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L’italia è una merda.

Lavorare da casa

No, questo non vuole essere un altro articolo che spiega perchè lavorare da casa non dovrebbe essere definito smart working (anche se credo nel proseguo lo farà comunque), il mio è più un tentativo di rispondere ad una semplice domanda:

Il lavoro da casa è la soluzione a cui dovremmo tendere?

Risposta breve: no.
Se avete voglia, ora vi potete ciucciare la risposta lunga.
Premessa d’obbligo: il ragionamento esula dalla contingenza specifica in cui il COVID esiste e ci costringe ad un certo tipo di riflessioni. Il mio punto di partenza è provare a ragionare sul domani, quando in un sistema pandemia-free si dovrà decidere come ristrutturare la normalità lavorativa e pare che la discussione al momento sia polarizzata su due uniche possibilità: tornare al lavoro esattamente come prima, oppure rendere definitivo il passaggio al lavoro da casa per tutti coloro che possono farlo.
Come scenario mi pare povero di fantasia, sinceramente, ma se non credo servano articoli di approfondimento per sancire come un ritorno al lavoro pre-COVID sia un’idiozia sotto tantissimi punti di vista, è meno facile far passare il concetto che anche cristallizzare l’home working come panacea per un domani felice sia un discorso come minimo superficiale, che può andare giusto bene per bestemmiare addosso a Sala su twitter. 
Il primo motivo per cui per me lavorare ognuno nel proprio guscio domestico non è una soluzione sostenibile su larga scala è di tipo sociale. Se c’è qualcosa che ho imparato dal mondo in cui viviamo è che meno contatti ci sono con l’esterno, più diventiamo stronzi. Tutto ciò che non ci tange, letteralmente, diventa nel migliore dei casi trascurabile e nel peggiore fonte di paura, con le facili conseguenze che è inutile stare ad elencare. Ci sarà sempre chi è più empatico e chi meno, chi è più incline a guardare oltre al suo naso e chi meno, ma di base chiudersi nella propria realtà è il modo più semplice per nascondere sotto il tappeto le realtà altrui. E ne facciamo le spese tutti, perchè tolti gli estremi della campana, ognuno di noi ha qualcuno che sta peggio da cui vuole tutelare il proprio privilegio e qualcuno che sta meglio a cui spera di fottere il posto.
Chi più chi meno, ovviamente, ma sui grandi numeri la razza umana funziona così.
Senza rapporti diretti che lo rendano un individuo, il prossimo diventa unicamente un fastidio che limita in qualche modo la nostra esistenza. La frase “non ce l’ho coi gay, ho tanti amici gay” come giustificazione all’omofobia è una minchiata in primis perchè è falsa: se hai tanti amici gay davvero, è impossibile tu ce l’abbia coi gay. Puoi avercela coi gay solo se per te diventano una categoria estranea, astratta ed incomprensibile, di cui l’assenza di riscontri oggettivi rende possibile credere qualsiasi cosa. L’ignoto che fa paura. Questo è anche il motivo per cui l’omofobia nel tempo andrà a sparire, perchè sempre più persone entreranno in contatto diretto con l’omosessualità e capiranno che [SPOILER] non c’è nulla di cui avere paura.
E’ questo il valore di una società, l’interazione che porta integrazione.
In una società dove ormai si può compartimentare la vita privata  (reale ed online) creando vere e proprie bolle, dove grossomodo qualsiasi servizio è domiciliabile e larga parte delle attività non necessità più di coinvolgere il prossimo, il lavoro resta uno dei pochi ambiti in cui non è possibile scegliere con chi ci si dovrà relazionare. Se ci si pensa, questa cosa non è più vera neppure per la scuola, dove l’avvento dell’istruzione privata ha permesso di infilare i figli in contesti “elitari”, che con la scusa di un’istruzione migliore di fatto forniscono a genitori (idioti) la pia illusione di avere i propri eredi al riparo dalle brutture del mondo. Il primo motivo per cui, secondo me, l’istruzione dovrebbe essere forzatamente pubblica, ma sto divagando. Il succo del mio discorso sta nel vecchio detto per cui parenti e colleghi non te li puoi scegliere, con l’aggravante che i parenti puoi decidere di non frequentarli, mentre i colleghi no. Ed è una roba da salvaguardare. 
Oltre a questo aspetto, l’annullamento di confini tangibili tra la vita privata e la vita lavorativa, prima definiti ad esempio dagli spostamenti, rendono molto più sfumati i limiti dell’orario di lavoro e possono comportare difficoltà nell’esercizio del “diritto alla disconnessione”, specie quando sul piatto della bilancia per lo sdoganamento del telelavoro si continua a parlare dell’importanza di lavorare per obbiettivi, in contrapposizione al concetto vecchio stile di “orario lavorativo”. Intendiamoci, l’idea di base per cui chiudere un progetto sia più importane che lavorare 8 ore la condivido anche io, ma spesso si fa finta di non sapere che gli obbiettivi di massima il lavoratore dipendente li subisce, non li definisce e in un contesto in cui lavorare da casa diventa argomento di trattativa, il ritorno che l’altra parte esige per sacrificare la propria smania di controllo è difficile non impatti sulle richieste proprio in termini di obbiettivi. Se il presupposto sarà: “Ok lavorare da casa, ma devi dimostrare di essere efficiente”, per me l’orizzonte diventa un baratro.
Chiudo col discorso produttività, su cui spero sia inutile soffermarsi: chi non ha voglia di lavorare difficilmente lavora, a casa quanto in ufficio. Per tutti gli altri credo il bilancio vada a zero e per ogni persona che riduce un po’ la propria produttività tra le mura domestiche ce n’è probabilmente una che la incrementa. Parlando unicamente della mia esperienza personale, quando lavoravo in ufficio e avevo possibilità di farmi un giorno di lavoro da casa, quel giorno ero iper produttivo. Ora che la routine è lavorare da casa, non credo di essere più efficiente di quando ero in ufficio perchè parte del mio lavoro dipende da altre persone, con cui interagire da remoto è di fatto più complesso, e questo genera alcuni limiti nel circolare delle informazioni. Non dipende da nessuno ed è qualcosa che probabilmente si risolverà nel medio periodo, ma di fatto è uno dei motivi per cui trovo peggiorata la qualità del mio lavoro, da quando sono a casa in pianta stabile.

Quindi dobbiamo tutti tornare in ufficio come prima?

Risposta breve: no.
È ovvio ci siano evidenti limiti al sistema che abbiamo considerato normale nell’era pre-COVID, limiti che non solo tendono a rendere insostenibile quel meccanismo nel prossimo futuro, ma che alla luce di quanto sperimentato in questo 2020 non ha senso rimettere in atto senza trarre il minimo insegnamento. 
Se prima dicevo che i tempi di trasferimento sono un modo per scandire lo stacco tra lavoro e vita privata, il fatto che per molti questi tempi fossero di ore, in situazioni molto poco confortevoli e/o ad impatto ambientale drammatico è qualcosa che non può e non deve passare inosservato ora che abbiamo potuto dimostrare non si tratti di una necessità inderogabile.

Quindi?

Io non ho una soluzione certificabile, ma se devo pensare ad uno scenario che credo possa essere in ogni caso meglio dei due estremi di cui si discute, su cui scommetterei come investimento per il futuro, questo prevede spazi di lavoro condivisi in ogni centro abitato, in proporzione al numero di abitanti.
Luoghi dove si può andare a piedi o in bicicletta, vicino casa, magari sulla strada da e per la scuola dei figli. Luoghi dove si può interagire con altre persone, pranzare e bere il caffè con altre persone, che fanno lavori diversi e hanno stipendi diversi. Luoghi che potrebbero rendere vivi centri abitati che di fatto sono dormitori per lavoratori che poi migrano in città dalle 7 alle 20, congestionandola. Luoghi che potrebbero creare esigenza di attività corollario di ogni tipo: tutto ciò che facciamo in posti comodi perchè “vicini all’ufficio” potremmo farlo in posti comodi vicino a casa. Lavoro che genera altro lavoro.
Magari questa idea ha seimila risvolti negativi che la rendono utopica o più semplicemente stupida, non lo so, fortunatamente il futuro della locazione dei posti di lavoro non dipende da questo blog. Resto tuttavia convinto che una società senza interscambio tra persone sia destinata a gravissimi problemi e, purtroppo, l’interscambio va spinto perchè la tendenza dell’uomo è alla segregazione.
E a me la segregazione fa schifo.

Il caso Suarez

Questa mattina mi sono divertito a scribacchiare questa cazzata sul caso Suarez e l’ho messa sui social. Poi mi sono ricordato di avere un blog e quindi mi pare giusto metterla anche qui. E’ una cosa davvero fatta solo per ridere, quella di Suarez è una vicenda che non mi interessa e non mi sposta, il calcio è ormai una delle mie ultime preoccupazioni e quello che penso della Juve l’avevo già scritto qui e vale oggi come allora.

Il caso Suarez
a fiction movie by Manq (da un’idea di Stefano Accorsi).

Prologo:
Il caso scoppia esattamente 12 ore dopo che la Juve molla il giocatore per firmare a sorpresa letteralmente il primo che passa.
Per la stampa: coincidenza incredibile.
Capitolo 1:
Si evince immediatamente che siamo di fronte ad una porcheria enorme che può essere pensata solo da qualcuno molto stupido o che si sente davvero intoccabile.
Per la stampa: tutto nasce da Suarez, colto improvvisamente dall’Italian Dream. Juve parte lesa.
Capitolo 2:
E’ palesemente tutta farina dell’Università di Perugia e del giocatore e sarebbe meglio smettere di fare domande ed indagare, ma ormai non si può e tocca andare a fondo.
Per la stampa: Juve tranquilla.
Capitolo 3:
Escono le prime intercettazioni (ma che cazzo), saltano fuori nomi del tutto impronosticabili. Per lo sconcerto di tutti, quelle che sembravano solo fortuite coincidenze si dimostrano invece nessi causali.
Per la stampa: bisogna indagare, ma GARANTISMO.
Capitolo 4 (da qui SPOILER):
Diventa impossibile non vedere il mandante della faccenda, la Juve, che per quanto mossa da ovvie motivazioni encomiabili ha superficialmente fatto un illecito.
Per la stampa: la burocrazia che blocca lo sport italiano – a case study.
Capitolo 5:
Niente, son colpevoli e non si può fare a meno di punirli in qualche modo. Ci si prova eh, grandi discussioni e giri di valzer, ma alla fine tocca cedere.
PENALIZZAZIONE DI X PUNTI IN CLASSIFICA.
Per la stampa: La Juve paga per tutti, giustizia ad orologeria.
Capitolo 6:
L’armata del Maestro Pirlo, che in campionato ha forse una sola rivale credibile, macina punti e vittorie senza fatica mentre le avversarie fanno un percorso normale e perdono qualche punto.
Per la stampa: Juve più forte di tutto.
Capitolo 7:
Negli scontri diretti la Juve vince. C’è qualche caso da moviola dubbio, ma ehi, smettiamola di dare addosso alla Juve che già è penalizzata. L’inter viene derubata con Parma, Spezia e Crotone. La Juve è avanti.
Per la stampa: MIRACOLO BIANCONERO.
Gran finale:
La Juve vince il decimo scudetto consecutivo SUL CAMPO. Tifosi in delirio. Più forti di tutto e tutti. Campioni nonostante le vostre macchinazioni meschine. Guido Rossi. Maalox.
Per la stampa: lo scudetto EPICO contro le avversità. Il più bello di tutti.

Marco Crepaldi

Avevo deciso di lasciar passare la questione Marco Crepaldi senza metterci becco perché online “litigo” già abbastanza di mio sul tema della parità di genere, ma poi ho scoperto che lui è uno dei ragazzi di Dunkest e quindi ho deciso di approfondire.
Per iniziare quindi sono andato a vedermi il suo video:

A questo video sono seguiti, come forse ipotizzabile, una catena di eventi: critiche da un lato e campagne di supporto dall’altro che presto, se non subito, sono diventate insulti e benzina nello scenario della guerra tra sessi di cui ancora tantissima gente sente il bisogno.
Ora quindi mi prendo uno spazio per dire la mia.

Non credo sia un segreto la mia visione non sia tanto distante da quella di Marco. Un dilagante senso di avversione generalizzato verso il genere maschile esiste e sui social è abbastanza palpabile. Viene fuori ogni volta che si vira sull’argomento “parità di genere”, ma ormai è facile imbattercisi anche fuori contesto, se ammettiamo ci sia un contesto dove è lecito aspettarselo.
Uno degli ultimi tweet di questo tipo con cui ho interagito personalmente è questo:

Una generalizzazione a cazzo di cane che con bersaglio l’altro sesso (o un’etnia) farebbe quantomeno storcere il naso, ma che in questo caso dovremmo farci andar bene sulla base del fatto che “il sessismo nei confronti degli uomini non esiste“. Quando leggo cose di questo tipo, generalmente, mi incazzo, ma non per il motivo che si potrebbe pensare.
Non mi pesa il giudizio su di me, mi pesa il fatto che provando a mettere in discussione generalizzazioni di questo tipo si finisce per doversi smarcare da accuse di servilismo verso il patriarcato o di maschilismo proattivo, trattati alla stregua di chi vorrebbe la donna unicamente come oggetto sessuale o di cura domestica. Sono più che disposto ad essere attaccato per quel che penso e dico, decisamente meno per le generalizzazioni che da quel che penso e dico possono scaturire in chi ascolta e ancora meno per il semplice fatto di essere nato maschio. La vivo talmente male che quando sono in argomento ormai mi sento costretto ogni volta a mille precisazioni e distinguo, volti unicamente a tenere il punto circoscritto all’opinione specifica e non allo spettro di possibili deduzioni sbagliate che dall’opinione potrebbero scaturire. Il risultato è che chi mi legge pensa che mi stia giustificando, che stia mettendo le mani avanti stile “non sono maschilista, MA…”.
Ecco, il primo concetto che vorrei passasse da questo post è che forse quel che c’è prima del MA non conta, ma certamente conta quel che c’è dopo quindi sarebbe meglio prestare attenzione e valutare se davvero elimini il NON o semplicemente provi a spostare il discorso su un livello meno banale o assoluto.

L’integralismo a cui faccio riferimento poi ha l’aggravante di andare a singhiozzo, almeno sui social. Non posso avere un’opinione sulla questione delle donne che combattono il patriarcato non depilandosi* perché “sono uomo e non posso capire”, ma non mi è mai ancora successo di intervenire in una discussione sulla parità di genere sostenendo le parti “femministe” e venire trattato nello stesso modo. La mia opinione non è rilevante solo quando è disallineata.
Qui arriva il secondo punto che mi preme mettere in questo post. A me le persone che pensano si debba essere parte di una minoranza afflitta per comprenderne le ragioni spaventano. Dimostrano non solo assenza di empatia, ma anche un tremendo egoismo. Io sono piuttosto felice di espormi in favore di qualcuno che ha problemi che io non ho e non credo che non avere un problema equivalga a non poterlo comprendere. Certo da fuori posso necessitare di una guida o di spunti che potrei effettivamente non considerare dal mio punto di partenza, ma in quel caso vorrei me li si spiegasse invece di dirmi che non ho voce in capitolo.
L’impressione che ho, nella mia bolla social, è che le posizioni si stiano radicalizzando. Forse è una risposta al dilagare delle destre o del fronte populista, probabilmente anche io sono più netto di qualche anno fa nel rimarcare cosa sta dalla parte del giusto e cosa no, ma mi pare che la conseguenza principale di questo fenomeno sia che una mega guerra fratricida in cui spendiamo più tempo a fare la punta al cazzo di chi non è abbastanza dalla nostra parte rispetto a quello che investiamo nel fronteggiare chi sta dall’altra. Ci chiudiamo in un recinto in cui tutto ciò che non è perfettamente sovrapponibile a noi sta fuori e va osteggiato nello stesso modo e con la stessa forza. E’ una roba che non capisco e non mi piace, forse perchè la cosa del “Molti nemici, molto onore” mi ha sempre fatto cagare.

Arriviamo adesso a quello che forse mi separa da Marco. Ha senso farsi promotori di una campagna come quella che ha provato a portare avanti lui, nell’ambiente in cui ha provato a portarla avanti lui? Non lo so.
Come detto, io per primo non perdo occasione di infilarmi in quelle discussioni ogni volta che posso e provare a veicolare il messaggio, ma continuo a pensare che le proporzioni del fenomeno non siano tali da renderlo pericoloso quanto lui suggerisce. Per me si tratta più che altro di dare la sveglia a chi passa il limite, lui ne fa argomento di studio e da quel che dice siamo già andati oltre i “pochi casi isolati” e siamo saltati a piedi pari nel “Fenomeno in espansione”. Non ho strumenti per contraddirlo, però anche fosse: è davvero lecito parlare del problema oggi, in Italia? Ovviamente è sempre lecito parlarne, diciamo allora “legittimo”. Diciamo che se non posso comprendere o tollerare gli insulti che gli hanno rivolto, posso comprendere il ragionamento alla base per cui lamentarsi della misandria possa risultare “irrispettoso” in un ambiente in cui la misoginia è un problema decisamente più presente, radicato ed allarmante.
Lui dice chiaramente: “Non stiamo facendo una gara al problema più grave” ed ha ragione, però credo sia anche questione di sensibilità.
Io credo che chi in Italia è in cassa integrazione da Marzo e fatica ad arrivare a fine mese abbia un problema reale e concreto, ma forse non troverei corretto da parte sua lamentarsene al centro di un villaggio africano in cui le persone mangiano due volte a settimana. Non lo so, magari la differenza tra quel che fa lui e quel che faccio io è solo nella mia testa, può essere, ma io ancora la vedo.

Concludendo, a conti fatti questo fenomeno non è altro che una manifestazione tra le tante di quella che in sociologia è nota come Legge Juvenuts:

Una larga maggioranza dei tifosi non juventini non auspica un calcio più equo, vorrebbe solo che la sua squadra, un giorno, diventasse la Juve.


* Ovviamente ho un’opinione in merito alle donne che combattono il patriarcato non depilandosi e sono ben felice di illustrarla: facciano come vogliono, ovviamente.
Tuttavia non serve un genio per comprendere che il patriarcato può aver anche influenzato i canoni di bellezza estetica alle donne verso standard tossici, MA:
1) depilarsi non credo rientri in questi standard essendo di fatto accessibile a TUTTE senza limitazioni fisiche, metaboliche, ecc.
2) tutti quotidianamente siamo sottoposti a pressione sociale per le nostre apparenze, non solo le donne. La libertà di una donna di andare in giro coi peli sotto le ascelle è la stessa che ho io di farmi i capelli fucsia come a diciannove anni. Nessuno ce lo vieta, ma se abbiamo più di diciannove anni capiamo che per quanto formalmente insindacabile sia il nostro diritto, la società non ci permette di esercitarlo e farne una battaglia forse rientra nel focalizzarsi sulle stronzate che non sono propriamente il first world problem, col rischio concreto di far perdere di significato tutta la battaglia agli occhi di chi già era scettico di suo. Tipo: se il problema della parità di genere sono i peli delle ascelle, la parità di genere non è un problema. Lo so, è un ragionamento limitato, ma stiamo parlando di chi ha problemi nel vedere le disuguaglianze di genere, ci aspettiamo qualcosa di meglio? Forse prima sarebbe il caso di prioritizzare (altro concetto che sopra i diciannove anni dovremmo tutti essere in grado di comprendere) e portare la percezione di disuguaglianza alla popolazione nel suo complesso, usando esempi ben più significativi.
3) Il problema alla fine si riduce comunque al fatto che noi uomini, in realtà, di pressione sociale non ne facciamo manco un po’ verso i canoni estetici, perchè alla fine nessuno rinuncerà mai a una sco*ata per quattro peli (per quanto disgustosi) e questo è l’unico motivo reale per cui la situazione è ancora in discussione e non è morta immediatamente. Checchè leggiate in giro “Non ho bisogno di piacere agli uomini, mi tengo i peli” la realtà è che se coi peli avessero la certezza di non piacere più a nessuno, starebbero in coda dall’estetista per la definitiva.
Col punto 3 forse vi sto trollando.

La mossa Kansas City

Quasi quindici anni fa è uscito un film che si intitola “Slevin”. E’ un gran film, secondo me, con due pregi su tutti:
1) La miglior Lucy Liu di sempre. Non in termini interpretativi, semplicemente figa come mai prima e mai dopo nella sua vita.
2) La definizione di Kansas City Shuffle, ovvero della “mossa Kansas City”.
Su youtube c’è lo spezzone del film in cui il sempre maestoso Bruce Willis spiega cosa sia la mossa Kansas City, ma è uno SPOILER bello grosso quindi se non avete visto “Slevin” non schiacciate play, che tanto ve la spiego io più in basso.
Ovviamente (altro SPOILER) non sarà la stessa cosa.

La mossa Kansas City è quando qualcuno ti porta a guardare a destra per distrarti da quel che sta facendo a sinistra e, come dice Bruce ad inizio film, colpisce chi non vuol sentire.

In questo periodo di COVID19, zone rosse e distanziamento sociale, la mossa Kansas City è quella che stanno portando avanti in massa tutti i più rilevanti esponenti dell’informazione del nostro Paese che, prima coi runner e oggi con la movida, catalizzano l’opinione pubblica verso facili capri espiatori su cui far convergere il risentimento ed il fastidio della popolazione, che è fermamente convinta si ammalerà per via dei ragazzi che fanno l’aperitivo e non per l’aver dovuto continuare a prendere i mezzi affollati per recarsi in un posto di lavoro dove DPI e misure di distanziamento sono stati introdotti, se sono stati introdotti, con almeno due mesi di ritardo e senza verifiche.
Perchè ricordiamolo, abbiamo i droni per inseguire le persone in spiaggia, ma guai a chiedere la verifica della sicurezza sui posti di lavoro. Non ci sono certamente le risorse per farlo.
Da quando questa situazione è iniziata ho discusso varie volte e con varie persone di come il lavoro non sia, a mio modesto avviso, incompatibile con il blocco dei contagi. Alla fine il COVID19 è un virus abbastanza facile da limitare: mascherine, distanze, igiene personale e le possibilità di contrarlo crollano di moltissimo. Con un minimo di raziocinio iniziale si sarebbe potuto evitare di spaventare le persone oltre il necessario, invece la caccia alla notizia, al paziente zero e alla conta dei morti ha creato il panico incontenibile nella popolazione che, giustamente, ha iniziato ad avere paura di uscire di casa.
Questa cosa però mal si abbina alla necessità (purtroppo innegabile) di continuare a produrre e, di conseguenza, di lavorare. E così si è cercato di correre ai ripari. Come? Ovviamente NON costruendo un dibattito sulla possibilità di lavorare in sicurezza (lo so, l’ho già detto).
Il primo tentativo è stato quello di fare retromarcia.
La stampa ha provato a dire che non ci fosse nulla da temere, che non fosse il caso di panicare. Tipo così. Vi faccio notare l’incipit di questo articolo: “Superata la prima crisi di panico che ha portato molti cittadini ad assaltare i supermercati nelle giornate di domenica 23, lunedì 24 e martedì 25, l’Italia sembra aver ritrovato la propria calma.“. Ovviamente i responsabili della paura fuori controllo sono i cittadini, che da soli di punto in bianco hanno deciso che fosse il caso di assaltare gli ipermercati. Ci siamo arrivati tutti insieme, simultaneamente, ma senza nessun tipo di influenza esterna. E’ che abbiamo una mente alveare.
Purtroppo però per fare retromarcia era tardi: si andava verso il momento più drammatico dell’epidemia italiana e la politica stava già visibilmente brancolando nel buio cercando di rifilare colpi a cerchio e botte tra lockdown sempre più restrittivi per i cittadini e salvaguardie sempre meno chiare per le attività produttive. Erano i giorni in cui il dibattito online sembrava tutto incentrato sul definire cosa fosse essenziale e cosa no, senza nessuno che parlasse di norme di sicurezza (lo so, sono un disco rotto).
Con Confindustria in costante pressing per la riapertura, iniziato praticamente da prima di chiudere, era necessario creare una nuova narrazione ed è qui che la stampa nostrana ha iniziato a lavorare sulla mossa Kansas City.
Prima i runner, poi i Navigli ed ora la più generica “movida“.
Più in generale, un assalto frontale ai giovani che, come sempre, sono causa di qualsiasi problema (NdM: lo scrive uno che giovane non è), ma che soprattutto adesso sono evidentemente una popolazione diversa da chi acquista, clicca ed eventualmente finanzia i giornali di cui sopra. Casualmente.
Non è che ci si sia inventati niente di nuovo, in periodi di crisi è abbastanza standard veicolare il disagio delle persone verso un bersaglio e non fa differenza se siano gli ebrei, i meridionali, gli immigrati o gli aperitivers: funziona sempre nello stesso modo. E infatti, anche in questo caso, siamo arrivati alle ronde su base volontaria. Con la Serie A ferma, d’altra parte, qualcuno sentiva la mancanza delle squadre.

E il lavoro? Non si parla di eventuali rischi legati alla ripresa grossomodo totale del lavoro?
Certo, qui un esempio tratto dal Corriere della Sera:

Il lavoro non c’entra nulla con i contagi perchè prendendo dati arbitrari ed interpretandoli a cazzo di cane diventa evidente che sia più pericoloso starsene in casa che non andare al lavoro.
Dove, ribadiamolo, tutte le aziende hanno messo in atto al millimetro ogni possibile azione preventiva e di sicurezza, ne siamo talmente certi che non è neanche necessario verificare. L’assunto tanto è che chi fa impresa è gente coscienziosa, mica come chi fa l’aperitivo.
Ed è giusto ribadirla questa cosa, a costo di assumere delle persone e pagarle perchè infrangano di proposito ogni regola esponendosi ad eventuali contagi in modo da girarci uno spot volto a sensibilizzare. Dove sensibilizzare è più che altro stigmatizzare.
Così mentre le persone deputate alla nostra sicurezza e salvaguardia se ne vanno in TV a delirare sul concetto di R0 ed Rt, riaprono le celebrazioni religiose tanto care alla porzione di popolazione più a rischio (cosa potrà mai andare storto?) e continui a non esserci mezzo piano per la collocazione dei bambini nemmeno ora che papà e mamme sono costretti a tornare al lavoro, noi possiamo tranquillamente guardare altrove e focalizzare i nostri travasi di bile verso chi si beve uno spritz.
Notate: quella di Gallera è una gaffe, una strana teoria, mentre per chi va a bersi una birra serve la tolleranza zero.
Che peso vuoi che abbiano le parole nel giornalismo?

Se ho fatto questa lunga, lunghissima sfilza di esempi è solo per dire che non abboccare a questa mossa Kansas City è possibile.
Dire: “Eh, ma se apri i bar e i ristoranti e non pensi che poi la gente ci vada sei scemo…” è sbagliato perchè implicitamente alleggerisce le responsabilità di chi ha preso questa decisione, che poverino non ci ha pensato, e le carica sulle spalle di chi l’ha messa in atto, secondo l’assurdo principio per cui “se riaprono i bar non vuol dire che ci si debba andare per forza”.
Non sono stupidi, tanto meno ingenui.
Stanno solo costruendo un alibi.
Ed è un alibi di ferro perchè, senza tracciabilità dei contagi, nessuno avrà mai la prova non sia stata colpa dei maledetti runner.

Diario dall’isolamento: day 51

Il nuovo decreto mi ha abbastanza fatto incazzare. Ieri sera stavo proprio svalvolando e oggi ho speso parecchio tempo a discuterne tra social e gruppi whatsapp.
Amarezza e frustrazione.
Una maggioranza che non esiste fuori dal parlamento, un premier simbolo di incompetenza che sperava di svangarla via liscia e si è invece trovato con la faccia indissolubilmebte associata alla più grande crisi del dopoguerra e un clima generale di confusione in cui l’unico messaggio che traspare è “stiamo fermi e speriamo che passi da sola”.
Oggi Giuditta Pini (non me ne voglia se mi accanisco con lei) scriveva un post poi modificato in cui sostanzialmente diceva di non sapere su che base il PD avesse deciso di appoggiare la richiesta della CEI riguardo le messe. Se non lo sa lei che è parlamentare, chi dovrebbe saperlo? Come si può votare un partito del genere?
Bisogna riportare le persone in chiesa e a vedere le partite prima che realizzino di stare bene anche senza Preti e Pallone, ma per il resto non ci sono non dico certezze, ma nemmeno idee in termini di diagnosi, contenimento e tracciabilità dell’infezione. Zero. Senza contare la questione bambini: facciamo tornare i genitori al lavoro e teniamo le scuole chiuse è un buon piano, ma ha delle implicazioni che andrebbero analizzate e andrebbe proposta una soluzione. Quel che capisco io è che l’idea del governo siano le babysitter (da lí il bonus). Posto ce ne sia davvero una per famiglia (ahahah) assumere una persona alla paga minima di 8 euro all’ora versandole i contributi si tradurrebbe in 3200 euro al mese da qui a Settembre, di cui posso recuperarne 600 una tantum grazie al sopra citato bonus. Mi conviene mettermi in aspettativa e non lavorare, visto che il mio stipendio è ben più basso.
Se l’obbiettivo è ripartire economicamente forse il governo non dovrebbe mettermi nella condizione di rinunciare al lavoro.
Potrei andare avanti ancora un tot a vomitare risentimento perché sono stanco, demotivato e con l’umore sotto i piedi.
Forse non c’è un modo più giusto di gestire queato Paese in questo momento, forse non ci sono persone più adeguate di quelle che abbiamo al timone. È possibile. Forse sbaglio io.
In ogni caso, non voglio più vedere o sentir nominare nessuno di quelli che oggi stanno nella stanza dei bottoni. Di conseguenza, credo che per me di tornare a votare se ne parlerà nel duemilamai.

Contromano in tangenziale

ATTENZIONE: questo è uno di quei post in cui mi parlo addosso con lo scopo ultimo di cavar fuori una direzione al mio complicato modo di essere. Lo scrivo per lettori che non esistono, ma che ipotizzo eviterebbero volentieri di finire a leggere una cosa così senza preavviso.

La barzelletta di quello che guida contromano in tangenziale la conosciamo tutti:
+ La radio: “Avvistato un pazzo contromano in tangenziale…”
+ Uomo al volante: “Uno? A me sembrano tantissimi!”
Fa ridere.
Però io ci vivo dentro.

Il mio problema è che non sono matto a sufficienza da pensare di essere l’unico nel giusto, sempre e comunque, ma contemporaneamente non riesco a capire come faccia la maggioranza delle persone con cui interagisco a non vedere il mondo come lo vedo io. La testa, programmata per ragionare con logica, mi porta a pensare sia io quello sbagliato, eppure la stessa logica spesso non mi permette di trovare l’errore. E questo porta al crash del sistema.
Una canzone che mi piace dice:

Mio nonno
Per quasi settant’anni
È stato in minoranza
E sta benissimo!

È una bella frase e Dio solo sa quanto mi piacerebbe fosse applicabile alla mia vita. Purtroppo non è così: io la vivo male.
L’ultimo ambito in cui mi sto scontrando con le persone che frequento, da amici, a colleghi, a persone con cui in qualche modo interagisco online è la situazione relativa all’infezione da coronavirus che stiamo vivendo, ma è davvero solo un altro esempio di una routine in cui mi trovo a sedermi dal lato opposto della maggioranza dei miei conoscenti e investo ore nel tentativo di discuterne.
Vista da fuori è facile: è il profilo tipico di quello che gode nell’andare contro tutti, ma la realtà dei fatti (per lo meno a livello conscio) è esattamente all’opposto. Allora perché faccio così? Non lo so.
Di solito inizio a ragionare su un argomento a partire dagli elementi che ho in mano, costruendomi un’opinione che poi uso per dibattere col prossimo. Questo mi serve per approfondire, dare spessore al mio punto di vista ed irrobustirlo, oppure cambiarlo. Non so se sia cosí per tutti, ma per me funziona.
Ci sono volte (rare, imho) in cui però sono sufficientemente convinto di quanto sostengo da volerlo spiegare a tutti. Boh, forse è un retaggio evangelico della mia educazione cattolica, cazzo ne so. Il punto è che mi ci sbatto e quando fallisco di norma mi deprimo.
Il motivo ho provato a spiegarlo fuori contesto giorni fa su twitter:

Il problema infatti è che non mi metto mai a discutere con chi so a priori non possa farcela a seguire il discorso (a mio insindacabile e del tutto soggettivo giudizio), io punto solo su cavalli che stimo, gente che penso possa capire e che, se non arriverà a sposare la mia linea, nella mia testa lo farà argomentando in modo dettagliato ed univoco, fornendomi spunti di riflessione magari nuovi a cui non avevo pensato in partenza.
Quanto ci credo? Nel 100% dei casi.
Quanto succede? Non ho fatto un conto, ma la percezione sta intorno al 10-20%.
Eppure insisto.
Ogni cazzo di volta.
E così accumulo delusioni, amarezza e senso di inopportuno.

Sono le 2:49.
Questo post ho iniziato a scriverlo dopo essermi sfogato con quella santa di mia moglie, che alla 1:00 di tutto aveva voglia, tranne che di sentirsi vomitare addosso le mie menate esistenziali, soprattutto se derivanti dall’ennesima discussione su twitter con un estraneo.
Non sono per nulla convinto, razionalmente, di non essere io lo scemo del villaggio.
Eppure non riesco a prendere in considerazione la cosa e continuo a sentirmi come il tizio che corre sicuro di sé, contromano, in tangenziale.

Sanremo 2020: le canzoni in gara

Non sto seguendo Sanremo.
Non perchè abbia di meglio da fare o perchè ritenga importante boicottare il festival, semplicemente preso come spettacolo di intrattenimento non mi interessa per nulla e, anzi, soffrirei terribilmente se provassi a guardarlo.
Discorso diverso sono le canzoni in gara, che per qualche motivo ogni anno solleticano la mia curiosità pur sapendo a priori siano tutte ultra lontane dal poter finire anche per sbaglio nello spettro dei miei ascolti.
Questa mattina quindi ho approfittato della playlist che Spotify ha creato ad hoc e mi sono sentito tutti i pezzi, commentandoli di getto e al primo ascolto su twitter.
Qualcuno mi ha detto che poteva essere più intelligente, avendo un blog, racchiudere tutti i tweet in un unico post(o) ed in effetti ha senso, quindi li riporto di seguito esattamente come mi sono usciti.
Una sorta di mini guida a questa edizione del Festival della Canzone Italiana.

  1. Musica (E il resto scompare) di Elettra Lamborghini.
    Boh dai, poi rompevate il cazzo per Despacito.
  2. Me ne frego di Achille Lauro
    Funziona, per me pure più di Rolls Royce. Il personaggio mi resta comunque indigeribile.
  3. Eden di Rancore/Dardust
    Questi han puntato sull’impegno politico perchè gli mancava la canzone. Dubito paghi.
  4. Andromeda di Elodie
    Nel 2020 credo ci stia e lei è brava. A me il pezzo fa cagare.
  5. Tikibombom di Levante
    Fino ad ora il pezzo migliore e lei non è che mi faccia impazzire.
  6. Rosso di Rabbia di Anastasio
    Premio “ritornello dimmerda”. Non è l’unico problema eh.
  7. Fai Rumore di Diodato
    La prima Canzone di Sanremo™ che sento in questa playlist. Per molti è un bene, chi sono io per?
  8. Ringo Starr di Pinguini Tattici Nucleari
    Not my cup of tea, ma il testo è carino e tutto sommato se la sentissi in radio probabilmente non spegnerei
  9. NO GRAZIE di JUNIOR CALLY
    Ma perchè il caps lock? Perchè? Cmq un pezzo rap anonimo e cerchiobottista di cui aveva bisogno solo chi la musica non dovrebbe ascoltarla.
  10. Viceversa di Francesco Gabbani
    Dovrei chiedere a mio figlio, che è il target. La paura è che il ritornello potrebbe anche piacergli, ma con quella strofa la probabilità che ci arrivi è bassina. Brutta non direi, però.
  11. Come mia madre di Giordana Angi
    Sorvoliamo sul “questa chi è?” perchè non è l’unica che non conosco in playlist e l’ignoranza è al portatore come i libretti postali. La voce mi piace ed è la seconda Canzone di Sanremo™ , la SNAI manco quota che me la dimentichi subito.
  12. Baciami Adesso di Enrico Nigiotti
    Sono entrato nel blocco Canzone di Sanremo™? Possibile, cmq non credo ci fosse bisogno di un altro Biagio Antonacci.
  13. Dov’è di Le Vibrazioni
    Sono nel blocco, senti che sensazione di comfort. Però oh, questa tra le Canzoni di Sanremo™ al momento è la meglio per ampio distacco.
  14. Il confronto di Marco Masini
    Perchè Marco? Perchè?
    (Canzoni di Sanremo™ in rimontissima si portano a 6/14)
  15. Carioca di Raphael Gualazzi
    Se skippo è tipo barare, vero?
    Ad un certo punto, prima che diventi triste come un party di capodanno su Canale 5, c’è una linea di piano che per me ha fottuto da qualche parte.
  16. Sincero di Bugo/Morgan
    Non so, mi pare indiscutibile giochi un altro sport rispetto al resto pur trasudando sforzo di non risultare fuori contesto.
    Leggevo che sono ultimi, difficile stupirsi.
  17. Finalmente io di Irene Grandi
    Finalmente?
  18. Voglio parlarti adesso di Paolo Jannacci
    Se vedete due robe che rotolano in terra me le rispedite?
    Non che mi servano eh, è più una questione affettiva.
    (Canzoni di Sanremo™ report: 7/18)
  19. Il Sole ad Est di Alberto Urso
    Mi dite se almeno è cieco? Se no non si spiega.
    (Non rompetemi il cazzo, ho tanti amici ciechi. Canzone di Sanremo™, così anche nel 2020 la quota tenore è salva)
  20. Lo sappiamo entrambi di RIKI
    A questo punto la domanda è lecita: perchè 32 artisti di cui metà inutili? Per finire alle due di notte lo spettacolo? Boh.
    Nona Canzone di Sanremo™ su venti pezzi totali. Inizio ad essere preoccupato, le proiezioni a 2/3 dello spoglio le danno sotto.
  21. Gigante di Piero Pelù
    AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH
  22. Nell’estasi o nel fango di Michele Zarrillo
    Ho perso le parole o forse sono loro che perdono me (cit.)
  23. Niente (Resilienza 74) di Rita Pavone
    Solo cuori.
    E NON VOGLIO SENTIRE REPLICHE.
  24. Ho amato tutto di Tosca
    Ultime speranze per una rimonta impossibile della Canzone di Sanremo™ affidate a sta lagna. Butta male. 
  25. Per sentirmi vivo di Fasma/GG
    Qui è dove mi piglio gli insulti, ma io la salvo nonostante TUTTO. E vi dico di più, la conto come Canzone di Sanremo™.
  26. Tsunami di Eugenio in via di Gioia
    “Siamo figli di Steve Jobs e del T9”
    Salta traccia.
  27. Va bene così di Leo Gassmann
    Non so, Leo. Non sono convinto vada davvero bene così. Direi l’opposto, anzi. (Canzone di Sanremo™ +1)
  28. 8 Marzo di Tecla
    Tecla è un bel nome, non mi spingerei oltre. Poi oh, in confronto al monologo della Leotta questo pezzo è un trattato femminista.
  29. Due Noi di Fadi
    Stiamo chiudendo il recinto coi buoi ormai scappati. Canzone di Sanremo™ matematicamente sconfitta da questa edizione del Festival. A nulla serve questo colpo di reni di Fadi, che quindi potevamo pure evitarci.
  30. Il gigante d’acciaio di Gabriella Martinelli/Lula
    Dignitosissima fino al ritornello, poi va beh, è pur sempre una roba da cantare sul palco dell’Ariston.
  31. Billy blu di MARCO SENTIERI
    Ma perchè il caps lock? Ad ogni modo, le canzoni di denuncia fino a qui erano effettivamente poche, c’era da aspettarsela. Vorrei strapparmi le orecchie.
  32. Nel bene e nel male di Matteo Faustini
    La Canzone di Sanremo™ chiude a 14/32, una debacle pazzesca, ma in fondo “è solo un bene che ci faccia così male”.

Il 2019 di Manq

Fine anno, classico momento per tirare due somme. Oltretutto a questo giro finisce anche un decennio, quindi le somme da tirare sono anche più di due.
Dal 2010 ad oggi di cose, a voler guardare bene, ne ho combinate. Sono rientrato in Italia, ho preso un dottorato di ricerca, mi sono sposato, mi son trovato un lavoro a tempo indeterminato che tutto sommato mi piace, ho comprato casa, ho perso quasi quindici chili e ho messo al mondo due figli meravigliosi (ok, questo potrei non averlo fatto fisicamente io, ma ci siamo capiti). Un decennio decisamente positivo, nulla da dire. Un decennio in cui sono stato prevalentemente bene.
Eppure questo 2019 è stato l’anno in cui mi sono imbruttito.
Me ne rendo conto.
La spiegazione che mi sono dato è che… aspetta. Quel che segue è probabilmente un post di quelli che scrivevo nel decennio precedente, pieni di autoanalisi da quattro soldi e presa male gratis, quindi evitatelo. Davvero. Non è scritto per te.
La spiegazione, dicevo, che mi sono dato è che i due figli stupendi di cui sopra assorbano grandissima parte della mia pazienza. Il poco che rimane lo investo nel tentativo di non uccidere nessuno al lavoro e nei compromessi necessari alla vita di coppia. La cosa bella è che ho una moglie fantastica che 1) non usufruisce che di una porzione infinitesima della mia pazienza e 2) capisce quando non ne ho più e mi vuole bene anche se ogni tanto sbrocco.
Tutto ciò che sta fuori da questi tre ambiti, purtroppo, si becca un Manq a tolleranza zero e non è una bella cosa. Non lo è per chi mi sta intorno, ma non lo è nemmeno per me che di stare in mezzo alle persone inizio ad avere sempre meno voglia. Anche perchè vivo un quotidiano in cui tutte le interazioni si sono esasperate, estremizzate, e in ogni situazione c’è sempre qualcuno pronto a dirti quanto sei un coglione o ad insegnarti come si sta al mondo. 
Una volta abbozzavo. Serenamente. Magari mi spingevo nella discussione (senza il magari, son pur sempre quello che adora le discussioni), ma capivo piuttosto bene quando fermarmi e quando smussare. E lo facevo, di nuovo, serenamente. Oggi no.
Oggi mi trovo spessissimo a pensare “Ma perchè cazzo dovrei desistere dal mandare ‘sto tizio affanculo?” e l’unica risposta che ne esce è “per educazione” oppure, peggio, “per non incrinare il rapporto”. E sarò certamente io in un momento davvero passivo aggressivo della mia vita, ma ho l’impressione che a parti inverse nessuno si sia mai fatto questi scrupoli con me, quindi la vivo un po’ come essere in credito di 38 anni di diplomazia che nessuno sembra intenzionato a darmi indietro.
In più, come dicevo all’inizio, questo decennio è stato quello dei trent’anni che non è probabilmente il più divertente della vita, ma penso sia quello della realizzazione personale. Per me lo è stato.
E’ difficile guardare ai prossimi dieci anni con lo stesso senso di sfida o con la stessa fame di risultati. Anzi, è ovvio che prima o poi la vita inizi a chiedere conto anche delle rotture di coglioni che ci sono per tutti e che io, unicamente per fortuna, fino ad oggi sono riuscito a schivare. 
L’ho detto, mi sto imbruttendo.

Quest’anno ho ascoltato un po’ di dischi, qualcuno anche molto bello.
Li ho riassunti in una playlist di 12 canzoni, scegliendo per ogni mese quella più rappresentativa della fissa che avevo in quel momento.
Non è malissimo, la metto qui sotto.
Buon anno.

Stand-up comedy

Ultimamente sono abbastanza in fissa per sto tipo che si chiama Giorgio Montanini e fa stand-up comedy satirica.
La stand-up è un tipo di comicità molto diffusa nei paesi anglosassoni, che qui da noi è confinata ai margini del panorama comico. Per darvi un paio di riferimenti veloci: Louis CK fa tournè mondiali (viene a fare uno spettacolo a luglio a Milano, in inglese, e i biglietti sono esauriti in poche ore) e Ricky Gervais presenta spesso i Golden Globe.
In Italia abbiamo un altro concetto di comicità, completamente disallineato da questi modelli, ma qualcuno prova comunque a farla anche da noi. Su youtube si trovano video di diversi comici stand-up nostrani e nell’ultimo periodo ne sto vedendo più di qualcuno. Uno di cui si trovano diversi spezzoni è Daniele Fabbri ed è piuttosto divertente. Uno che invece ha pochissimi video su youtube, ma che a me in quelli ha fatto ridere parecchio è Luca Ravenna.
Quello però che mi ha proprio ribaltato è appunto Giorgio Montanini, con questo video qui.

L’ho rivisto ora, mi ha steso di nuovo.
La cosa bella di internet è che se trovi qualcosa che ti appassiona diventa abbastanza immediato approfondire la questione e così nelle ultime settimane ho investito parecchio tempo prima guardando spezzoni di suoi monologhi e poi estendendo ad interviste extra spettacolo.
Ho così scoperto che Montanini non solo è stato uno dei pionieri di questo genere comico in Italia, ma che è addirittura riuscito a portarlo in contesti generalisti. In TV. Quindi probabilmente sono l’unico ad averlo scoperto solo ora.
Ha avuto per due anni uno spettacolo su Rai Tre chiamato “Nemico Pubblico”, per esempio, che però è stato chiuso. Da lì lo hanno chiamato per fare le copertine comiche a Ballarò, dove è durato tre puntate, fino ad una collaborazione con le Iene per lo spazio di “Pregiudizio Universale”, anche quello chiuso prematuramente.
La cosa che reputo interessante è che quando nelle interviste gli hanno chiesto ragione di questa censura, lui ha prima precisato che non è censura, ma legittima scelta editoriale, e poi ha detto che il problema non è tanto suo, ma di chi non ha la forza di portare avanti l’idea di farlo esibire in TV e si trova a dover far marcia indietro subito perchè non abbastanza sicuro o spallato per insistere su un percorso che in origine pensava funzionasse.
Boh, niente, mi sembra un’analisi intelligente.

Metto qui sotto uno dei monologhi fatti per le Iene, prima che li chiudessero. A vederlo non mi risulta incomprensibile la decisione di staccare la spina, ma è evidente il problema non sia nè Montanini, nè l’editore. 
Il problema è il pubblico.

PS: Non è che qualcuno ha un paio di biglietti in più per Louis CK a Milano?

A grande richiesta: un pezzo sulla Juve

Venerdì stavo discutendo di calcio su whatsapp con alcuni amici. Gli strascichi della supercoppa italiana erano ancora freschi e, pur non trattandosi della più grande ingiustizia calcistica ogni epoca, per alcuni c’era materiale a sufficienza per gli ormai classici ricorrenti discorsi sulla rubentus.
Alla fine della discussione mi sono uscite un paio di riflessioni che sul momento mi sembrava interessante sviluppare, ma che non ero sicuro potessero portare a discorsi sensati e/o interessanti.
Quindi ho chiesto a Twitter.

Se avessi potuto votare, avrei votato “No, ti prego. NO.”, ve lo dico per onestà intellettuale. Ormai però il dado è tratto, quindi eccoci qui.

La Juventus è la prima squadra d’Italia: per fama (soprattutto recentemente), per tradizione sportiva (concetto su cui evito di soffermarmi), ma soprattutto per numero di tifosi. Wikipedia stima la tifoseria bianconera tra i 12 e i 14 milioni di italiani, 34% di share, ma il dato è del 2016 quindi potrebbe essere anche sottodimensionato, viste le continue vittorie e l’arrivo di CR7.
Son tante persone.
E’ chiaro che la fede calcistica sia in tutto assimilabile a quella religiosa, dove la percentuale dei “credenti non praticanti” è ormai molto superiore a quella dei true believers. Tifosi che non guardano le partite e che non sanno chi giochi nella loro squadra, di solito Juventini per tradizione familiare. Eppure, se ci pensate, è comunque una montagna di gente che vive bene, se non addirittura con orgoglio, il sentirsi parte di un’entità spesso associata a nefandezze e scandali di varia natura. NOTA: se non avete più ben chiaro se stia parlando della Juve o della Chiesa Cattolica è già un primo punto che dovreste segnarvi, perchè sto andando proprio a parare da quelle parti lì, ma non voglio correre.
Il 34% della popolazione, dicevamo. Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che tutte queste persone siano il nostro comune amico negazionista per cui il gol di Muntari non era entrato, quello su Ronaldo non era rigore, Mussolini Moggi ha fatto anche cose buone e comunque #eallorailPD #ealloraPerugia? Quelli sono la minoranza folkloristica con cui ci piace ed è giusto accanirci, ma non sono il problema. Il problema è la maggioranza “silenziosa”, quella che sa di supportare una società che ha piegato i valori sportivi al proprio potere, con mezzi leciti e illeciti, e che ancora oggi gode di questo sistema pur non avendone bisogno, forse addirittura suo malgrado. Questa la spiego meglio perchè detta così suona male. Avete presente, nei film o nelle serie TV, il malavitoso che giunto all’apice della ricchezza e del potere prova a “ripulirsi”, uscire dal giro dell’illegalità e costruirsi una nuova vita? Di solito passa per buono e invece è solo uno che ha barato per avvantaggiarsi sugli altri e poi pretende di godere dei frutti del vantaggio ottenuto da impunito. Come non fosse successo nulla, come fosse stato più bravo degli altri giocandosela ad armi pari. Ecco, la Juve oggi è chiaramente una squadra che per potere economico e per qualità di organico non ha più avversarie, in Italia. Potrebbe dominare giocandosela unicamente sul campo eppure, esattamente come capita ai malavitosi dei film e delle serie TV, non riesce a tranciare col suo passato, vuoi perchè ormai certe cattive abitudini sono radicate in lei al punto da essere inevitabili, vuoi perchè l’ambiente circostante continua a relazionarcisi sulla base di chi ha dimostrato di essere in passato e non di chi vorrebbe essere oggi. E’ più chiaro? Spero di sì.
E’ impossibile trascurare che, se il calcio è il passatempo principale del nostro Paese, è perchè sa essere specchio dello stesso. Come potrebbe essere altrimenti? Non serve guardare al calcio per comprendere che in Italia abbiamo un problema con la legalità, ma è illuminante (credo) fermarsi a fare qualche analogia.
Se c’è una cosa, su tutte, che trovo rivoltante della Juventus è la sua gestione della condanna ottenuta con calciopoli, in particolare la revoca degli scudetti. C’è una sentenza di tribunale che non solo la società decide di ignorare, ma che viene trasformata in un simbolo del proprio potere, del proprio essere sopra la legge e sopra le parti. Il meccanismo, ancora una volta, è quello del malavitoso che non solo gabba le istituzioni, ma se ne bulla tra la propria gente conscio di restare impunito. Si fa un continuo parlare del cattivo esempio che Gomorra darebbe ai giovani, ma il calcio promuove le stesse dinamiche, se ci pensate. 
E infatti così è: la società Juventus affigge scudetti revocati nel proprio stadio, a monito, e la FIGC non solo abbozza, ma manda la nazionale a giocare nello stesso stadio, legittimando di fatto questo comportamento e piegando la giustizia al volere del più forte. Esattamente come in Gomorra, non fosse che nel telefilm alla fine arriva sempre un proiettile a dimostrare che nessuno può farla franca a vita. A conti fatti, unico elemento di finzione della serie.
Quindi gli juventini sono tutti brutte persone? . No.
Qui è dove il pippotto si fa, forse, finalmente interessante.
Se parcheggi in divieto e prendi la multa, lo stronzo è sempre il vigile. Quando la Juve delegittima la giustizia sportiva, così come quando Berlusconi delegittima la magistratura, non sta “creando un precedente”, sta consolidando o se vogliamo istituzionalizzando un malcostume. E’ drammaticamente più grave.
Per i tifosi avversari prendersela con la Juventus e gli juventini è ormai la regola, ma basta addentrarsi un minimo in qualsiasi discussione da bar per comprendere come a farla da padrone non sia la voglia di giustizia, ma l’invidia. Ancora una volta, il meccanismo è lo stesso che ha portato i Grillini al potere gridando alla kasta e ai privilegi, se ci pensate.
Vincere rubando una partita di calcio non è un problema per nessun tifoso, il problema si pone solo se la possibilità di rubare viene data anche/solo ad altri. Qui il parallelismo è quello con le tasse, da cui è nata l’idea di questo post: l’Italia è il primo Paese europeo per evasione dell’IVA (ref.). Se è vero che non tutti coloro che possono evadere evadono, è certamente vero che non tutti coloro che non possono evadere resterebbero onesti gli venisse concessa la possibilità. Non possiamo fingere la differenza stia solo tra chi ruba e chi no, perchè è chiaro il meccanismo si fondi su tutti quelli che ruberebbero se potessero. Perchè, implicitamente, a questa larga fascia di pubblico non interessa sanare il sistema, ma solo riscattare la propria posizione di svantaggio, il proprio ruolo nell’ingranaggio. 
Io sono milanista. Ogni volta che guardo una partita del Milan contro la Juve finisco bestemmiando e con i bruciori di stomaco. Ogni volta. Non mi capita molto spesso, invece, di riflettere sul fatto che anche il Milan sia stato condannato ai tempi di calciopoli, che anche il Milan abbia favorito di un certo potere mediatico e societario negli anni addietro. Ultimamente noto costantemente il trattamento viscido che la stampa di settore ha nei confronti del Milan, ma dubito sia improvvisamente morto il giornalismo sportivo (anche se di certo non è migliorato). Più facile pensare che dieci anni fa la stampa fosse servile anche con noi e che io non me ne rendessi conto, o peggio, lo accettassi senza problemi.
Io sono milanista e credo nulla mi farebbe godere di più che vincere un derby con un gol irregolare o un rigore inventato. Io, quindi, sono parte del problema. Non sono una vittima. E forse dovremmo provare tutti quanti a chiederci che ruolo abbiamo in questa vicenda.
Il calcio è decisamente un fenomeno strano. Non c’è nulla di bello nel guardarlo, inteso come spettacolo: il campionato italiano è da tempo ormai dominato dalla tattica, le partite sono lente e stagnanti, mediamente di una noia letale. Senza quella componente emotiva ingiustificata data dal tifo credo mi sarebbe  impossibile approcciarlo ed è una cosa che per esempio non mi capita con l’NBA, di cui guardo le partite come puro intrattenimento.
E’ davvero come per la religione, forse sarebbe ora di razionalizzare e capire che vivremmo meglio senza. 
Magari però iniziate voi, sto giro. Io aspetto ancora un attimo.