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L’italia è una merda.

Sanremo 2023

Ormai venire qui e commentare le canzoni in gara al Festival di Sanremo è diventata una piccola tradizione, quindi eccoci.
Io la kermesse non la seguo in TV perchè, come detto nelle puntate precedenti, è uno spettacolo che non mi interessa e non mi piace. Tendo a recuperare le clip significative i giorni successivi, giusto per stare sul pezzo con le polemiche. Quest’anno ad esempio ho scoperto che c’è ancora gente che non riesce a codificare Salmo che va ospite con delle rime contro Sanremo e pensa davvero quello sia un gesto coraggioso/rivoluzionario, o Blanco che smatta sul palco. Ovviamente tutte cose per cui, anche quest’anno, si è tirato in ballo il punk, ormai ospite fisso della manifestazione.
Nulla di nuovo sotto il sole, quindi.
Io, però, sono qui per parlare delle canzoni e quindi adesso mi ascolto la playlist di spotify (perchè su Tidal non ce n’è una con tutte e 28 le tracce, o se c’è non l’ho trovata), commentando pezzo per pezzo.
Per chi non avesse familiarità con il mio modo di approcciare la questione, per me Sanremo è La Canzone di Sanremo™ (da qui CdS™), archetipo che non ha senso di esistere mai, ma che in quel contesto trova la sua collocazione naturale. Potrei provare a spiegarvi in cosa consiste, ma sarebbe più noioso delle canzoni stesse, cosa davvero indicativa, quindi mi limito a puntare il dito quando lo riconosco in scaletta.
Vediamo come va.

Due vite – Marco Mengoni
Non so che opinione abbiate di Marco Mengoni, ma secondo me di ben collocati come lui dentro il contesto Sanremo ce ne sono pochi. Qui arriva con una classicissima e ultra didascalica CdS™, ma funziona tutto perfettamente. Non ho ancora sentito nessun altro pezzo, ma ho seri dubbi altri abbiano fatto meglio. Vai Marco, a me sei simpatico, vincila tu e siamo tutti felici.

IL BENE NEL MALE – Madame
L’attacco sembra da CdS™, ma è tutto finto. Un po’ come il certificato vaccinale della tizia che canta. Il pezzo non è brutto, purtroppo, ma tra la vicenda del Green Pass e il capslock di merda nel titolo mi vedo ideologicamente costretto a pensarne tutto il male possibile.

Splash – Colapesce & Dimartino
Io a questi musica leggerissima non l’ho ancora perdonata, ma forse il mio problema vero è più con chi ne ha parlato come di un capolavoro. Questa è pure più noiosa. “Mi tuffo nell’immensità del bluuuu… Splash.”. Ma andate affanculo.

Due – Elodie
Direi pezzo di Elodie piuttosto standard, ma senza il ritornello killer di “tribale” o anche solo di “Bagno a mezzanotte”. Non credo di arrivare a ricordarmela, ma apprezzo l’approccio a cazzo duro tipo: “Sono più grossa di sto carrozzone, quindi non mi piego alla CdS™ e vado dritta col mio sound”. Certo, con un pezzo buono sarebbe stato meglio.

CENERE – Lazza
Questo per qualche strano motivo viene portato avanti come fosse un genio, credo c’entri col fatto che ha fatto il conservatorio. Boh. Classico capslock da giovane, ma sotto sotto è una banalissima CdS™, solo quell’attimo più pretenziosa. Di fatto ha avuto meno palle di Elodie. Anche sto giro, una motivazione concreta allo status che si porta dietro la troviamo la prossima volta.

Furore – Paola & Chiara
Non ce n’era davvero bisogno, dai. Poi io la sto ascoltando senza il video, credo anche quello pesi.

SUPEREROI – Mr.Rain
Ed eccola la CdS™ in capslock del trapper/rapper/Fedez di quest’anno. Il coro coi bambini? Camminerò? Madonna che monnezza.

Duemilaminuti – Mara Sattei
Altra CdS™. Anzi, devo dire la più CdS™ tra le CdS™ fino ad ora e quindi, come giusto, una lagna senza confine che sembra durare davvero “duemila minuti anzi duemila ore”.

TANGO – Tananai
Io a questo voglio bene perchè mi sta simpatico e in certi passaggi mi sembra davvero di sentire Roby Burro, non so se siano i testi o come canta. Credo un mix delle due. Qui però si presenta con una CdS™ inutilissima e, fidatevi, mi spiace davvero doverlo riconoscere. Ma poi perchè anche tu con sto capslock? Dai. Sei meglio di così, Tananai.

Alba – Ultimo
Spotify mi mette la pubblicità prima di iniziare, dandomi tempo per precisare quanta sfiga mi trasmetta Ultimo da quando l’ho visto fare i live con la maglietta con scritto Ultimo sopra. Ecco il pezzo. Altra cosa che trasuda sfiga di Ultimo è che ha appracciato la CdS™ anche fuori dal contesto sanremese. Cioè lui davvero pensa che le lagne che attaccano col pianofortino moscio e poi crescono in un groviglio di urlati raccapriccianti siano un format dignitoso. Poi oh, riempie gli stadi eh, quindi chi sono io per dire che la sua roba è concime per piante a cui non vuoi neanche troppo bene?

MARE DI GUAI – Ariete
Inizio a pensare che il capslock sia una sorta di codice implicito per segnalare allo spettatore del Festival che non ha il minimo interesse per la musica, ma che lo segue unicamente come evento televisivo/culturale, quali siano gli artisti “giovani”. Va beh, andiamo sul pezzo. CdS™ anche per Ariete, che evidentemente pensa davvero che essere giovani faccia schifo e quindi si presenta con una canzone che ha almeno 65 anni.

L’ADDIO – Coma_Cose
I Coma_Cose hanno fatto anche cose buone. Non in questo caso.

Vivo – Levante
Lei è insopportabile, ma il pezzo non mi dispiace. O forse è che ho il cazzo pieno delle lagne arrivate fino ad ora e questa la apprezzo anche solo per la voglia di metterci un po’ di ritmo. Il ritornello è irricevibile sotto ogni punto di vista, roba da programmazione di Radio Italia alle tre di notte del mercoledì.

parole dette male – Giorgia
Grandissima con solo le minuscole, dammi una gioia anche col pezzo dai! No? No. CdS™, lo scrivo solo a fine statistico. Milioni di canzoni orribili che parlano di canzoni belle, per una volta mi piacerebbe una canzone bella che parla di canzoni orribili.

MADE IN ITALY – Rosa Chemical e Bdope
Porcheria indifendibile. Cristo. Ma come cazzo fa certa roba ad esistere? Cioè qualcuno ha sentito ‘sto pezzo e ha pensato: “funziona”. Impazzisco.

Cause Perse – Sethu e Jiz
Questi non ho idea di chi siano, quindi mi aspetto la qualsiasi mentre attendo finisca quella merda di MADE IN ITALY. Eccoci. Not my cup of tea (eufemismo), ma penso sia roba che può starci nel 2023, cioè immagino che nel suo essere uguale a sessantamila altri pezzi sotto ogni possibile punto di vista possa funzionare per chi quei sessantamila pezzi se li ascolta volentieri.

MOSTRO – gIANMARIA
Qui siamo al level up per il capslock, con al minuscola iniziale. Forse se tutto lo sforzo usato per cercare nuovi mirabolanti modi per scrivere il nome dei cantanti o i titoli delle canzoni venisse usato per scrivere i pezzi ascolteremmo roba più interessante. Poi ok, lui secondo me è pure bravino ed il pezzo certamente non tra i peggiori fino a qui, ma è davvero un merito molto poco meritevole.

Polvere – Olly
Una sorta di Nintendocore in versione Sanremo. Capisco il senso di averla in scaletta e non è che dia necessariamente fastidio, ma non credo ne sentiremo più parlare. Anche perchè è un pezzo che dovrebbe puntare sul ritornello e invece il ritornello, se possibile, depotenzia.

Lettera 22 – Cugini di campagna
Sappiamo tutti che l’unico commento da fare, a prescindere dal pezzo, sarebbe “a parità di vestiti, sono meglio dei Maneskin”. Io non ho davvero mai avuto contatti con la musica dei Cugini di Campagna, quindi non so se sta roba sia standard per loro o meno. E’ una CdS™ collocabile a cavallo tra i ’90 e i ’00, quindi puzza di vecchio tantissimo, ma magari per loro è futurismo.

Quando ti manca il fiato – Gianluca Grignani
Mi spiace dire male di un pezzo del genere, onestamente. Quindi su Grignani dirò solo che il suo commento al caso Blanco è il migliore di tutti. Ah, calma, in chiusura il pezzo, musicalmente, è figo. Che questo si noti solo quando lui smette di cantare però credo non deponga troppissimo a suo favore.

UN BEL VIAGGIO – Articolo 31
Mi vergogno un po’ a dirlo, ma io sugli Articolo 31 avevo delle aspettative. Lo so, lo scemo sono io. CdS™ brutta in culo, con anche il titolo in capslock per non farci mancare nulla del peggio. Gli scretch incollati a caso ciliegina sulla merda.

Se poi domani – LDA
Non ho tredici anni, non credo di poterne parlare. Però spero di avere la forza di comprare la droga ai miei figli se dovessi scoprirli dentro a roba del genere.

Stupido – Will
Leggi sopra.

Terzo cuore – Leo Gassmann
Non so se questa persona abbia effettivamente una carriera da musicista fuori da questa settimana, ma in questa settimana per me può tranquillamente starci. Il ritornello mi pare un mezzo ripoff dei Pinguini Tattici Nucleari e visto che i PTN non sono esattamente Beatles, forse c’è un problema a monte.

Non mi va – Colla zio
Questi sono amici della figlia di una mia collega. Spiace più che altro per lei.

Egoista – Shari
Ma il pezzo di Madame non l’avevo già sentito? Si scherza dai. A me il cantato femminile biascicato fa cagare, ma quando inizia a svolazzare con la voce su quei vorrei finali si rimpiange tantissimo il momento biascicato.

Lasciami – Modà
Occrishto ma non ce li eravamo tolti dal cazzo questi? Ma ridatemi le Vibrazioni piuttosto. Che poi vaffanculo la melodia non sarebbe neanche così orrenda, è solo sbagliatissimo tutto il resto, cantante in primis.

Sali (Canto dell’anima) – Anna Oxa
E andiamo! Urla belluine come non ci fosse un domani e senza la minima giustificazione. Non mi sarei potuto aspettare nulla di meglio dalla Oxa e direi che è un modo degnissimo di chiudere sta playlist, con la sofferenza estrema. Sua e mia.


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Milano 30

Provo a mettere in fila un po’ di pensieri in merito alla proposta portata in giunta da Marco Mazzei per l’abbassamento del limite di velocità a 30km/h in tutta l’area urbana di Milano.
Lo faccio perché, come spesso accade, il dibattito si è immediatamente avvelenato ed è diventato complesso prendere una posizione senza finire a litigare, ma anche farsi un’idea senza obbligatoriamente impantanarsi dentro una delle due fazioni. Cosa che a me fa sempre tanta tristezza.
Partiamo quindi con una premessa: essere scettici verso questa idea non vuol dire non vedere il problema che cerca di risolvere né pensare che non sia importante risolverlo.
Non per forza e non nel mio caso.
C’è una clip di Immanuel Casto al Breaking Italy podcast che spiega bene perché questa premessa sia importante*. Io sono convinto che a Milano ci siano problemi di traffico, inquinamento e sicurezza stradale e sono iper d’accordo a lavorare per risolverli, ma resto scettico sul fatto che questa sia la via migliore per arrivarci e adesso provo a spiegare perché.
Prima però metto il link a un’altra clip in cui lo stesso Mazzei spiega nel merito le argomentazioni che supportano l’idea, perché credo sia giusto partire da lì.
Guardatela e poi leggete il resto, se vi va.

Le argomentazioni principali a supporto dell’idea, oltre alla sempre irritante “lo fanno anche X e Y” che non prendo volutamente in considerazione, sono essenzialmente tre.
1) Più sicurezza.
La base di partenza dell’idea è che, stando ai dati, essere investiti da un’auto a 30km/h non sia letale, mentre a 50km/h lo è. Inoltre, il tempo di arresto a 50km/h è di 25m mentre a 30km/h è di 10 metri. Io non sono ovviamente qui a contestare questi numeri, ma a mio avviso può essere utile ragionarci sopra.
Faccio un parallelismo che non vuole essere una provocazione, ma spero aiuti a capire il mio punto. La causa del 100% delle morti per incidente aereo è l’altezza. Indiscutibile. La soluzione però non può essere “facciamo spostare gli aerei a terra”, deve essere “rendiamo il volo il più sicuro possibile in modo che il pericolo intrinseco legato all’altezza venga neutralizzato”. Abbassare il limite di velocità a 30km/h per me usa lo stesso principio logico del tenere gli aerei al suolo ed è un modo reazionario di approcciare i problemi che non mi appartiene. Io punto sempre a soluzioni che ci portino un passo avanti e non indietro, quindi nello specifico dovremmo puntare a muoverci più velocemente ed in modo più sicuro, sfruttando la tecnologia che abbiamo a disposizione. Torniamo a quei numeri sullo spazio di frenata. I famosi 25m di cui sopra non possono essere intesi come “assoluti” perché dipendono certamente dall’efficienza dell’impianto frenante, ma soprattutto dai tempi di reazione di chi guida. Tempi che con la tecnologia corrente per la frenata assistita possono ridursi. Più importante però é che quegli stessi tempi si allungano se chi è al volante non sta prestando la dovuta attenzione, indipendentemente dalla velocità a cui sta guidando. Quindi il problema principale, per me, non è fare andare questa gente più piano, ma farla guidare con la dovuta attenzione e spingerla a dotarsi di tecnologia di sicurezza che subentri in caso di errore.
Vedo ovviamente arrivare l’obbiezione: “La gente non smetterà mai di stare al telefono mentre guida”, ma se questo è il presupposto potrei rispondere con i dati che certificano la propensione degli italiani ad infrangere i limiti di velocità e finiremmo in un cul de sac.
Quindi, riassumendo, non dico che questa idea non vada nella direzione di una maggiore sicurezza. È vero e, in questi termini, se applicata perfettamente porterebbe benefici. Non sono propenso a giustificare i mezzi per via del fine, peró, e io discuto unicamente quello.
2) Meno inquinamento.
Qui non ho molto da dire per controbattere, perché non ho dati concreti in mano. L’altra sera la mia formazione scientifica mi ha portato a fare un po’ di test con la mia auto (un 1.6 diesel di sei anni fa), perché tramite computerino di bordo posso monitorare i consumi.
Percorrendo lo stesso tratto di strada in condizioni di velocità costante (quindi non in fase di accelerazione né decelerazione) e stesso numero di giri motore (circa 1200), per mantenere i 30km/h devo viaggiare in terza marcia, mentre i 50km/h li ho mantenuti in quarta. In queste condizioni la mia auto consuma di più tenendo i 30km/h (non tanto di più), credo per via del fatto che i motori moderni non sono pensati per essere efficienti a quei regimi di utilizzo. Al netto di questo, credo il reale abbattimento sia legato alla riduzione delle accelerate che, causa traffico, portano costantemente a passare da zero a 50km/h. Dovendo andare da 0 a 30km/h queste accelerate sono meno veementi e riducono le emissioni, ma questo ci porta diretti al punto
3) Il traffico.
L’obbiezione più ovvia, che poi cosí ovvia forse non è, rimane: “Se riduco la velocità, ma mantengo inalterate le distanze da coprire, il tempo deve aumentare. Se aumenta il tempo, aumenta l’occupazione delle strade per singolo veicolo e, di conseguenza, il traffico”.
A questa cosa ho visto rispondere in modi diversi, che cito per completezza di argomentazione.
– “Nel traffico si viaggia a 12km/h di media, non a 50, quindi non cambia nulla.”. Non può essere vero, perché la velocità media dipende dagli estremi. Se abbassi gli estremi, si abbassa anche lei. Quindi è una non risposta, oltre ad essere un’argomentazione boomerang che porterebbe a ribattere: “Allora non c’è alcun problema di sicurezza, visto che a 12km/h ci si arresta in meno di 10m e non si è letali”.
– “Il tempo di percorrenza non cambia abbassando la velocità perché è determinato in misura maggiore dalle soste ai semafori che non dalla velocità di spostamento.”. In pratica, andando più veloce passi solo più tempo fermo al semaforo, ma ci metti uguale ad arrivare. Questa è un’argomentazione già più sensata, che però dovrebbe tener conto di un fattore. La proposta di Milano 30 prevede un cambiamento nelle tempistiche dei semafori volta a favorire un maggiore scorrimento ed un minor fenomeno di “stop&go”, reale causa di traffico e smog. Benissimo. Se coi limiti attuali, dove sicuramente la velocità dovrebbe portare ad uno scorrimento maggiore, questo non avviene forse si dovrebbe puntare il dito proprio verso una gestione poco corretta dei semafori che impediscono al traffico di defluire come potrebbe. In altre parole: la gestione perfetta dei flussi che si pensa di implementare per Milano 30 avrebbe molto più effetto ed efficacia sul traffico (e forse anche sullo smog) se adottata per Milano 50. A meno di ragioni per cui questa cosa si possa fare con il limite a 30km/h e non si possa fare con il limite a 50km/h, ma non ho sentito nessuno dire questa cosa né fare una domanda in questa direzione.

Questi i dubbi nel merito, razionali, a cui si somma un preconcetto costruito in anni di vita a Milano. Sbaglierò, ma se ci fosse davvero la voglia di cambiare, alla messa in vigore della norma (anzi, diciamo 3 mesi dopo per evitare effetto sorpresa) dovrebbe partire un’operazione costante di vigilanza e sanzionai. Non perché io sia particolarmente favorevole al metodo coercitivo, ma perché se applichi una politica intransigente per forza di cose “educhi” i cittadini a rispettare il vincolo. Se invece sanzioni ogni tanto, magari all’occorrenza di bilancio, il messaggio che passi ai cittadini è che quella norma non esiste, che infrangerla è un rischio ponderabile e che le multe sono essenzialmente questione di sfiga. Se così sarà anche questa volta, credo davvero Milano 30 non possa portare alcun beneficio alla città. 
Ultima nota.
Da dati non recentissimi che ho trovato online facendo un minimo di ricerca, quindi senza perderci il sonno, il 50% del traffico cittadino di Milano è di transito da o verso fuori, quindi di persone che non possono valutare spostamenti ad impatto zero come andare in bici o a piedi. Chi si muove dentro la città già usa i mezzi 4 volte su 10 perché a Milano, checché se ne dica, il trasporto pubblico funziona bene. Tra i restanti, il numero di persone che si sposta in auto è grossomodo equivalente a quello di chi va a piedi o in bicicletta. A mio avviso questo vuol dire che chi usa l’auto oggi non lo fa per mancanza di alternative, ma per scelta e sono davvero molto scettico questa scelta possa cambiare in virtù di una sbandierata maggiore sicurezza per pedoni e biciclette.

* già che ci siete guardatela tutta quell’intervista perché merita molto.


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Il giorno dopo

Non è che vada molto meglio, rispetto a ieri, però c’è forse un filo di lucidità in più per fare un mezzo punto della situazione. 
Non mi interessa più di tanto fare l’analisi del risultato elettorale, un po’ perchè resto convinto di quel che avevo scritto prima delle elezioni e un po’ perchè ieri c’è stato modo di discuterne su twitter realizzando, come spesso, di avere una visione non proprio condivisa della faccenda. Oltretutto, stare qui a fare il processo post partita rischia di diventare un mero esercizio di stile, se non uno sfogo alla frustrazione, quindi cui prodest? Il sempre acuto account ComunqueMilan diceva che  in politica, come nel calcio, “chi perde, spiega” e non c’è davvero nulla da aggiungere.
Quello su cui però forse un paio di parole andrebbero spese è quel che succederà, tra timori e prese di coscienza.
Io non ci credo tantissimo alla cosa della deriva fascista della nostra politica, perchè ho l’impressione che in Europa quella strada non sia percorribile, strutturalmente, e che la Meloni (come Salvini prima di lei) si riscoprirà molto più europeista ora che deve portare avanti il Paese. Il problema, più che politico in senso stretto, temo possa essere sociale.
Quando la Meloni strilla che la sua vittoria permetterà a tanti di rialzare la testa e smetterla di nascondere la propria ideologia, non parla ai suoi (che ancora giustamente continuano a vergognarsi come ratti quando scappa loro un saluto romano), ma alla gente. E in mezzo alla gente ci sono brutte persone, purtroppo. 
Persone che da domani si considereranno legittimate a fare cose orrende verso i più deboli, o gli emarginati. Non perchè una nuova legge gli consentirà di farlo, non perchè investiti di chissà quale carica istituzionale, ma semplicemente perchè si sentiranno improvvisamente in diritto di poter essere le merde che sono. E, secondo me, è quella la cosa che dobbiamo provare ad arginare come società, il fenomeno a cui va opposta resistenza. Certo, magari sono eccessivamente ottimista e tra un mese staremo davvero assistendo a tentativi di abolire la 194 o di istituire i reati di gender e nuove leggi raziali, ma la verità è che non sarà necessario e la Meloni è la prima a saperlo. Perchè abolire la 194 quando si può semplicemente spingere l’obbiezione di coscienza, sottotraccia, aprendo le porte della carriera ai medici che la sostengono e creando un’inapplicabilità fattuale del diritto all’aborto? E’ una cosa che già si fa, basta solo calcare la mano. 
In questo senso, a costo di sembrare uno di quelli che millanta di aver vinto anche quando le ha prese secche, sono molto felice (e un filo orgoglioso) di aver contribuito a mandare in Senato Ilaria Cucchi. Perchè quando le forze dell’ordine inizieranno a sentire il vento in poppa e a qualche “ufficiale troppo zelante” scapperà la mano, sarà importante avere finalmente qualcuno in Parlamento per tenere il punto ed evitare che le istituzioni lascino correre. Le auguro davvero ogni bene, a naso la attendono cinque anni piuttosto complicati. 
Al netto di tutto questo però, io continuo a credere il nostro Paese sia meglio di come lo si immagini. Anche oggi. 
Tocca stare un po’ più attenti, certamente, e diventa ancora più importante restare fermi nella volontà di far succedere le cose. Se il problema è sociale prima che politico, il ruolo del cittadino non può limitarsi al voto, diventa fondamentale. Però non è il caso di lasciarsi abbattere.
Ci attendono cinque anni controcorrente, dobbiamo solo nuotare più forte.

 

Road to 25 Settembre

Quindi siamo in campagna elettorale.
Ci sta dai, con questo bel meteo pre-apocalittico e gli scenari della pandemia e della guerra ancora lì nella penombra, ne sentivo davvero il bisogno. Non bastasse, ci si arriva al culmine di una crisi di governo talmente noiosa che non sono nemmeno riuscito a sfruttarla per @emocrazia.
Se c’è una cosa vera però, è che lagnarsi riesce ad essere persino meno utile delle urne il 25 settembre prossimo venturo, quindi è il caso di prendere il toro per le corna e sfruttare la cosa, quantomeno per levare polvere e ragnatele da questo blog.
Campagna elettorale, dicevamo, e quindi non si può che partire dal simbolo di questa stagione politica: i sondaggi.

Partiamo dall’elefante nella stanza, ovvero il PD.
Giorni fa si ipotizzava come potesse forse essere una buona idea da parte di Letta mettere insieme una coalizione con Draghi a fare da frontman. Sarebbe stata probabilmente la prosecuzione più logica di tutta quella retorica de “L’Italia vuole Draghi” di cui si sono riempiti la bocca mentre si consumava la crisi di Governo. Da ignorante, poteva forse essere l’unica via per provare a mettere insieme i numeri che servono per governare. Una bella congregazione che chiameremo col nome fittizio di Democrazia Cristiana, pronta a raccattare esuli un po’ da ogni parte(1) con l’unico scopo di avere numeri sufficienti a contenere il botto della Meloni e provare a governare di nuovo. Perché nessuno mi toglie dalla testa che IoSonoGiorgia di salire al Colle non abbia la minima voglia, oggi. La prospettiva più concreta per lei è trovarsi nell’intorno del 20% abbondante: primo partito nazionale, ma costretta a governare con elementi che non aspettano altro che buttarglielo al culo (molto cristianamente). Io credo preferirebbe di gran lunga non avere i numeri in Parlamento e piazzarsi all’opposizione da primo partito, da vincitrice delle elezioni, blaterando di “democrazia soverchiata” e minchiate analoghe, mentre lavora alacremente per costruire una destra più solida attorno a lei e prendersi il Paese per davvero. Se invece si trovasse ad avere più di quel 20% (diciamo il 30%) dovrebbe governare, ma con una maggioranza che dubito reggerebbe a lungo.
Ambo i casi, una coalizione guidata dal PD per un Draghi Presidente legittimato dalle urne(2) avrebbe la chance di restare in carica e tirare la carretta.
Non so perché questa idea sia solo mia. Forse Marione ha paura di perdere le elezioni e veder frantumare la storia del più amato dagli italiani, forse non vuole fare la fine di Gesù con Barabba. Mi pare il tipo da sentirsi Gesù in effetti.
Forse invece è il PD che preferisce non ufficializzare il passaggio al lato oscuro appoggiando apertamente Draghi in una tornata elettorale. So che pare assurdo per un partito che ha raccattato Casini e che se tutto va bene si prepara ad assorbire la Gelmini, ma evidentemente non tutti tiriamo la riga del “Questo proprio no” nello stesso punto ed effettivamente per tanti candidare apertamente Draghi è meno accettabile che rimpolpare le proprie fila con personaggi anche “peggiori”, per una questione di peso del ruolo ricoperto. 
La mia percezione è che la politica dei programmi, se mai è esistita, sia morta e sepolta, sostituita dalla politica che come unico scopo ha le elezioni. Prendere voti come fine e non come mezzo.
In questo senso il PD cerca di prendere dove può e a furia di sentirsi dire che è un partito di destra da scassaminchia della sinistra TRVE che poi lo votano comunque(3), forse ha realizzato che siamo un Paese di destra e che rincorrere quei voti sia tendenzialmente più utile allo scopo. Voglio dire, assodata come irreversibile la condizione che lo vede stagnare al 20% e abbandonati i sogni di gloria che furono, forse è davvero l’idea più conservativa (ammicco ammicco). Tanto:
– chi si sente troppo di sinistra per votare PD (legittimamente, ben inteso) non lo ha mai votato e non inizierà certo nel 2022, qualunque cosa accada.
– chi si sente troppo di sinistra per votare PD, ma “tura il naso per il bene del Paese”, continuerà a turare il naso.(4)
Il market share da guadagnare è tutto dalla parte opposta, ovvero da chi non si sente abbastanza fascista da votare la Meloni o chi ancora sente la sabbia quando caga dopo aver votato M5S. Trovo molto strano ci sia da trent’anni una vasta maggioranza di sinistra che si ostinano tutti a non voler rappresentare.
Allora forse è solo questo il punto.
Siamo un Paese tendenzialmente di destra, non da oggi. Lo siamo perché, al netto di tutti i problemi, in media abbiamo più cose da perdere che da guadagnare(5) e questa è la posizione tipica di chi gioca per lo status quo.
Alcuni di noi hanno un’etica più ingombrante, ad altri piace sentirsi nel giusto, ma a conti fatti la sinistra può permettersi di non esistere (o stare allo zero virgola) solo se le persone che ne hanno davvero bisogno sono poche e/o non contano un cazzo, costrette ad affidarsi al buon cuore di chi mette una croce sulla scheda con lo stesso spirito con cui manda un SMS a Telethon (magari dal cellulare aziendale).
E allora mi dico che se ha ragione Twitter, se il PD è davvero il nuovo centrodestra, speriamo se ne accorgano anche quelli che il centrodestra lo hanno sempre votato, che anche loro ogni tanto tirino la riga del “Questo proprio no”. A sinistra ormai siamo abituati a urlare FASCISTI a grossomodo tutto e, un po’ come nella favola “Al lupo! Al lupo!”, ora che i fascisti sono arrivati davvero tocca sperare che qualcuno ci dia ancora retta e veda la differenza(6).
Se il PD è il centrodestra, anche da sinistra dovrebbe essere facile riconoscergli l’essere il miglior centrodestra possibile, quindi temo non ci resti che sperare vinca.(7).
Non col mio voto eh, intendiamoci.
Dico in generale.


(1) avete mai notato come la politica sia l’unico frangente in cui l’accoglienza è un caposaldo? Dovremmo prendere spunto.
(2) qualsiasi cosa voglia dire.
(3) questa è una categoria che mi fa particolarmente incazzare, un po’ come quelli che il giorno dopo le primarie democratiche USA fanno le pulci al candidato che viene fuori. Se tanto lo voti comunque, perché converti la mancanza di alternative in senso del dovere, a cosa stracazzo serve fare le punte al cazzo? Non dico in generale eh, dico nel contesto temporale della campagna elettorale, a giochi fatti.
C’è un tempo per il dibattito, che serv(irebb)e a pesare le correnti e costruire una linea ponderata sul consenso, ma alla fine tocca compattarsi. Chi è fuori è fuori, ma chi è dentro la smettesse di rompere i coglioni, visto che oltretutto 9/10 lo fa per lavarsi la coscienza e darsi la posa di quello che: “vi voto ma non sono d’accordo”, aka lancio il sasso e nascondo la mano.
Mi permetto tutta questa acredine perché penso di aver fatto parte della categoria.
(4) vedi (3)
(5) so cosa stai pensando: è una percezione. Hai ragione, ne sono convinto anche io, ma cambia poco in termini di risultato.
(6) l’idea che debba essere la destra a salvarci dalla deriva fascista per me è l’unico vero take home message di questo pezzo. Lo preciso perché dubito traspaia.
(7) so cosa stai pensando anche questa volta, o almeno spero. “Con questo atteggiamento continuiamo a tendere a destra”. Eh, hai di nuovo ragione. Io penso però che il problema vero sia la diaspora continua a SX, un meccanismo che non ha mai portato ad altro che alla sopravvivenza politica di individui che evidentemente non ascoltano i Taking Back Sunday.
Paradossalmente, se ad ogni fiato di vento qualcuno se ne va col pallone portandosi via un pezzettino di consenso, al PD non resta che recuperarlo altrove. E altrove c’è gente brutta. Non so, forse se questa cosa de “La Meloni non deve vincere” la sentissero quanto noi, qualcuno ci proverebbe a ricucire gli strappi e far rientrare chi se n’è andato, invece credo che vada a tutti bene così, con la colpa al popolo che come sempre verrà accusato di aver sbagliato a votare.
Poi ci stupiamo se un ragazzino diversamente abile sale su un palco convinto che la responsabilità di divertirsi ad un concerto sia del pubblico.

Breve storia triste

Ad inizio Aprile escono le date del tour europeo degli Spanish Love Songs, dove con Europeo si intende Uk e Prussia.
Io sono in una fase piuttosto positiva della mia esistenza: ho tre dosi di vaccino e mi sono appena fatto il COVID, quindi vivo in questa convinzione per cui nulla potrebbe più fermarmi sulla strada del ritorno alla normalità. Ho già comprato il biglietto per il concerto di Dargen e quello per vedere Louis CK all’Arcomboldi, ma penso di poter fare ancora di più, così butto un occhio al calendario, litigo a dovere con mia moglie e decido di incasinare il ponte del 2 Giugno a tutta la famiglia comprando il biglietto della prima data del tour a Londra.
In quelle date c’è il giubileo della Regina, quindi mi prendo qualche ora per mettere giù un piano d’azione che possa funzionare al meglio per tempi, spazi e costi.
1) Mi prendo un volo ottimizzato: arrivo a Londra alle 12:15 del giorno del concerto e ripartenza alle 7:15 del giorno seguente, minimizzando la permanenza su suolo inglese.
2) L’aeroporto è Stansted e siccome arrivarci è un inferno, la distanza è tanta e i pullman oltre ad essere cari non offrono garanzie sull’orario per il ritorno al terminal sia che scelga di andarci dopo il concerto, sia che opti per la mattina seguente, noleggio una macchina.
3) Trovo un piccolo ostello a 600 metri dal locale del concerto (The Dome) con parcheggio gratuito in loco.
A questo punto la logistica sembra davvero perfetta: arrivo, guido fino all’ostello, butto la macchina, faccio un giro in centro fino all’ora del live, vado al concerto, torno in ostello a piedi, dormo e all’alba parto per rientrare all’aeroporto.
Preciso.
Ho anche valutato di portare tutta la famiglia a Londra per tre giorni, ma tra brexit, giubileo e il fatto che Londra è pur sempre Londra veniva a costare una fucilata. Troppo. Molto meglio così.
Sono discretamente gasato perchè è una roba che mette insieme un po’ tutto. C’è il concerto, tra l’altro di quello che è il gruppo che sto ascoltando di più da sei mesi a questa parte, c’è il viaggio, c’è questo mood supergiovane del “vado a sentirli a Londra”.
La fotta, insomma.

Fino a ieri.

 

 
 
 
 
 
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Alla fine ho disdetto albergo e macchina senza costi.
Il biglietto aereo è perso, ovviamente, mentre son stati super rapidi a rimborsare il biglietto del concerto.
Se dicessi che il problema è averci perso dei soldi, tuttavia, mentirei.

Sul greenwashing magari andiamo oltre Cosmo

Ieri sera sul palco più importante d’Italia Cosmo se n’è uscito con lo slogan “Stop greenwashing”, raccogliendo il puntuale abbraccio virtuale delle forze del bene in tutta la giornata di oggi.
La cosa facile per parlare della questione sarebbe scrivere un pezzo di quelli che scrive la Soncini (forse lo ha fatto davvero anche sull’argomento, non mi interessa verificare), che della crociata contro la sicumera di quelli che vengono definiti Social Justice Warriors ha fatto una professione. Nello specifico mi darebbe anche gusto, forse, ma è una roba che detesto e vorrei evitare. Voglio provare invece ad analizzare la situazione, perché la sto vivendo dall’interno e credo meriti un’analisi un filo più complessa di uno slogan.
Partiamo dal principio: cos’è il greenwashing? Di massima è il tentativo di sbandierare politiche green da parte di persone, politici e aziende che non ci credono davvero, ma che lo fanno come mossa di marketing per cavalcare una moda e il relativo consenso.
Una roba ipocrita, che spesso arriva da entità che hanno una responsabilità concreta sul piano dell’inquinamento e che quindi comprendo benissimo faccia incazzare, di pancia, ma le reazioni di pancia non sono note per essere le più centrate e certamente questa non fa eccezione.
Il punto chiave è che la società in cui viviamo è portata a selezionare il profitto sui valori e, spoiler allert, purtroppo non usciremo tanto in fretta da questo modello. Di conseguenza, ho paura che l’opzione migliore che ci rimanga sia quella di approfittare dei rari casi in cui i valori generano profitto e cavarci fuori il meglio, come il proverbiale sangue dalle rape.
Io lavoro per la filiale italiana di una multinazionale americana. Non mi interessa crediate al fatto che, da dentro, la reputi “il migliore degli inferni possibili” nel settore, se si parla di ecologia resta comunque una realtà con delle responsabilità.
Non mi interessa neanche vendervi un’idea di me come accanito sostenitore delle politiche green perché non lo sono.
Il punto però è che quest’anno sono riuscito a farmi approvare un investimento di alcune migliaia di euro per sostenere progetti di recupero delle foreste pluviali nel terzo mondo e il motivo per cui la mia azienda non mi ha mandato affanculo è che su questa cosa può fare comunicazione, marketing, e avere un ritorno di immagine. Questo non vuole necessariamente dire che io, il mio capo o il CEO global non si creda nel valore etico e sociale del progetto, così come ovviamente non basta per sostenere sia un’operazione genuina. Su quello ognuno può farsi l’opinione che crede*, ma certamente se anche tutti i citati fossero ultras della politica green non si sarebbe mosso un euro se questa iniziativa avesse potuto nuocere all’immagine dell’azienda o al suo fatturato.
Quello che conta, alla fin della fiera, è che quei soldi:
– io non avrei mai potuto devolverli all’ambiente di tasca mia.
– la mia azienda non era in alcun modo tenuta ad investirli nelle politiche verdi.
Eppure la donazione è stata fatta.
A volerla vedere come una sconfitta ci vuole parecchia malafede, secondo me. Mi tocca spiegarlo ad un cliente su tre però, quando mi spara la sua versione diplomatica del: “Lo fate solo per darvi una posa”.
Nel 2022 è complicato ricordarsi che la politica la fanno i governi e non le corporation, ma per il momento è ancora così. È la politica che dovrebbe lavorare per non relegare l’ecologia delle multinazionali al reparto marketing, fino a che questo non succederà** tutto ciò che questi colossi faranno in questa direzione è grasso che cola, che lo facciano per immagine, per vocazione o per detrarlo dalle tasse. Non è qualcosa che possiamo controllare.
La riflessione però non finisce qui.
Parlando su twitter con un paio di persone e leggendo i commenti di altri mi sono ritrovato a chiedermi cosa faccia davvero incazzare i sopracitati SJW del greenwashing e la risposta che mi sono dato è “la frustrazione”.
Come dicevo, è complicato credere in una causa che si ritiene giusta e rendersi conto di non contare grossomodo un cazzo nella determinazione dell’esito finale della battaglia. Spiego con un esempio: Lufthansa ha dichiarato di dover far volare 18K aerei vuoti quest’inverno essenzialmente per questioni risibili (ref.). Ogni ora, uno di questi aerei produce la CO2 che una persona produrrebbe in un anno, quindi diventa abbastanza semplice (se non si è lobotomizzati) mettere in scala il peso specifico del nostro sciampo solido e delle maledette cannucce di carta.
Il punto quindi diventa il fatto che chi combatte queste battaglie spesso (direi sempre, ma non mi va di essere assoluto nonostante ci sia di mezzo la natura biologica della nostra specie) lo fa anche per il piacere di tirare la riga tra i buoni ed i cattivi, posizionarsi tra i primi e antagonizzare i secondi. Noi crediamo nelle politiche ecologiche, le multinazionali sono la causa del problema. Easy peasy.
Se però quelle stesse multinazionali possono decidere di avere un impatto positivo sulla questione che io da privato cittadino non avrò mai la possibilità di esercitare, quella riga si sposta o comunque diventa meno netta. Siccome poi in uno scenario senza cattivi è complicato essere i buoni, nessuna redenzione ci sembra possibile, nessun aiuto dal nemico ci risulta ben accetto e trasformiamo il trend delle multinazionali che investono nel green in un ulteriore capo d’accusa sul loro conto.
È un comportamento umano che comprendo e da cui non sono esente, in altri ambiti (ad esempio l’inclusivismo coatto di hollywood, anche se credo siano analisi non sovrapponibili***), ma che razionalmente mi sembra figlio del nostro ego più di quanto sia delle cause per cui ci spendiamo.
Cause che, di massima, superata l’autogestione è difficile ridurre a slogan senza passare per superficiali.


* a margine ci si può fare l’opinione che si crede anche di uno che grida uno slogan sul palco, se si è proni a fare un processo alle intenzioni.

** vedo arrivare l’obbiezione: “Eh, ma le multinazionali controllano la politica, quindi non succederà mai! Da un lato lavorano per restare libere di fare come cazzo gli pare e dall’altro ci sbattono in faccia questo impegno d’accatto…”. Vero. O meglio, plausibilissimo. Se questa è la realtà peró, ha ancora meno senso rompere il cazzo su quel poco che fanno. È legittimo sentirsi presi per il culo e avercela a male, ma chiedergli di smetterla è remare nella direzione opposta.

*** grazie al cazzo, pensassi che è la stessa cosa non avrei opinioni opposte nei due frangenti.

Cose più grandi di X Factor

Stasera sarei dovuto uscire, ma sono rimasto a casa e così mi sono visto X Factor, per tutti #XF2021 (si farebbe davvero molto prima a chiamarlo direttamente così.).
Non lo guardavo da anni e sarei andato volentierissimo avanti così, non fosse che quest’anno in gara c’è un gruppo che mi piace. Non che ho sentito nominare eh, proprio di quelli di cui ho i dischi sulla mensola e la maglietta nel cassetto.
Le Endrigo.
È una sensazione strana quando sei uno come me, inteso coi gusti musicali che ho io, e ti ritrovi qualcosa di “tuo” su un palco del genere. Tipo un disturbo nella forza, una vibrazione dei sensi da ragno o la prima volta che vedi una ragazza stupenda e di istinto pensi: “Avrà si e no vent’anni”, ma non come fosse un plus. Nel profondo delle budella senti che c’è qualcosa di sbagliato, ma non sai cosa sia e, dubbio atroce, potresti essere tu.
Quando ho saputo della loro partecipazione alle selezioni da un lato ero felice (lo sono ancora, ho pure scaricato la app del programma per votarli), ma dall’altro continuavo a pensare sarebbero stati segati alla prima occasione. Figurati se passano i bootcamp con quella versione urticante di Lamette. Ok, ma di certo Emma non li porta ai live dai. Nulla contro Emma Marrone eh, ho tanti amici Emma Marrone, però i commenti che le ho sentito fare per giustificare il continuo portare avanti i nostri mi son suonati sempre autentici come una moneta da 3 euro e quindi non ci ho mai creduto davvero.
#Einvece.
Questa sera Le Endrigo hanno partecipato al primo live del programma e non sono nemmeno risultati tra i meno votati.

Non poteva essere vero.
E infatti i nodi alla fine vengono sempre al pettine e così sono bastati i primi responsi dei giudici a farmi capire di essere sempre stato nel giusto.
Bene Mika che “vi manca la fiamma”, benissimo Manuelito che “il pezzo è furbo e paraculo, un po’ come il punk” snocciolato neanche un’ora dopo aver mandato sul palco un cosplayer offensivo e grottesco annunciandolo come Zach dela Rocha, ma il capolavoro, il verdetto che mi ha purificato da ogni dubbio e da ogni senso di colpa è certamente quello di Manuel Agnelli.
“Paracul rock”
“Non è Waiting Room dei Fugazi”
“Non è punk, è punk pop, sappiatelo”.
SAPPIATELO.
Su Agnelli che fa punksplaining sono proprio decollato.
Che poi davvero vogliamo definire paraculo un gruppo che ha come manifesto il tema portante del programma? Cioè possiamo parlarne, ma cosa ci direbbe questa cosa dello stesso Xfactor?

Non è tutto.
Che Cose più grandi di te non sia per niente un inedito, quantomeno nella definizione che ho io di inedito, è un segreto di pulcinella, sta nel disco con cui il gruppo si è battezzato come Le Endrigo, ma la versione di Xfactor è molto diversa: 40% più corta e, di fatto, costituita unicamente di due gag iniziali ben scritte e due ritornelli killer in rapida successione (fact checking). Una sorta di bigino del pezzo originale. Esattamente come il bigino di Kant al liceo sarebbe dovuto servire allo scopo di far capire il Filosofo ad uno con evidenti limiti di comprensione per la materia come il sottoscritto, questa versione 2.0 del pezzo dovrebbe servire a far assimilare il prodotto ad un pubblico che non ha gli strumenti per comprendere l’originale.
Io nel compito in classe su Kant presi 4, vediamo come andrà ai novelli fan de Le Endrigo.
Per quel che mi riguarda sono comunque sereno perché la migliore band death metal mai esistita in tutta Brescia sopravviverà alle vostre nostre cazzate (cit.).

Prossimi concerti: una chiacchierata con Valeria

Oggi, 10 Ottobre 2021 per chi leggesse in differita, è il giorno della riapertura dei concerti. Sono passati infatti ormai quasi due anni da quando il Covid19 ha ribaltato le vite e la società in cui viviamo e una delle vittime più martoriate è stata la musica dal vivo.
Da qualche settimana rimugino sull’argomento in vari modi, ma alla fine ho pensato che il prodotto della mia tastiera sarebbe al più potuta essere una spataffiata livorosa e inutile che avrebbe tirato in mezzo gli stadi e i comizi di Conte, ma che di fatto avrebbe aggiunto zero al dibattito poichè farina del sacco di uno che ai concerti, al massimo, ci va quando riesce a piazzare i figli da qualche parte. Ho quindi pensato fosse più interessante fare qualche domanda a chi coi concerti ci lavora e nella musica dal vivo ci sbatte tutto il proprio sangue, così ho scritto alla Vale facendole un paio di domande.
Valeria, per chi non la conoscesse, lavora per il Bloom e scrive per Bossy e per Awand. Da sempre dentro al mondo di chi mette la musica su un palco con delle persone davanti, ora è una delle teste dietro a Tutto il nostro sangue, una roba bellissima che dovreste supportare tutti e che mi ha permesso qualche riga fa di fare quella gag oscena.
Come sempre su questo blog, io faccio domande farcite di illazioni e chi mi risponde mi spiega con pazienza come stiano davvero le cose, resistendo alla necessità di mandarmi a cagare.
Nello specifico, la parte interessante è quella in cui lei risponde in corsivo.
Buona lettura.

Iniziamo dalla fine, dall’ultimo concerto. Il mio è stato nel 2019 e a memoria potresti averlo organizzato tu. In questi quasi due anni ho pagato per vedere roba in streaming, ma non sono riuscito più a vedere qualcuno su un palco, prima perchè non mi ci sentivo al sicuro e ora perchè i concerti seduti vanno oltre la mia comprensione. A marzo 2020 invece c’è stato l’#UltimoConcerto, quello con l’hashtag, l’iniziativa messa insieme da un numero consistente di addetti ai lavori e che si poneva lo scopo di dare un segnale a tutti riguardo al momento terribile che la musica live sta(va) passando nel nostro Paese. L’iniziativa fu recepita in modo divisivo e io stesso non ero del tutto convinto si fosse scelta la strada giusta, sempre che una strada giusta esista. Sto solo facendo un mini riassunto, non voglio tornare sulla polemica che ne era scaturita, ma se vuoi commentare quella fai pure. Quello da cui mi interessa partire è che dopo quell’#UltimoConcerto si è parlato del #ProssimoConcerto, con interpellanze parlamentari, DDL mirati e comunicati ministeriali che sembravano indicare qualcosa si fosse mosso davvero, che con quell’iniziativa aveste in qualche modo dato una spallata alla questione. Sei mesi dopo, la prima domanda non può che essere: come procede? Si è davvero mosso qualcosa, diradato il polverone di marzo?

Dietro a quella che è stata un’iniziativa plateale, vista, seguita, giudicata, c’è una macchina che anche a camere spente si è mossa e ha continuato a muoversi perché le cose cambiassero, e cambino, non solo nell’ambito pandemia, ma più in generale perché il settore spettacolo trovi un riconoscimento e una tutela fino ad oggi mancanti.
Ultimo concerto non era una festa, non era pensato per esserlo e già il titolo dell’iniziativa a mio avviso parla da sé. Mi sconcerta il livore che ha scatenato, come non sia affatto chiaro cosa ci sia dietro ai ‘’nostri artisti che ci fanno tanto divertire e appassionare”, e di come le provocazioni, le rotture e le proteste le capiamo e abbracciamo solo quando ci piacciono (o ci fa comodo?). Comunque ha centrato l’obiettivo, smuovere.
Come mi sconcerta chi non vuole suonare davanti alle persone sedute o non vuole andare ai concerti con le sedie. Tutto condivisibile, per carità, ma ci sta un punto: se non si supportano i posti che sono in ginocchio e se sono sopravvissuti hanno perseguito la loro missione di centro culturale rispettando le regole e stando alle capienze imposte, questi posti poi chiudono, non stanno in piedi.

Se i primi a non supportare, a non turarsi il naso per le modalità non proprio entusiasmanti (in primis per gli organizzatori, neh) in cui si sono potuti realizzare i concerti sono quelli che hanno per mesi hanno hashtaggato #mimanchicomeunconcerto, di cosa stiamo parlando?
Da lunedì si torna capienza 100%, non sembra vero, dopo tutto questo tempo, ma lo è.

Il discorso che fai ci sta tutto, supportare è la base ed è normale sensibilizzare tutti a fare la propria parte. Ho però l’impressione che da dentro si viva la musica e il mondo che le gira intorno con una consapevolezza ed un’etica che spesso è ingenuo attribuire anche al “consumatore”. Probabilmente, in tantissimi casi, chi va ad un concerto non ha idea di quel che ci sia dietro e non sono convinto stia lì il problema di fondo. Un po’ come posso sensibilizzare al consumo equo e solidale, ma nei fatti la politica che determina le condizioni del lavoro vola ad un’altezza diversa rispetto alla superficialità di chi compra il caffè senza stare troppo a ragionare se il prezzo dello scaffale permetta o meno a chi lo coltiva una condizione lavorativa umana. Un conto è far passare la consapevolezza al consumatore, un conto e dargli dello stronzo.
Ad ogni modo, la bella notizia è che si torni a capienza piena ed è davvero una vittoria a questo punto.
La domanda che ti faccio quindi è: quanto è compromessa la situazione? L’impressione che mi sono fatto da fuori è che le vittime sono state tante e che anche il futuro sarà complicato, con tanti tour internazionali che salteranno l’Italia forse (dimmelo tu) anche a causa dell’averci messo troppo a dare garanzie su quel che si potrà fare qui da noi questo autunno e nel prossimo anno. Tu come lo vedi il prossimo futuro dei concerti in Italia?

Assolutamente, chi non conosce una minima di dinamiche del settore fa fatica a considerare la musica come un lavoro e tutto quanto sta dietro a una band che suona sul palco, e di conseguenza giustamente come funzionano le cose. Però, anche vero, che a tutti i livelli, in questi due anni di pandemia tramite social non sono mancate/i addette/i ai lavori che hanno cercato di spiegare il problema per propria voce o tramite organizzazioni di settore. Lungi da chiunque dare dello stronzo a chi non conosce/non comprende le dinamiche o semplicemente non gliene frega nulla, è una considerazione diversa, più che incattivata, estremamente sconsolata: mesi su mesi di lockdown a leggere #mimanchicomeunconcerto, condivisioni di post nostalgici alla vita di prima, alle cose non si potevano fare, alla musica dal vivo mancante, commiati per i locali che hanno chiuso… e poi, quando si può riprendere, in una condizione preclusiva e penalizzante sia per chi va a vedere, ma anche per chi mette a disposizione il concertame, ci si tira indietro, storcendo il naso. Quindi non è che #mimanchicomeunconcerto, è #mimanchicomeunconcertovistoegodutocomevoglioaltrimentinientedaiaccendonetflixestosedutomasuldivano.
Quello del 10 Ottobre è un piccolo passo, sicuramente bello, ma ribadisco piccolo: tenendo i posti seduti come parrebbe ad oggi (10/10/21), per il settore è ancora tosta, non è un ritorno alla “normalità”. Che il settore musica dal vivo non stesse bene già si sapeva, anche prima del covid-19 che però ha sicuramente inflitto un’ulteriore batosta. E’ anche vero che credo ci si stia proiettando, seppur lentamente, ad un ritorno alle modalità di fruizione della musica dal vivo nelle modalità che conosciamo. La speranza è che si possa nei prossimi mesi tornare a vedere i concerti in piedi e che non saltino più date che già sono a volte al secondo rischedule.

Leggendo la tua risposta deduco si riapra al 100%, ma coi posti a sedere e questa mi pare l’ennesima presa in giro, quindi volevo chiudere con l’ultima domanda. Uscendo dalla questione riaperture, mi pare che le misure di sostegno al settore negli ultimi due anni siano state poche e del tutto insufficienti. Puoi dirmi cosa è stato fatto (se è stato fatto qualcosa) nel concreto per provare a dare una mano al mondo della musica dal vivo da parte delle istituzioni?

Sì, lo Stato qualcosa ha stanziato, non abbastanza, non tutti ne hanno goduto allo stesso modo e altrove – es. in Germania – è stato fatto certamente di meglio.
Parallelamente bisogna ricordare che le venue non sono rimaste con le mani in mano ad aspettare le misure governative, alcune hanno avviato campagne fondi, tante si sono inventate e reinventate per garantirsi il sostentamento e sono state attivate iniziative come scena unita, ideate per rispondere alla situazione emergenziale.
Consiglio vivamente, per informarsi non solo sui numeri specifici dei soldi stanziati e delle misure adottate nel corso del tempo e in modo preciso, ma anche per approfondire tutto quello che è successo in questi ormai due anni in termini di azioni governative e di richieste per la tutela, la ripartenza e la possibilità di garantire per il futuro maggiori riconoscimenti per il settore, di consultare la sezione Iniziative e News | KeepOn Live, il sito dell’associazione di categoria live club e festival italiani.

Parliamo di Natura Sì

Partiamo dai fatti: la catena di supermercati Natura Sì ha deciso di pagare i tamponi per i dipendenti non vaccinati che necessiteranno il green pass per lavorare (ref.). 
La decisione ha suscitato reazioni forti in tante persone, che possiamo riassumere usando questo tweet di Burioni.
Questi, appunto, i fatti.
La mia opinione in merito è che Natura Sì ha deciso di colmare a proprie spese un vuoto legislativo, tutelando i propri lavoratori e questa è una cosa bella.
Qual è infatti la situazione attuale nel nostro Paese? Riassumiamola: lo Stato ha deciso di concedere libertà individuale in merito alla vaccinazione anti SARS-CoV-2, ma ha introdotto una serie cospicua di restrizioni a chi non possiede il Green Pass, ottenibile con la vaccinazione oppure sottoponendosi ad un tampone (ref.). Queste limitazioni includono l’impossibilità di recarsi sul posto di lavoro con conseguente sospensione dello stipendio (ref.). Un lavoratore che, nel pieno del proprio diritto, sceglie di non vaccinarsi dovrà quindi decidere se perdere parte dello stipendio rimanendo a casa oppure perderla pagandosi i tamponi. In questo scenario, Natura Sì ha semplicemente deciso di coprire parte di queste spese permettendo ai propri dipendenti non vaccinati di continuare a lavorare. 
Qui faccio una pausa, così chi si è incazzato leggendo questa prima parte può prendersi del tempo per insultarmi e darmi del No Vax prima di leggere le argomentazioni successive (oppure no e tenersi l’opinione che si è fatto, non ci perderò il sonno).

Le ragioni che spingono Natura Sì a fare questa cosa probabilmente sono deprecabili. Non ho la possibilità di sapere con certezza le basi su cui hanno costruito questa decisione, può essere per una ricerca di mercato volta a collocare meglio il brand in una certa fetta di popolazione (chi non si fida di Big Pharma probabilmente è più propenso a comprare bio) o per una mossa di marketing che faccia girare il nome sulle prime pagine dei giornali. Forse il CDA del gruppo è composto da persone con una ferrea e radicata avversione ai vaccini o magari hanno fatto un banale conto della serva per cui spenderanno in tamponi meno di quanto gli costerebbe avere parte dei dipendenti a casa. Potrebbe essere un mix di tutte queste cose come nessuna. Non lo so. 
Quello che so è che nella mia personalissima scala di valori, il lavoro è un diritto e una scelta non è davvero tale se solo una delle opzioni mi consente di arrivare alla fine del mese con il cibo in tavola. Il Green Pass è una manovra ipocrita fatta da una classe dirigente che si rifiuta di fare il proprio lavoro (governare) ogni qual volta ne ha l’occasione, nascondendosi dietro provvedimenti subdoli. La mia posizione sul GP è dal primo istante la stessa espressa da Barbero giorni fa.
Lo Stato inoltre, secondo me, non può e non deve permettersi di sbandierare delle libertà fittizie, mettendo poi nelle mani dei cittadini l’onere di far valere vincoli anche molto severi che le contrastano. Non andava bene quando suggeriva di denunciare i vicini che si trovavano in più di sei in casa l’anno scorso e va ancora meno bene oggi quando chiede agli esercenti o ai datori di lavoro di far valere restrizioni severe che, oltre a mettere i cittadini gli uni contro gli altri, generano oltretutto un evidente conflitto di interessi.
Lo Stato ha tutti gli strumenti per valutare la situazione sanitaria e decidere se la vaccinazione spontanea sia sufficiente a garantire sicurezza. Se non lo è, serve l’obbligo vaccinale. Non è complicato, è lo stesso calcolo alla base dei semafori: lo Stato valuta insufficiente la capacità degli italiani di fermarsi spontaneamente agli incroci per evitare incidenti e quindi ci obbliga a farlo. 
As simple as that.

C’è tuttavia un altro fenomeno da analizzare, portato alla luce dalla questione Natura Sì, ed è nuovamente un’amara riflessione su come abbiamo veicolato il valore della vaccinazione. Nelle aziende si parla di “value proposition”, la leva da utilizzare per vendere un prodotto al cliente, ciò che lo rende interessante/appetibile esplicitandone la necessità e, di conseguenza, innescando il processo di acquisto.
Ora, io non sono esattamente la Ferragni e di marketing capisco davvero il minimo necessario a fare il lavoro che faccio, ma la posizione commerciale di un vaccino arrivato dopo 10 mesi di chiusure, vita azzerata e paura collettiva sulla carta sarebbe dovuta essere la più comoda possibile già in partenza, per poi diventare addirittura inaffondabile alla luce del fatto che funziona e la gente ha smesso di morire. Le persone avrebbero dovuto essere ultra felici di vaccinarsi per il loro bene e, onestamente, guardando i numeri della campagna vaccinale è stato largamente così per una vasta maggioranza di cittadini.
Ciò nonostante, siamo riusciti a far passare il vaccino come “sacrificio necessario”, con tutte le implicazioni nefaste che questo comporta se dato in mano ad una popolazione generalmente più impegnata a guardare cosa fa quello della scrivania affianco piuttosto che concentrarsi su quanto debba fare lui. Di conseguenza, a nessuno più interessa il fatto che essersi vaccinati è in prima istanza un bene per noi stessi nè ci interessa che chi non lo ha fatto debba comunque sottoporsi a continui controlli per garantire la propria e la nostra sicurezza. No, dobbiamo accanirci, quindi immaginarceli costretti a non lavorare ci dà quel brivido di vendetta che tanto ci piace.
Non a caso, una delle sostenitrici della linea Burioni è la sempre presente Selvaggia Lucarelli, già da anni prima punta della squadra (ammicco) che mira a colpire i cattivi dove fa più male, ovvero mettendoli nei guai al lavoro. E’ un metodo fascista, non so come altro definirlo, e a me i metodi fascisti fanno tendenzialmente schifo anche quando usati su persone che hanno sbagliato, a prescindere dalla gravità del loro sbaglio. Mi fa quasi strano doverlo ribadire: l’obbiettivo è uno Stato che si occupi in prima persona di dettare le regole, farle rispettare e punire chi non le rispetta, scevro dalla spinta della vendetta o della ritorsione che umanamente muove noi semplici cittadini.

Chiudo con un’ultima nota, già che ho la vena pulsante, e proprio perchè dettata dalla foga del momento concedetemi la sua natura benaltrista.
In un anno e mezzo di emergenza COVID non ci è mai interessato boicottare le aziende che non garantissero la sicurezza sanitaria necessaria sul posto di lavoro, nè ci è interessato che lo Stato se ne occupasse. Non ci è mai interessato boicottare le aziende che si sono opposte al telelavoro pur non avendo esigenza nel riportare i dipendenti in uffici poco sicuri o comunque più proni al generare focolai. Non ci è mai neanche interessato boicottare le aziende che hanno usufruito degli ammortizzatori sociali derivati dal COVID in modo improprio, contribuendo ad impoverire uno Stato che già arranca nel sostegno di chi ha davvero sofferto l’inferno per l’intera pandemia.
In tutti questi casi il nostro sdegno non era necessario.
Che lo diventi ora, innescato da un’azienda che investe il proprio denaro per il benessere dei propri dipendenti senza intaccare in nessun modo la sicurezza dei propri clienti o del proprio personale, secondo me, è davvero un brutto segnale.

Un’altra occasione persa per uscirne migliori.