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Febbraio 2018

Dalla parte giusta del populismo

Io ho lavorato nella ricerca scientifica dal settembre 2005 al gennaio 2014. Ho fatto gran parte del percorso accademico: tesi sperimentale, borsa di studio, dottorato di ricerca, post-doc; quasi nove anni di cui sette nel nostro amatissimo Paese.

Ancora oggi, quando parlo con alcuni colleghi, mi dicono frasi tipo: “Beh, io non sono rimasto in università. Io ho iniziato a lavorare subito.” e sul momento vengo sempre avvolto da quell’insana voglia di farmi esplodere in ufficio. Non è un discorso relativo solo alla mia azienda, ma generalmente diffuso nell’ambito extra-accademico quando si parla di “lavoro di ricerca”.
Io non sono mai stato Stachanov, ho sempre avuto la grossissima fortuna di avere interesse nella mia vita fuori dal lavoro e, soprattutto, non sono mai stato affascinato dal poserismo da straordinario che prende moltissimi giovani ricercatori.
– Sai, io lavoro fino alle dieci di sera.
– Ah, non me lo dire, ieri notte ho dovuto correre un esperimento che finisce giusto giusto sabato pomeriggio. Poi domenica analizzo i dati.
Tutte seghe.
La mia esperienza personale rispetto a chi fa turni di 12-15 ore in laboratorio sette giorni su sette è che sia spinto da un mix di, appunto, autocompiacimento e disorganizzazione. Lavorare libero da orari permette di impiegare 12 ore a fare una cosa che si farebbe in 8 solo perchè nessuno ti fucila se stai la notte al bancone, che tanto sei fuori casa/città/Paese, conosci poche persone e non hai una beneamata minchia da fare. Fermarsi fino a tardi può capitare in tutti i lavori. Se ti capita sempre, il problema sei tu. Fact.
Detto questo, io mi sono sempre fatto un discreto mazzo al lavoro e credo per una volta i risultati siano lì a disposizione degli scettici. Ho sempre vissuto in realtà produttive, dove pubblicare i risultati era importante, dove produrre dati era importante, quindi sentirmi costantemente associato all’idea piuttosto stereotipata del laboratorio come luogo di fancazzismo, lontano anni luce dal concetto di lavoro, mi irrita anche ad anni di distanza.

Il mio “nuovo” lavoro tuttavia mi mette a contatto con tutte le realtà italiane che si occupano di ricerca scientifica: da quelle dove si lavora tanto e bene a quelle dove, oggettivamente, vengono buttati via soldi pubblici.
Di nuovo, non ne faccio una questione di orario di lavoro. Posto che lavorare a progetto abbia l’indiscusso vantaggio di lasciare grandissima flessibilità nella gestione del tempo, io non mi incazzo con i ricercatori borsisti che lavorano sistematicamente dalle 10 alle 16. Prendono uno stipendio da fame con contratti rinnovati ogni sei mesi tra mille patemi d’animo ed imprevisti quindi, sapete cosa, fanno bene. Il problema è se in quelle sei ore (colazione, caffè, sigarette e pausa pranzo comprese) non si è professionali.
Mi capita di prendere aerei o treni per presentarmi ad appuntamenti fissati in largo anticipo e, arrivato sul posto, sentirmi dire “No, oggi non posso / La dr.ssa non c’è / Avevamo un appuntamento?”. Da questa situazione ho capito una cosa: non è un problema di educazione. Non solo, almeno.
Chi da un valore al proprio tempo, chi sa cosa significhi lavorare, impara immediatamente a non sprecarlo e diventa, contestualmente, sensibile al non voler sprecare neanche quello altrui. Chi al contrario non contempla ci sia un investimento di risorse dietro al lavoro degli altri è solo chi  in primis non valuta prezioso il proprio tempo. Quindi chi ne ha da perdere.
E’ una statistica che non teme smentite, fatta su un campione molto vasto. Al netto dell’inconveniente che capita a tutti e dello stronzo che lo fa apposta perchè in qualche modo si sente in diritto di mancarti di rispetto, il resto rientra nella casistica dei nullafacenti col camice. E sono tanti, troppi per un Paese che di fondi ne ha così pochi.

Come si è arrivati a questo?
Io non ho una risposta che giustifichi la totalità del fenomeno, ma ho certamente una spiegazione a parte del problema. In Italia fare ricerca è diventato un hobby.
Torniamo al sottoscritto. Io sono rimasto in laboratorio fino a 33 anni. Ero già sposato, quando ho mollato. Avevo già un mutuo (sebbene più piccolo di quello attuale), quando ho mollato.
Non avrei potuto farlo se non avessi alle spalle una famiglia che mi ha permesso di arrivare a quel punto, aiutandomi economicamente ad emanciparmi. Sono stato fortunato quindi, ma comunque non avrei potuto permettermi di restare in laboratorio ancora, certamente non oggi che ho due figli. Anche perchè in casa eravamo in due a fare ricerca.
Una prima selezione quindi la fa la possibilità economica di continuare ad investire ad oltranza in un sogno privo di prospettive tangibili.
La seconda selezione la fa il merito, ma in negativo. Siamo uno dei Paesi in cui il lavoro di ricerca è pagato meno, ma viviamo in un contesto globale in cui i propri dati ed il proprio CV sono disponibili ovunque nel mondo. Chi vale e riesce a dimostrarlo con i risultati ha mercato e, ovunque provi ad andare, trova gratificazioni economiche che in Italia non avrebbe. Quindi, 7 volte su 10, parte.
Non starò a fare pipponi sulla fuga di cervelli, ma questa è la situazione. La ricerca Italiana seleziona chi può permettersi di campare con 1000 euro al mese  (se va bene) e simultaneamente non ha la possibilità di andarsene via, per scelta di vita o perchè non è bravo abbastanza.
Non è un problema unicamente di fondi, è un problema di risorse umane che certamente ha avuto origine dalla mancanza di fondi, ma che ora è parte integrante del degrado. Gente che da vent’anni sta i laboratorio senza una minima spinta produttiva o professionale, che ha scelto questa carriera perchè offre orari comodi per andare a prendere i figli a scuola (non sono necessariamente donne, pare stupido precisarlo, ma ecco.). Non ho nulla contro queste persone, contro la loro scelta di vita e nemmeno contro il loro concetto di lavoro, se questo non fosse in un ambito finanziato coi soldi di tutti e, soprattutto, in costante mancanza di risorse economiche.

Per questo spesso dico che io non voglio che la ricerca nel nostro Paese riceva più fondi. Io voglio che venga riformata. Gli stessi soldi, distribuiti meglio e in base al reale merito invece che poco a tutti, farebbero già fare un salto di qualità al sistema.
Il dramma vero è che la ricerca ed i suoi finanziamenti, così come temo la scuola (realtà che trovo assimilabile pur non conoscendola da dentro) sono diventati unicamente un simbolo da brandire ai comizi, vuoto, un po’ come “prima gli italiani” o “basta tasse”. Fatichiamo ad accorgercene perchè a gridarlo siamo spesso noi che quegli slogan li critichiamo.
Noi che siamo dalla parte giusta del populismo.

La macchina nello spazio

Ultimamente non è che mi venga facilissimo avere fiducia nell’umanità. Tra fascisti che sparano per strada, leader mondiali che parlano ogni due per tre di arsenale atomico e idioti che vorrebbero farci tornare all’epoca buia delle epidemie diventa davvero difficile pensare positivo.
Eppure ieri per qualche ora sono rimasto a guardare affascinato l’ultima dimostrazione di quanto l’uomo possa essere capace di grandi imprese. E’ stata una bella pera di fiducia nella nostra specie, che ha avuto il suo culmine grossomodo in questo momento:

Ieri è stato lanciato il Falcon Heavy, il razzo progettato da SpaceX che punta a rivoluzionare le missioni spaziali future, sia in termini di capacità di carico, che di destinazione, che sopratutto di costi visto che il grosso del progetto sta nel rendere il vettore “riutilizzabile”.

Io non so dire se Elon Musk sia un genio, certamente è una persona fuori dal comune con una visione fuori dal comune. Una visione che, a voler ben guardare, io probabilmente non capisco visto che si parla di salvare il pianeta.
Non credo di essere una persona particolarmente egoista, eppure questa cosa del benessere della Terra non riesco proprio a farmela piacere. Io sono per il benessere degli uomini nel presente, con una prospettiva a lungo raggio che può arrivare al massimo a 100, 150 anni da oggi (solo perchè ho dei figli e spero di avere dei nipoti). Trovo giusto fare tutto il possibile, anche e soprattutto ridefinendo il concetto stesso di possibile, per migliorare le condizioni di vita attuali. Per ogni singolo essere umano, ovviamente, il che è un traguardo già abbastanza utopistico, senza necessariamente proiettarlo in avanti di migliaia di anni.
Se eliminare la malnutrizione nel mondo OGGI accorciasse di un milione di anni la stima di vita sul pianeta (che pare stia intorno al miliardo e mezzo di anni) e la scelta dipendesse da me firmerei senza alcuna riserva.
Non so se sia una prospettiva miope la mia, probabilmente è così, ma credo che l’intervento dell’uomo stia compromettendo il futuro del pianeta con uno scopo condivisibile, ovvero l’aumento della qualità della vita. Non dico che il metodo sia perfetto: non c’è egualità nell’accesso alle risorse che creiamo, e il processo è viziato da interessi che nulla hanno a che fare con il benessere di tutti, ma al netto di queste situazioni il progresso c’è ed è costante. Forse è più lento di quel che potrebbe essere, certamente è meno “giusto” di quanto dovrebbe essere, ma c’è.

Ok, m’è scivolato il pippone, il post è nato per celebrare una roba figa fatta da gente figa che non è solo brava in quel che fa, ma lo è ancora di più nel comunicare quel che fa. Perchè se vuoi cambiare il mondo, saper parlare ai sette miliardi di persone che lo popolano credo sia utile.

Quindi, tirando le somme, l’uomo ha lanciato un’automobile nello spazio.
Lo ha fatto unicamente come mossa di marketing a supporto di un test per una tecnologia missilistica che vuole cambiare il modo di pensare i viaggi nello spazio e che, se quel che abbiamo visto ieri è solo un antipasto, è probabile ci riesca pure.
Guardando la diretta è stato bello sentire la gente che applaude, che fa insieme il count down, perchè piccola o grande che sia parliamo di una conquista dell’uomo e queste conquiste hanno il dovere di unirci e ricordarci che sappiamo fare anche qualcosa di buono.

Once upon a time #4

Ci sono cose la cui grandezza è determinata dal fatto di essere spartiacque.
Ci pensi e puoi immediatamente definire un prima e un dopo che in condizioni “normali” sarebbero separati da un lungo percorso di evoluzione e che invece hanno in mezzo solo una scintilla, un piccolo evento capace da solo di stravolgere lo stato delle cose e innescare un cambiamento radicale.
Il cambiamento può non essere duraturo, la svolta può venire riassorbita negli anni, ma non sarà mai possibile dimenticare quando c’è stata e cosa ha comportato.
I Video Music Awards di MTV sono stati lo show musicale più rilevante nel mondo per almeno dieci anni. La musica come spettacolo celebrata attraverso la massima espressione del concetto, ovvero i premi ai videoclip.
Fino a quando è durata (non ho idea se esistano ancora, per dire, ma scommetterei sul no) sono stati un costante tentativo di fare le cose in modo sempre più grosso e spettacolare, senza omettere quella voglia tutta americana di “dare scandalo” con provocazioni all’acqua di rose che però infilate nel gigantesco megafono dell’evento riuscivano a far parlare i giornali per giorni.
Da Madonna che “bacia” Britney Spears e Christina Aguilera (ref.) fino a Miley Cyrus e Robin Thicke (ref.) tutta roba abbastanza innocua, buona giusto a far venire il prurito ai ragazzini e a far parlare l’america conservatrice.
Nel 2009 un artista riuscì a ribaltarne i paradigmi e simultaneamente mettere un punto fermo alla questione, arrivando dove nessuno prima di lei e ponendo l’asticella ad un’altezza irraggiungibile per tutto quello che sarebbe stato dopo, compresa se stessa (ref.).

Once upon a time nasce come rubrica di manq.it che racconta momenti che hanno fatto la storia della musica. O forse la storia in generale.
L’uscita di Once upon a time #5 è da considerarsi una missione, perchè lo scopo di questa rubrica ormai è proseguire fino a quando finalmente troverò il video di Madaski al Roxy Bar.