusto del maiale è in quello che rimane attaccato alla pentola, non nel burro e nell’olio. Quindi rimuovere il grasso, ancora una volta, non toglie gusto al piatto.

Ok, ora avete il trito grossolano ben rosolato in un recipiente, il maiale ben rosolato in un secondo recipiente e un fondo di cottura al vino rosso che sfrigola in padella. Bene. Ributtate nella stessa sia i pezzetti di puntina che il trito di verdure, quindi salate e pepate. Ora bisogna iniziare ad aggiungere le verze. Il metodo è semplice: mettete verze fino all’orlo della pentola, aggiungete un bicchiere di vino rosso e un pizzico di sale grosso. Chiudete il coperchio e aspettate una decina di minuti. Il sale e il calore faranno perdere acqua alle verze, che ridurranno il volume creando spazio per altre verze. Ripetete l’operazione fino ad esaurimento. Se avete usato una pentola di proporzioni corrette (quindi bella grossa) in circa quattro giri avrete aggiunto tutte le verze e tutto il vino. Non spaventatevi all’idea di usare il sale grosso, la verza è dolce e perde un sacco d’acqua, quindi dovrete salare ancora prima della fine. Promesso.
Una volta aggiunte tutte le verze e lasciato anche le ultime appassire per 10 minuti, riaprite il coperchio e date una bella mescolata. E’ tempo di aggiungere i pelati (senza risciacquare la latta eh, non vogliamo aggiungere più liquido del necessario) e il dado (non il brodo, per lo stesso motivo di prima. Se qualcuno ha da ridire sul dado trattatelo alla stregua di chi critica il trito grossolano.). Il tutto va fatto cuocere per 2 ore e mezza da questo istante.

Quando manca un’ora e mezza alla fine, quindi un’ora dopo l’aggiunta dei pelati, aggiungete i verzini e le cotenne adeguatamente scolati e richiudete per l’ultimo round di cottura.

Prima di servire, aggiustate nuovamente di pepe e sale. Lo so, sembra incredibile, ma se avrete fatto tutto come indicato qui, potrebbe servire ancora un pizzico sale.

Se seguirete questa ricetta vi garantisco preparerete la miglior cassoeula della vostra vita, che potrà essere completata SOLO dall’aggiunta di un po’ di polenta. Su quest’ultima non sono ferratissimo, ma ecco alcune indicazioni di massima:
– NO alla polenta istantanea
– NO alla polenta di grano saraceno
– NO ai formaggi nella polenta
– NO alla polenta liquida/molle.
Se la volete fare buona usate un bel paiolo di rame e dal momento in cui avete finito di aggiungere la farina NON GIRATELA PIU’. Si formerà una crosticina sopra che permetterà la cottura perfetta sotto. Io non ne so molto di polenta, ma la Polly è super skillata e mi dice si faccia così. Serve una polenta un po’ consistente perchè deve fare da pane per il sugo (la pucia) della cassoeula. Il discorso formaggi invece è complicato. Nessun pranzo a base di cassoeula è completo senza una bella fetta di zola o taleggio da accompagnare alla polenta rimasta, perchè “la buca l’è minga straca se la sa no da vaca”, ma un conto è mangiare polenta e formaggio DOPO la cassoeula, un conto è accompagnare quest’ultima ad una polenta adizionata di formaggio. Fidatevi, non ci sta.

A me ora resta solo la fissa del fatto che a ottobre non ho pubblicato niente e questa cosa mi manda a male. Facendo due conti però, io la cassoeula l’ho fatta ieri, 1° novembre, perchè tutti sanno che va mangiata ai morti. E’ altresì noto che la cassoeula migliore è quella cucinata il giorno prima e poi riscaldata prima di servirla, il che ci porterebbe al 31 ottobre. Giusto?
Sì, quindi io retrodato sto post e vaffanculo.

L’hamburger GIUSTO.

Se c’è una cosa a cui mi sono dedicato con perizia in questi giorni negli stati uniti è lo studio dell’hamburger.
Ormai in giro se ne vedono di ogni, anche qui in Italia. Tutti vogliono dire la loro, dal baracchino sotto casa al grande chef, ma è davvero difficile trovare qualcuno che possa proporre un hamburger GIUSTO.
Ora, siccome sono una brava persona e a voi ci tengo, vi scrivo per bene le regole e le caratteristiche necessarie per l’hamburger GIUSTO.

ATTENZIONE: i seguenti non sono consigli né tantomeno suggerimenti, sono diktat.

1) la cosa principale dell’hamburger è la carne. L’hamburger GIUSTO è alto grossomodo 1,5 cm ed è cotto mediamente al sangue (dicasi medium-rare). In un hamburger GIUSTO ci va solo un disco di carne, che deve avere il diametro del panino, non di meno e non di più. La cottura della carne può essere sia alla griglia, che in padella con del condimento. In questo secondo caso, il burro funziona meglio dell’olio. Sale e pepe sono importanti e non vanno dimenticati, ma non serve alcuna altra spezia.

2) Nell’hamburger GIUSTO non ci sono salse. Lo so cosa state pensando, ma è così. Se un hamburger senza salse vi risulta asciutto è perché lo state facendo male.

3) Nell’hamburger GIUSTO ci vanno le verdure. Crude. Una foglia di insalata verde, una fetta di cipolla (meglio se rossa) e una fetta relativamente sottile di pomodoro. Niente cipolle cotte, perchè non è un hot dog, niente peperoni grigliati, niente zucchine, melanzane o sa il cazzo. Gli americani ci mettono anche la fettina di cetriolino sott’aceto e siccome l’hanno inventato loro io sto dalla loro parte. Può non piacere ed effettivamente non è strettamente vincolante alla realizzazione di un hamburger GIUSTO, però sappiate che ci andrebbe. Vi piace il piccante? Prendetevi un tacos, un burrito o qualche cazzo di panino messicano, ma non infilate peperoncini dentro ad un hamburger per carità di Dio.

4) La questione formaggio è spinosa. Sull’hamburger GIUSTO ci va una fetta di formaggio fuso che, se volete un parere, dovrebbe essere cheddar perchè come sapore pare proprio inventato appositamente per quel contesto. C’è chi ci mette l’american cheese, chi le volgarissime sottilette, chi l’emmenthal. Sono tutte varianti ammesse, purchè il formaggio sia ben fuso. Mozzarella? NO. Blue cheese? NO.

5) L’ultima regola riguarda il pane. Deve essere un pane morbido al latte. Con o senza sesamo non fa differenza, ma non deve essere croccante, nè tantomeno abbrustolito. Un criterio per valutare il pane dell’hamburger GIUSTO è: “riuscirei a mangiarlo da solo, senza nient’altro ad accompagnarlo?”. Se la risposta è sì, avete preso il pane sbagliato.

Queste sono le cinque regole fondamentali.
Rispettando questi cinque criteri avrete in mano un hamburger GIUSTO e ve ne accorgerete al primo morso. Se dopo un boccone vi viene un dubbio, una delle cinque regole qui sopra non è stata correttamente rispettata. Semplice e lineare. Per gustare correttamente l’hamburger GIUSTO è necessario tagliarlo a metà, altrimenti si sfalda. Se non si sfalda, qualcosa non funziona e siamo di nuovo al punto in cui avete infranto una delle cinque regole.
“Eh, ma a me piace di più con XXX e senza YYY.”.
Nessun problema. Ci sono intere popolazioni che mettono il ketchup sulla pizza o il grana sugli spaghetti allo scoglio. Nessuno vi vieterà mai di perpetrare lo sbaglio. Ora però sapete dove e come vi state allontanando dalla retta via.
Se questa cosa vi sembra troppo restrittiva e vi sentite particolarmente creativi, vi do comunque la possibilità di personalizzare l’hamburger GIUSTO in due modi, non necessariamente mutualmente esclusivi. Sono entrambe opzioni GIUSTE capaci di dare al prodotto uno spessore tutto nuovo, ma non sono essenziali. Se lo diventano (ovvero se in loro assenza lo stesso hamburger non vi convince) siamo di nuovo al punto in cui avete infranto una delle regole di cui sopra.

APPENDICE 1: Il bacon. Aggiungere il bacon è lecito, ma deve essere bacon, cucinato come si cucina il bacon. Non chiedetemi che differenza ci sia tra il bacon e la pancetta, non ne ho idea, ma sono cose diverse. Una volta certi che sia bacon, tagliatelo non troppo sottile, direi un paio di millimetri di spessore, e rosolatelo fino a che non diventa completamente croccante. Una listarella di bacon che si pieghi non è cotta nel modo giusto. Deve avere la consistenza di un cracker. Il bacon va posizionato sotto l’hamburger, ovviamente, e non tra hamburger e verdure.

APPENDICE 2: L’uovo. L’uovo fritto nell’hamburger è una cosa che al primo impatto può dare da pensare, ma è una strada che una volta imboccata non si abbandona più. Semplicemente il TOP. La cottura dell’uovo però è essenziale: deve avere il tuorlo molle, crudo, che possa colare sul resto degli ingredienti una volta tagliato il panino in due. Tra cuocere troppo il tuorlo e lasciare un po’ di albume crudo propendete sempre per questa seconda ipotesi, è fondamentale. L’uovo, nel contesto del panino, si trova direttamente sopra la carne (e il formaggio, che essendo fuso fa tutt’uno con la carne e non può essere considerato da questa scindibile.). Si chiama uovo fritto perchè va cotto nel pentolino con del condimento, che in generale sarebbe il burro, ma nel caso dell’hamburger è meglio usare l’olio.

Ecco, adesso avete tutti gli elementi che vi servono. Se seguirete queste indicazioni, non ho dubbi che sarete soddisfatti e mi darete ragione. Non vi resta che provare.
Nota: a me l’hamburger col blue cheese piace e, parlando di gusti, io eviterei la fetta di pomodoro. Sono però conscio siano due varianti SBAGLIATE.