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Film

La zona di interesse

Sul finire dell’anno scorso ero andato a vedere il film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”, spinto dalla Polly. Alla fine, come capita spesso, avevo scritto nella chat che ho con alcuni amici per parlare di cinema e serie TV cercando un confronto perchè, pur avendolo trovato un bel film, non ero nelle condizioni di dire che mi fosse propriamente piaciuto.
Così usai una metafora:

Ecco, ieri ho visto “La zona di interesse” e posso confermare che la sensazione era davvero quella.

Direi che di un film come “La zona di interesse” si può tranquillamente parlare senza necessità di SPOILER alert, ma siccome non posso mai essere sicuro del livello di disagio di chi legge premetto che sì, potrei inserire commenti relativi a quello che succede nel film e che, incidentalmente, è quello che è successo ad Auschwitz negli anni ’40 del secolo scorso.
Ad essere del tutto onesti però io sono uscito dalla sala piuttosto convinto che i nazisti in questo film siano semplicemente un pretesto, l’estremizzazione necessaria a far passare un concetto più trasversale e attuale, che ha a che fare con l’etica, il lavoro e la ricchezza. Andiamo però con ordine.
Il film ci racconta la vita della famiglia di Rudolf Höß, comandante SS a capo del campo di concentramento di Auschwitz, vita che si svolge in una casa costruita appena oltre la recinzione del campo, in quella che fu definita appunto “zona di interesse”. Il tema è semplicissimo: illustrare come per quelle persone fosse possibile condurre un’esistenza normalissima nonostante si trovassero a pochi metri da un luogo infernale di morte e disumanità che non smetteva mai, nemmeno per un secondo, di palesarsi tale. Il film trasmette questo messaggio in maniera potentissima con il suono e con le immagini, ma riesce a far percepire chiaramente come anche altri sensi che non possono essere coinvolti dal mezzo cinematografico fossero costantemente esposti all’evidenza, su tutti l’olfatto. Eppure anche noi spettatori, pur costantemente investiti dal “rumore di fondo”, tendiamo ad abituarci durante la visione e filtrare quelle frequenze, dopo un po’, realizzandolo solo quando il rumore per qualche motivo cessa. Sotto questo punto di vista davvero un lavoro egregio, che effettivamente merita di essere goduto in una sala cinematografica.
Come dicevo prima però la cosa che più mi ha colpito di questo film, il suo lascito nella mia testa, è che di massima ci presenta una persona brava nel suo lavoro, che fa carriera e grazie a questo eleva il suo stato sociale. Con lui, una moglie che gode di questa ricchezza e che non ci vuole rinunciare. Nessuno dei due è ignaro di cosa ci sia alla base di quel lavoro e di quella ricchezza, ma come ci si abitua alla vista del fumo delle ciminiere, all’odore dei corpi bruciati e al suono degli spari, ci si abitua anche all’idea di essere ricchi sulla pelle degli altri.
L’idea del film però non è normalizzare dei mostri, attenzione.
L’idea è (credo) sottolineare come la soglia della nostra disattenzione selettiva sia labile e possa essere alzata fino ai livelli estremi di chi viveva nella Zona di Interesse. Saremo sempre disposti a fare qualcosa di brutto agli altri per ottenere qualcosa di bello per noi, quanto brutto e quanto bello dipende ovviamente da noi, ma non ci sarà mai un limite alla nostra capacità di non vedere quello che stiamo facendo. In questo senso ho trovato davvero “bellissime” tutte le scene in cui Rudolf è mostrato al lavoro, perchè sono costruite appositamente per non risultare diverse dalle riunioni aziendali di nessuno di noi: processi, ottimizzazioni, progetti, scadenze e obbiettivi. Tutte cose normalissime se non ci si sofferma a riflettere sul fatto che siano destinate allo scopo di sterminare un popolo. Ovviamente l’esempio è estremo, ma quanti di noi lavorano tutti i giorni per alimentare una macchina socioeconomica che, di fatto, si fonda sul mantenere un certo numero di esseri umani in condizioni di povertà? Ve lo dico io: tutti.
Adesso vi racconto il finale del film, paro paro.
Rudolf, felice di poter tornare a fare quello che sa fare meglio (ottimizzare processi di sterminio) e di tornare a vivere con la propria famiglia nella Zona di Interesse, scende una rampa di scale. Ad un certo punto si ferma e ha dei conati di vomito. Il film ci spiega, con una scelta di immagini e montaggio molto bella ed efficace, che per un secondo la consapevolezza lo investe. Un uomo che “non ha alcun problema a dormire la notte”, nonostante il lavoro che fa, per un breve momento è sopraffatto dal peso delle proprie azioni e delle proprie scelte, di cui non è mai stato inconsapevole nè genuinamente ignaro.
Poi gli passa e continua a scendere le scale verso l’oscurità.
Come nulla fosse.

Boh, forse sono io che ultimamente ho un po’ il tarlo per questo argomento e probabilmente questa lettura arriva dal fatto di avere in testa il tema già di mio, ma sono seriamente convinto che guardare questo film e fermarsi al fatto che parli di nazismo è perdere l’occasione di riflettere su quanto siamo capaci noi tutti, ogni giorno, di non sentire i rumori che arrivano da oltre il muro che abbiamo creato a protezione del nostro privilegio.

Madonna che pistolotto che ho sparato sto giro.


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Buoni propositi 2024: Febbraio

A fine anno scorso ho deciso che per la prima volta avrei stilato una lista di buoni propositi da provare a centrare in questo 2024. Siccome mi conosco e so di essere particolarmente incapace nel portare a termine qualsiasi piano sul lungo periodo, specie se richiede sacrifici, ho anche deciso che mensilmente avrei esposto i progressi conseguiti in maniera trasparente ed onesta su questo blog. Non perchè la cosa interessi davvero a qualcuno, ma perchè forzarmi ad una rendicontazione pubblica mi impedisce quantomeno di fingere di essermi dimenticato dell’impegno.

Sono passati due mesi, alcune cose bene e altre malissimo. Vediamo.

Voglio ridurre la mia dipendenza dal telefono.
La situazione continua ad essere in salita. Mi sembra di usarlo meno, ma non poco quanto vorrei. Le statistiche del telefono non aiutano più di tanto a tenere traccia dell’utilizzo, ma da quel poco che ne viene fuori direi che non sto facendo chissà quali progressi. Se non trovo una strategia concreta, fatta di azioni tangibili, mi sa che non ne esco.

Voglio prendere l’abitudine di fare attività fisica 3 volte alla settimana.
Sul piano dell’allenamento continuo incredibilmente a tenere botta e ad essere in linea coi miei programmi. Sono passato al programma successivo del mio tapis roulant e l’ho potenziato, seguendo lo stesso schema di crescita del mese scorso. Le volte che ho corso col programma enhanced sono marcate con * nello schemino qui sotto. Le gambe sembrano tenere, le pulsazioni iniziano a regolarizzarsi, ma ancora faccio davvero poco in termini di percorrenza e prestazioni, siamo a 3.2km su 25 minuti. E’ tuttavia fondamentale non farsi male e non perdere la voglia, quindi procedere per step ed incrementi sequenziali è una strategia giusta.

Voglio perdere qualche chilo. Diciamo 7-8.
Incredibilmente, anche su questo fronte si continua a procedere bene. I kg persi a fine Febbraio sono 6 in totale, -1,5 da inizio mese, cosa che mi proietta a poco più di 2kg dall’ipotetico traguardo. Questo mese però ho anche fatto i controlli annuali per la tiroide e mi sono stati aumentati i dosaggi dell’Eutirox, cosa che probabilmente sta contribuendo alla perdita di peso visto che sto mangiando in maniera più controllata, ma senza fare una vera e propria dieta. Se continuo così, potrei decidere di rivedere il traguardo al ribasso, ma cerchiamo di non farci prendere la mano da facili entusiasmi.

Voglio chiudere un pop shove it e/o un ollie in skate.
Disastro totale. Mio figlio è uscito da quei due mesi di passione sfrenata in cui era finito tra Novembre e Gennaio e io, senza di lui, di massima non prendo in mano lo skate. E’ un peccato perchè credo davvero con un po’ di impegno e costanza potrei farcela o per lo meno andarci vicino, ma non così. In tutto il mese non sono mai salito sullo skate, se non rimedio a Marzo probabilmente perderò i pochi progressi fatti in precedenza. Vicino a casa dovrebbero inaugurare uno skate park più comodo di quello di Agrate, magari mi aiuterà. Molto pessimista, al momento.

Voglio andare almeno 6 volte al cinema (+2 rispetto al 2023).
La prima volta l’abbiamo timbrata, sono andato a vedere Argylle. Ne ho letto malissimo, ma io per due orette mi sono anche divertito nonostante sia il primo a sapere che è un film pieno di difetti. Ho altre cose nel mirino, per l’anno, ma non so quando/se usciranno al cinema. Per il momento siamo in media con l’obbiettivo, quantomeno.

Voglio tornare a vedere almeno 12 concerti (+4 rispetto al 2023).
Con febbraio mi sono portato a 3, quindi bene bene.
Brevemente sui due che ho visto:
– Deafheaven @ Live (Trezzo). Ci sono andato perchè ero curioso di sentire live i pezzi del disco nuovo (Infinite granite) e non li hanno suonati. Non bastasse, si sentiva di merda ed erano di spalla a tali Knocked Loose, seconda band di sempre capace di farmi uscire a metà di un concerto (costato neanche poco, oltretutto). Non il concerto della vita, ma loro sempre belli da vedere.
– Cabrera release party @ La Tenda (Modena). Io ho il cuoricino gonfio d’amore per i Cabrera e nell’occasione presentavano il disco bello bellissimo che hanno cacciato fuori post reunion. Di spalla i Quercia in semi acustico, a cui continuo a volere bene nonostante cerchino costantemente di farmi incazzare, e i Morningviews di Rob che dal vivo mi son piaciuti davvero un botto. E’ stato molto molto bello, felice di essermi fatto la vasca.

Voglio finalmente riuscire a (ri)fare il rifugio Quintino Sella.
Questa è on hold per ovvi limiti climatici: non si possono fare 3 ore di arrampicata fino a 3600 metri di altezza quando c’è la neve ed il rifugio è chiuso. Ho iniziato a sondare il periodo di apertura, però, e quest’anno sarà limitato alla finestra che va da da metá Giugno a metá Settembre, cosa che complica un filo la questione. Va pianificato per bene.

Voglio chiudere/congelare qualche account social.
Sto usando twitter un pochino meno, no?

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Buoni propositi 2024: Gennaio

A fine anno scorso ho deciso che per la prima volta avrei stilato una lista di buoni propositi da provare a centrare in questo 2024. Siccome mi conosco e so di essere particolarmente incapace nel portare a termine qualsiasi piano sul lungo periodo, specie se richiede sacrifici, ho anche deciso che mensilmente avrei esposto i progressi conseguiti in maniera trasparente ed onesta su questo blog. Non perchè la cosa interessi davvero a qualcuno, ma perchè forzarmi ad una rendicontazione pubblica mi impedisce quantomeno di fingere di essermi dimenticato dell’impegno.

Dopo i primi 30 giorni, eccoci a fare i conti con la realtà.

Voglio ridurre la mia dipendenza dal telefono.
Ci sto provando, ma ammetto che la strada è parecchio in salita. La strategia con cui ho pensato di portare a casa il risultato mi richiedeva di implementare essenzialmente due azioni:
1) mettere il telefono fisicamente in un’altra stanza da quando rientro dal lavoro fino a quando vado a letto
2) forzarmi a non prendere MAI in mano il telefono in auto.
Al punto uno mi sono attenuto per qualche giorno nell’immediato post vacanze di Natale, ma la mancanza di una vera routine dovuta un po’ alle trasferte e un po’ all’alternanza tra ufficio e home working ha fatto saltare il banco abbastanza in fretta. Col punto due è andata grossomodo uguale perchè la app di streaming musicale che utilizzo si incarta ogni due per tre quando collegata al bluetooth e va riavviata, ma soprattutto perchè in macchina ci sto principalmente all’ora di punta e durante le code mi viene tuttora automatico (purtroppo) afferrare il telefono e iniziare a scrollare. C’è da dire però che questo proposito che mi sono dato mi fa rendere conto del problema ogni volta in cui lo faccio e quindi, a differenza di prima, riesco a rimettere quasi subito giù quello strumento maledetto dicendomi: “Smettila idiota”. E’ un primo passo per la disintossicazione, ma non è ancora sufficiente. Se riuscissi a cementare queste due abitudini poi potrei concentrarmi sull’eliminare l’utilizzo del telefono a letto prima di dormire. Qui c’è davvero tanto da lavorare, ancora.

Voglio prendere l’abitudine di fare attività fisica 3 volte alla settimana.
Oh, qui sono partito bene. Conscio di sapermi attaccare ad ogni possibile scusa per evitare di mantener fede al programma, mi sono preso un tapis roulant che ho montato in taverna nell’ufficio di mia moglie. Non è uno di quei modelli da migliaia di euro, ovviamente, ma fa il suo e ha anche una trentina di programmi precaricati che aiutano chi come me deve costruire un’attività sportiva da zero (non per dire eh, non faccio sport con regolarità dalle scuole medie.). Ci sono ad esempio 10 programmi dedicati a chi vuole bruciare calorie e sono partito da quelli. Non dal primo, per una mera questione di autostima, ma dal numero due. Dopo un paio di settimane l’ho “potenziato” aumentando leggermente i tempi nell’ottica di avvicinarmi al programma successivo, a cui dovrei passare da Febbraio. Le volte che ho corso col programma enhanced sono marcate con * nello schemino qui sotto.

Corro la mattina alle 6:30 e devo dire che questo cambio di ritmo di vita, sostanziale, al momento mi ha portato grande benessere. Dormo di più e meglio, inizio la giornata più carico e mi sento mentalmente meno appesantito. Di contro, durante ogni singola sessione di corsa rivaluto la morte.
Come si può vedere nello schemino, sto anche andando a skateare, ma ci torniamo dopo.

Voglio perdere qualche chilo. Diciamo 7-8.
La bilancia dice che in un mese ne ho persi 4, ma è una pia illusione. Un po’ perchè il mio peso iniziale post vacanze di Natale non è, grazie a dio, il mio peso “forma” e quindi almeno un paio di chili li avrei comunque persi tornando ad un’alimentazione normale e senza fare nient’altro, un po’ perchè quando si inizia un percorso di perdita peso i primi chili che si buttano giù sono essenzialmente di liquidi e sono abbastanza semplici da smaltire. Il grosso del casino è continuare la discesa.
Va anche detto che non mi sono messo propriamente a dieta, non come ai tempi della dieta di Sparta del 2018 in cui persi 15 chili in sei mesi (ripresi tutti in lockdown). Ho solo rimesso un po’ a posto il mio piano alimentare settimanale stando attento a quanto mangio e a cosa mangio. Unica vera rinuncia è la birretta serale, che per me e mia moglie sarebbe tranquillamente abitudine quotidiana, per il resto è davvero solo prestare attenzione e mangiare in maniera più ordinata perchè, so che sembra incredibile, ma non siamo due persone che mangiano tanto o che pasticciano regolarmente.
La speranza è che continuando con l’esercizio e la dieta attenta, una vera e propria dieta ferrea non serva.

Voglio chiudere un pop shove it e/o un ollie in skate.
Non ce la farò mai. Io però ci continuo a provare perchè il pop shove it per me è come l’utopia di Galeano. Intanto sono migliorato molto nella confidenza con cui sto sullo skate e questo già non è male. A skateare vado principalmente nel corsello dei box insieme a mio figlio, cosa che mi rende sostenibile la pressione sociale di farmi vedere sopra uno skate dai vicini di casa, oppure allo skate park di Agrate (indicato con P nello schemino sopra) che però è piuttosto scomodo logisticamente. Questi ritmi di allenamento, associati alle mie doti atletiche e al senso di paura che si prova a 42 anni, rendono le possibilità che io riesca nell’intento davvero prossime allo zero, ma non voglio mollare. Guardando un po’ di tutorial ho compreso il movimento e ormai riesco abbastanza bene a “scoopare” la tavola nel modo corretto perchè compia la rotazione voluta, solo che saltando non ci finisco sopra se non con un piede, credo perchè istintivamente l’altro cerchi l’asfalto per mettermi in sicurezza. Ho visto che aiuterebbe provare il movimento attaccati con le mani ad una ringhiera, ma non ne ho una che faccia al caso.

Voglio andare almeno 6 volte al cinema (+2 rispetto al 2023).
Sto ancora a zero. Avrei voluto vedere Adagio, ma ho scoperto fosse uscito solo dopo che l’avevano tolto dalle sale che mi stanno in zona. Adesso ho nel mirino Argylle, vediamo se riesco.

Voglio tornare a vedere almeno 12 concerti (+4 rispetto al 2023).
Dodici concerti sono un concerto al mese e a Gennaio sono riuscito a stare in media, beccando i The Singer is dead live a Busto Arsizio il 26/01. Concerto figo, loro bravi come sempre. Il disco nuovo è uscito a fine 2023 e non l’avevo ascoltato abbastanza da metterlo tra i top dell’anno, ma è davvero figo e in questo gennaio l’ho abbastanza tritato.
Questo proposito mi ha rimesso nel mood di stare vigile per le date che capitano in zona e oggi ho tipo 5 concerti segnati in agenda per i mesi futuri. Credo non mi capitasse dal 2019.

Voglio finalmente riuscire a (ri)fare il rifugio Quintino Sella.
Questa è on hold per ovvi limiti climatici: non si possono fare 3 ore di arrampicata fino a 3600 metri di altezza quando c’è la neve ed il rifugio è chiuso. Se ne riparla in primavera inoltrata.

Voglio chiudere/congelare qualche account social.
Prima di scrivere questi propositi avevo deciso di congelare Threads, poi ho fatto lo stesso con Blue Sky. Non credo di riuscire a staccarne altri, ma va detto che tantissimi tra i profili che seguivo e con cui interagivo hanno mollato X Twitter quindi potrei iniziare ad usare meno anche quello. Al momento però non riesco ad immaginarmi senza.

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Ti mansplaino Barbie

Al di là del titolo clickbait wannabe, direi di partire da una doverosa premessa: sono un maschio bianco etero cis, quindi se ritieni che questo mi escluda dalla possibilità di trattare nel merito un film come Barbie, fermati serenamente qui. Davvero. Non mi interessa che tu legga quanto segue e, se potessi, te lo impedirei io stesso.

Ieri sera sono andato a vedere il film di Barbie mosso da un certo hype. Ero convinto infatti che l’unico motivo per poter uscire in sala con un film sulla Barbie nel 2023 fosse averci messo dentro qualcosa di interessante e/o controverso, quindi ho deciso scientemente di ignorare qualsiasi fonte ne parlasse prima di averlo visto e tenermi così la sorpresa per la visione. La cura che di solito si mette nell’evitare spoiler, io l’ho messa nell’evitare le opinioni, che sono effettivamente l’unico spoiler possibile, nel caso specifico.
La prima reazione a caldo post visione è stata che non ci fosse in realtà molto da dire, perchè l’ho trovato davvero urlatissimo nella metafora e di solito quel genere di mancanza di sfumature non si presta poi molto all’analisi. Poi però ho scambiato i primi commenti con due o tre amici e mi sono reso conto che quella che per me era davvero l’unica possibilità di intendere il film, fosse in realtà tutt’altro che univoca e che quel che ci ho visto io, forse, ce l’avevo visto solo io.
Allora la situazione cambia e scriverci su può avere un senso, anche se mentre lo faccio mi sembra di indossare la tutina di Capitan Ovvio.

Il film ci presenta un mondo in cui il potere dominante è nelle mani delle Barbie e Ken è solo un accessorio. In questa sottilissima e velatissima metafora, quindi, Barbieland è il patriarcato e Ken sono le donne. Ken non ha un ruolo sociale oltre lo stare intorno a Barbie, ma ha anche come unica aspirazione quella di essere amato/considerato. Il Ken di Gosling prende coscienza della propria condizione e si ribella. Quindi Ryan Gosling interpreta il femminismo.
Bene, vediamo allora cosa succede a Ken nel corso del film. Parte con la migliore intenzione di rivendicare una propria identità, poi vira ad un bersaglio più grande cercando di rovesciare gli squilibri di potere invece di annullarli e finisce col perdersi malamente. Non solo. Si perde perchè le Barbie sono troppo furbe e compatte, tanto da riuscire a convincere Ken che il problema non sono più loro, ma gli altri Ken. Così la rivoluzione di Ken fallisce in uno scontro fratricida e Barbieland torna come prima, con la differenza che le Barbie hanno capito di dover concedere qualcosina ai Ken per tenerli al loro posto. Cito a memoria:

Barbie: “Ora sono di nuovo Presidente!”
Ken: “E noi potremo far parte della corte Suprema!”
Barbie: “Beh no, quello mi sembra eccessivo…”
Ken: “Potremo almeno fare i giudici?
Barbie: “…”
Ken: “Potremo almeno indossare la toga?”
Barbie: “Quello sì.”
Ken: “EVVAI!”

Alla fine Ryan Gosling è felice perchè ha perso la guerra, ma può indossare la maglietta con lo slogan “I am Kenough” che poteva tranquillamente essere “Pensati libero“.
Questa è l’ossatura principale del film, che è poi stata appesantita di una quantità eccessiva di ulteriori orpelli ridondanti e pesantissimi, a partire dal siluro finale sparato in faccia allo spettatore come una sorta di cura Ludovico, ma che comunque prova a sottolineare un concetto già scritto a caratteri cubitali in rosso.
L’unico spunto carino, forse, è quello del CDA Mattel composto da soli uomini come creatore dell’universo Barbieland, a ribadire (ancora) come il sintomo più grave del patriarcato sia l’incapacità di vedere un modo paritetico, non tanto l’avere sempre e solo l’uomo al vertice della piramide. 
Di massima comunque rimane un filmetto divertente, in cui ho più volte riso (probabilmente per i motivi sbagliati), ma che si lascia apprezzare al massimo per uno spiccato cinismo di cui, onestamente, io non sentivo tutto questo bisogno. 
Adesso però vado a recuperare un po’ di articoli in giro, perchè voglio provare a capire cosa ci sia di tanto chiacchierato/chiacchierabile dietro alla faccenda.

Ah, dimenticavo! Nel film c’è anche Allan, che non è nè Ken nè Barbie.
Non importa se il potere ce l’avrà Barbie o Ken, la costante sarà comunque che di Allan non fregherà mai un cazzo a nessuno. 


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Il film di D&D

È uscito Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri e ieri l’ho visto al cinema.
Per me la miglior trasposizione possibile di una sessione di D&D che giocherei con gli amici, quindi adesso facciamo che metto qui il trailer e chiudo la parte spoiler-free, poi sotto al video ne parlo in dettaglio.
Andate a vederlo al cinema, vi prego, perché voglio ne escano almeno altri dieci.

Se fai un trailer in stile honest trailer è già abbastanza chiaro il livello di strizzatina d’occhio a cui aspiri, quindi da un lato mi compri subito, ma dall’altro mi si attivano tutti i sistemi d’allarme possibili. Mi piace mi si faccia l’occhiolino, ma dipende sempre da chi me lo stia facendo e quanto riesca a non rendersi ridicolo nel farlo.
Secondo me, quindi, un buon modo per iniziare a parlare di questo film é valutare il livello di fan service che ci hanno messo dentro.
Quanto ce n’è?
Tanto.
Dá in qualche modo fastidio?
No.
Certo, dipende dal tipo di approccio che si ha con il materiale di partenza.
Dungeons & Dragons è un gioco vecchio e reso popolare da una generazione di nerd che non hanno minimamente a che fare con l’accezione attuale del termine. Non vorrei fare una digressione troppo ampia, ma il termine nerd ha un percorso uguale ed inverso a quello del termine emo. Entrambi hanno stravolto il loro significato nel processo di sdoganamento verso l’uso comune, solo che “Nerd” è passato dall’essere un insulto destinato ad una cerchia di persone con evidenti problemi di relazione al mondo esterno, ad una sorta di etichetta spesso auto-assegnata che in qualche modo certifichi la figaggine e l’alternativismo di chi se la sente addosso. Ad “Emo” è successo l’esatto opposto.
C’erano quindi due rischi da scongiurare facendo questo film. Il primo era di fare qualcosa che usasse D&D solamente come marchio per portare in sala i rimastoni come me, ma che puntasse in realtà a chi pensa di essere un nerd perché ha visto Stranger Things. Un film in cui due o tre “sottili citazioni” (che non chiamerò easter egg per evitare di indisporre il Governo) vengono annacquate in una poltiglia hypster e anonimissima, priva della reale intenzione di trasporre lo spirito del gioco e volta solo a monetizzare cavalcando una moda che tiene fino a che resta superficiale.
Il secondo era quello di puntare forte sul target originale, prendendosi drammaticamente sul serio e cercando di trasporre tutti i must dei veri fanatici del gioco. Fare una sorta di Bohemian Rhapsody, per dare un riferimento. Occhio che questo non vuol dire per forza fare un film cupo, drammatico o traboccante di epica per metallari puzzolenti. Nessuno produrrebbe un film così, oggi. Quel che invece si fa di continuo è scrivere storie seriosissime, con personaggi (super)eroici, e farcirle di spalle comiche e gag da barzelletta del cucciolone che sembrano incollate a forza nel contesto. Ecco, il film di D&D non fa questo errore.
L’Onore dei Ladri sceglie un tono e lo tiene per tutto il tempo, con una coerenza rara. Il tono è quello del cazzeggio e, santo Dio, è il tono che ogni sessione di D&D divertente dovrebbe avere. Hanno trasposto il gioco nella sua giocositá e lo hanno fatto tramite gag che ogni giocatore di D&D ha vissuto con gli amici, ma che sono sempre abbastanza ricercate da non risultare stucchevoli perché trite e ormai abusate. Per fare degli esempi: non c’è il nano che litiga con l’elfo, c’è parlare coi morti; il personaggio del barbaro non è stupido, è diretto e quindi a volte fuori luogo. Cose così.
Se poi parliamo delle scelte che legano più fortemente il film al gioco e alla sua community, per me sono stati perfino raffinati. Le classi dei personaggi sono ben rappresentate, stereotipate il giusto da farle arrivare anche a chi non mastica, ma senza eccedere nel caricaturale; la magia, elemento difficilissimo da bilanciare in scrittura, trova il giusto spazio e riesce anche a trasferire quel senso di “uso creativo degli incantesimi” tipico di chi gioca a D&D; con il personaggio dello stregone sono anche riusciti a farmi percepire la crescita di potere che in gioco si ottiene al passare dei livelli.
E poi i mostri.
Tanti e usati spesso anche solo per dare colore al mondo. Alcune creature come il mimic o il cubo gelatinoso sono evidente fan service ai giocatori di vecchia data, altre come la belva distorcente provano a dare quel tocco di ricercatezza che ogni giocatore vorrebbe dal proprio master (la frase “Hai un cazzo di manuale da centinaia di mostri, possibile si debbano incontrare sempre i soliti quattro???” l’abbiamo pensata tutti almeno una volta). Pure il drago viene proposto in maniera perfetta perché è simultaneamente demitizzato, ma senza ledere al suo essere comunque una delle creature più temibili del mazzo.
L’orsogufo invece mi piace pensare l’abbiano messo proprio per me. Mostro preferito di sempre.
Niente, più ci ripenso per scriverne e più mi convinco abbiano fatto esattamente il film che volevo e speravo facessero. Sui canali social del gioco lo stanno presentando alludendo ad un D&D Cinematic Universe e, non so che dire, io ci spero fortissimo.


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Una donna promettente

Quasi una settimana fa sono tornato al cinema dopo il lunghissimo stop imposto dalla pandemia e l’ho fatto per andare a vedere Promising Young Woman, vincitore dell’oscar per la miglior sceneggiatura nonchè primo film di Emerald Fennell.
Mi è piaciuto molto ed è circa una settimana che cerco di trovare il tempo per buttare giù un paio di righe in merito, proprio perchè credo ne valga la pena. Nel farlo potrei usare degli spoiler, ma cercherò di segnalarli tramite la gigantesca scritta SPOILER.
Prima di leggere io fossi in voi me lo guarderei, in ogni caso.
Ora metto qui il trailer e poi via alle riflessioni.

Questo film secondo me ha tre punti di forza.
Il primo è ovviamente la scrittura, ma non tanto per la storia che il film racconta, quanto per la prospettiva da cui ce la mostra. C’è un evidente dissonanza infatti tra il vivere le vicende con gli occhi della protagonista e la loro rappresentazione con taglio tremendamente “maschilista”. E’ complesso da spiegare quindi mi aiuto con qualche SPOILER. La storia racconta di una ragazza, Cassie, che ha perso un’amica a causa di un trauma che non ha mai superato, ovvero l’aver subito un episodio di violenza durante una festa. L’equivalente di quello per cui è indagato il figlio di Grillo, per intenderci. Una vicenda che non solo ha spezzato la vita della sua amica, ma che ha anche sconvolto la sua, portandola a mollare una promettente carriera in medicina. Di contro, i colpevoli non hanno avuto alcuna ripercussione e sono andati avanti per la loro strada. I maschi, ovviamente, ma anche le donne che hanno finto di non vedere, piegandosi a quella situazione (non fatemi scrivere ancelle del patriarcato, ma quello è). A Cassie tutto questo non va giù e così decide di vendicarsi nei confronti dei responsabili, ma anche di combattere in prima linea la cultura degli abusi sulle donne.
Perchè dico che tutto viene presentato con taglio maschilista? Perchè il film è costruito con il linguaggio del thriller per tutto il tempo e anche se quasi subito scopriamo che la vendetta di Cassie, per quanto efficace, non sia nulla di criminale o illecito, il tono è sempre quello che nei film normali si usa per descrivere le gesta degli psicopatici. Tu sai che Cassie non è una pazza maniaca, ma ad ogni successiva svolta pensi possa fare qualcosa di pazzo/violento/truce perchè il film ti porta a pensarlo. Perchè una donna che si ribella è una pazza.
Lo so, scriverlo è come spiegare una barzelletta, però l’effetto cinematografico di questa scelta di scrittura ha un impatto pazzesco. Soprattutto, altro GRANDE SPOILER, nel finale, dove la musica e il montaggio sono quelli tipici di un happy ending e a te sembra una vittoria il fatto che una tizia sia stata ammazzata male per provare qualcosa che già avrebbero dovuto sapere tutti.

Il secondo punto di forza del film è la protagonista, personaggio solidissimo e veramente ben caratterizzato, interpretato in maniera superlativa da Carey Mulligan. Tempo fa avevo visto un pezzo di stand up di Daniele Fabbri (qui il link, ma avviso che contiene una bestemmia) che punta proprio sul fatto che le donne non dovrebbero avere paura degli uomini. E’ un pensiero che ho sempre condiviso. Non perchè gli uomini non siano pericolosi, ma perchè ritenevo la narrazione del pericolo che una donna corre nell’uscire di casa sovradimensionata rispetto al pericolo reale. Discorso spinoso che non ha senso dibattere qui, ma in generale quello su cui il personaggio di Cassie mi ha fatto pensare è che la donna forte, che non ha paura degli uomini e che anzi tiene testa ai loro abusi, probabilmente 9 volte su 10 si risparmia grandi spaventi e trasforma potenziali molestie in umiliazioni del proprio carnefice wannabe, ma in quel caso su 10 in cui di fronte si trova un uomo davvero pericoloso, purtroppo, si espone a cose che altrimenti avrebbe evitato. E’ un discorso orribile da fare, razionalmente, ma di cui è impossibile negare l’attendibilità. Un discorso che questo film ti butta in faccia senza pietà. Cassie è disposta a correre quel rischio per provare una tesi, ma posto sia una decisione che in un mondo giusto nessuna donna dovrebbe prendere, quante donne sono consapevoli di essere costrette a doverla affrontare su base quotidiana? Cassie non è solo un modello, Cassie è anche la fotografia di quello che implica essere un modello, nel bene e nel male, senza filtri.

Il terzo punto di forza del film è la confezione. Ho adorato la regia, la fotografia, le musiche e tutto quello che riguarda la messa in scena di questa storia. E’ un gioiellino che non ti distrae mai dal contenuto, ma che sa prendersi i suoi spazi quando la storia respira e puoi fermarti a prestare attenzione. Per me davvero un bellissimo film, audiovisivamente parlando, da cui cito su tutte la scena dell’arrivo al cottage di Cassie versione infermiera stripper, sulle note di una versione pazzesca e dissonante di Toxic che è trasposizione perfetta in musica di tutto quello che questo film vuole essere.

Ed ora, dopo i tre punti di forza, chiudo con l’unico difetto che ho trovato al film, che è la rappresentazione degli uomini. Tutti i personaggi maschili del film sono negativi e ci sta, è proprio parte centrale del discorso scardinare il #NotAllMen autoassolutorio quindi capisco il tiro, ma da uomo secondo me si è calcata troppo la mano ottenendo forse l’effetto opposto, ovvero il rischio che lo spettatore maschio non ci si identifichi e sia facilitato a derubricare la rappresentazione a “va beh, quelli sono stronzi, mentre io no.”, che è proprio la base su cui si costruisce quel tipo di risposta. Se vuoi mostrare che tutti gli uomini sono co-responsabili e farli sentire tali mentre li prendi a sberle col tuo film, devi secondo me essere meno tranchant nella rappresentazione così da accendere qualche lampadina in più nella testa di chi guarda. Parere ovviamente personale.

Il punto cruciale però resta questo: Promising young woman è davvero un bel film e dovreste guardarlo tutti.

PS: c’è stata tantissimo dibattito attorno al doppiaggio italiano per Laverne Cox, ma a costo di sembrare Capitan Ovvio, vederla sullo schermo doppiata da una voce femminile fa tutta la differenza del mondo ed è un altra bella sveglia sul tema, più forte di mille articoli di giornale.

Una roba su Demi Lovato e la fata Madrina

In questi giorni probabilmente avrete sentito parlare della questione del remake live action di Cenerentola in cui il ruolo della fata madrina è stato assegnato ad un attore nero e gay. Ne avete sentito parlare perchè ogni volta che succede una cosa così da destra si leva immediatamente un coro di sdegno che fa molto rumore e che di fatto è l’unico responsabile del far circolare la notizia. Inizio il post quindi con la prima presa di posizione: non linkerò la notizia per non dare visualizzazioni a testate che spero chiudano, ma per sapere quello a cui mi riferisco è sufficiente cercare su google “Cenerentola” e vedere le prime notizie che escono.
Questa “polemica” è di fatto scoppiata in contemporanea al coming out di Demi Lovato che ci fa sapere via instagram il suo non identificarsi nella definizione binaria di genere(a).
Come spesso accade, l’ondata di commenti che ha circolato nel mio intorno digitale in merito a queste due faccende mi ha spinto ad alcune riflessioni che ho scelto di condividere solo in seguito a questo sondaggio(b):

Partiamo dalla questione fata madrina.
Sarà interpretata da un attore di colore e dichiaratamente gay. Già con la prima frase ho le concordanze affanculo, ‘sto post sarà un fottuto calvario, ma cerchiamo di rimanere concentrati. La fata madrina altro non è che la stylist di Cenerentola e il fatto che sia interpretata da un uomo, nel mondo in cui esiste Enzo Miccio e gli stilisti sono in larga parte uomini, credo serva solo a dare alla storia una base meno fantasy. Questo, spero bene sia chiaro a tutti nell’anno domini 2021, indipendentemente dal colore della pelle dell’uomo in questione, parametro assolutamente ininfluente. Sul fatto che sia gay invece ho qualche ragionamento in più da fare.
Non mi risulta che la storia originale preveda in alcun modo sotto trame amorose per il personaggio. Ora, magari questa cosa cambierà nel remake (mi guardo bene dall’approfondire il film oltre alla ricerca google di cui sopra), ma se così non fosse non trovo alcuna ragione per caratterizzare il personaggio con un orientamento sessuale, soprattutto se nel farlo si cavalca lo stereotipo “maschio col pallino del look = gay” e magari lo si caratterizza come piuttosto effemminato. Il mio problema però non sta nemmeno lì: un personaggio del genere per me fa molti più danni di quanto possa essere utile in termini di far sentire rappresentata una categoria, ma è opinione personale non necessariamente corretta o condivisibile.
La questione che mi preme è un’altra.
Ho come l’idea che un ramake live action di Cenerentola sia una delle cose meno interessanti ci si possa inventare e che questa scelta di casting non sia altro che una strategia promozionale basata sul triggerare i soliti quattro reazionari fascistoidi nella più classica delle win-win situation: la destra può berciare di dittatura del politicamente corretto rinvigorendo la propria fanbase e la Disney di turno può invece raccogliere dall’altro lato, quantomeno con una campagna gratuita di promozione ad un nuovo film che, magari sbaglio, ma non avrebbe nessun altro selling point(c).

Qui è il punto in cui comincia il difficile perché 1) si tratta di un semi processo alle intenzioni e 2) per quanto sia inconcepibile per alcuni, di solito cerco di riflettere empatizzando col pensiero di chi è parte in causa, ma in questo caso non ho la minima certezza di come possa essere percepita la questione da dentro.
Io credo davvero che scegliere un ragazzo nero e gay per interpretare la fata madrina, nello specifico, sia solo un’operazione di marketing, per due ragioni.
La prima è che se vuoi davvero fare un film che dia spazio rilevante ad una minoranza non hai bisogno di forzarla dentro un contesto iper tradizionale come Cenerentola. Puoi fare un altro film con personaggi neri, gay o whatever che abbiano un ruolo centrale. Il punto è che in quel caso forse non ti si filerebbe nessuno e quindi rischieresti il flop. Se invece fai Cenerentola con il fatino ebano a cui piace il catso polarizzi, fai scalpore e in qualche modo finisci per vendere un prodotto altrimenti meno (leggi: non) interessante. 
La seconda è che se vuoi davvero fare un film che si smarchi da certi presupposti ormai superati e reazionari non dovresti partire da una favola il cui messaggio di base è che la donna per emanciparsi deve sposare un fottutissimo principe. Nel senso, se lo fai per me sei in malafede oppure deficiente e ho come l’impressione Disney non possa permettersi di essere gestita da deficienti.
E allora la questione per me è questa: probabilmente è un bene che certi colossi stiano forzando la mano in una direzione che comunque è quella dell’inclusivitá, ma a me resta il retrogusto amaro della sensazione che stiano lucrando su quella che per molti è una battaglia ben lontana dall’essere vinta e la cosa mi fa leggermente schifo, anche se questo lucrare non è per forza di cose controproducente.
Non so come dire.
Se a fare del bene ci fai su dei soldi posso starci, ma non pretendere di passare da eroe. Se poi il fatto che tu stia facendo del bene non è nemmeno così scontato, mentre è innegabile che tu ci stia lucrando, beh allora per me sei una merda, persino peggio di quelli che stanno dall’altra parte, ma che almeno lo fanno apertamente e senza pose fake. Anche perchè, se davvero c’è quel tipo di malafede, si finisce ad utilizzare il personaggio gay come fosse un’attrazione da circo e non penso proprio questo sia un bel modo di supportare la causa.

Fino a qui è stato grossomodo semplice, ora passiamo a Demi Lovato e alla questione dei pronomi.
Non mi interessa molto di come DL voglia essere chiamata e in questo caso non è manco mia intenzione fare dietrologia: se è una scelta sincera bene, se è marketing bene uguale: alla fine come la coniughino nelle frasi a me interessa zero e se ci vive bene lei, ci vivo bene pure io.
Che mi interessa invece è la questione They/Their. Ora, lo dico subito, quel che segue è una boomerata(d), ma vorrei fosse chiaro che per me il ruolo di ciascuno di noi nella società non è comprendere ed appoggiare ogni scelta altrui, ma è quello di rispettarla. Fa differenza.
Io con la scelta di non aderire ai generi binari ho più di un problema, che poi è lo stesso che ho con i ragazzi cresciuti con youtube e spotify che alla domanda: “Che musica ascolti?” ti rispondono: “Di tutto”.
Il mio problema è che ho visto e vedo tutt’ora i danni dell’educazione al “puoi essere quello che vuoi”, perché la società in cui siamo inseriti non ti permette manco per il cazzo di fare o essere ciò che vuoi e prima impari questa cosa, meglio è. Certo, domani le cose potranno essere diverse e non ho modo di negare una società futura meno netta e definita possa essere meglio di quella attuale, quindi parlo solo di opinioni personali, ma a mio avviso l’autodeterminazione è un passaggio chiave di crescita e sviluppo individuali.
Ad una certa, secondo me, è necessario autodefinirsi come qualcosa rispetto a qualcos’altro, fare delle scelte di appartenenza.
È il modo per tracciare le linee che di definiranno.
La mia impressione è che la tendenza sia verso una realtà in cui queste scelte (spesso dolorose o comunque non facili) non siano più necessarie e che si stia cercando in tutti i modi di superarle. Come dicevo, non è qualcosa che posso definire sbagliato in senso assoluto, ma è qualcosa che certamente non capisco e che personalmente ritengo controproducente nel processo formativo.
In altre parole: non mi interessa che i miei figli siano etero o gay, cis o trans, ma mi piacerebbe fossero in grado di autodeterminarsi, perché penso questo approccio alle questioni (a.k.a. fare delle scelte e accettarne le implicazioni) sia l’essenza del crescere e maturare.
“Non è forse non scegliere anch’essa una scelta?” 
Boh, forse sì. Come detto, non ho la pretesa di avere una posizione chiara e insindacabile su una cosa che non riesco a comprendere, quindi ci sta questa mia idea possa essere “sbagliata”. L’obbiettivo a cui tendere è provare ad essere supportivo anche verso chi fa scelte che non concepisco, perchè farlo solo con chi si muove nel campo della mia approvazione non richiede poi ‘sto grande sforzo. Diciamo anche però che trovo idiota questo ricatto morale per cui il progresso vada abbracciato senza spirito critico perchè è più importante non passare da reazionari che valutare se abbia o meno senso esserlo, ogni tanto.

Alla fine rileggendo non credo ci sia molto da litigare in merito a questo post, ma sarò ben felice di ricredermi.


(a) Nel post potrei usare termini e lessico imprecisi e non in linea con quanto richiesto dalla comunità LGBT+. Spero questo non sia un limite alla comprensione e accetto ben volentieri correzioni o suggerimenti per rendere il tutto più preciso. 

(b) Il sondaggio ha raccolto 15 voti su quasi 380 follower, quindi è palese che il “ma chi ti si incula?” sia la frangia dominante. E’ sempre divertente però constatare il ritardo di chi non capisce il sottotesto e clicca lo stesso quell’opzione, dimostrando simultaneamente di non essere particolarmente svegli* e di aver mentito a sè stess* nella scelta. Chi ha risposto NO invece ha tutta la mia stima e approvazione.

(c) E’ un post con un tasso di termini inglesi oltre la soglia del tollerabile e di questo mi scuso, ma la trovo una scelta in qualche modo in linea con il tema, che è di per sè stesso un’appropriazione di qualcosa di squisitamente americano e che qui si incastra in modo molto forzato, a livello culturale e sociale.

(d) I boomer sono quelli che vi permettono di fare la vita che fate e al loro posto, alla stessa età, sareste probabilmente manovali in una piccola azienda invece che laureati in “faccio quello che mi piace”. Quindi sì, forse vi hanno rubato il futuro, ma era un futuro di merda.

Cobra Kai

Era tanto tempo che non divoravo una serie TV.
Le ultime serie che ho approcciato le ho mollate quasi tutte per strada e se ripenso alle ultime sessioni di binge watching vero l’unica cosa che mi viene in mente è il rewatch di Scrubs*. Non esistono più serie interessanti? Non credo, ma sono diventato tremendamente pigro e soffro un po’ l’effetto buffet di fronte ai cataloghi sconfinati di Netflix e compagnia. Tantissime portate, la curiosità di vederle tutte, ma al contempo il terrore di iniziare una cosa che non mi piace e quindi sprecare tempo prezioso che posso invece dedicare ad attività molto più sensate tipo il refresh compulsivo del mio feed Twitter.
Ne usciremo tutti migliori, dicevano.
Ad ogni modo la scorsa settimana è uscita su Netflix Cobra Kai, la serie che racconta le avventure di Johnny Lawrence dopo Karate Kid e ho deciso di guardarla con Paola. Ne avevo sentito parlare bene già ai tempi in cui uscì su youtube, ma non avevo mai approfondito perchè convinto prima o poi di poterla vedere, solo che a distanza di anni ancora non l’avevo fatto. Un side effect noioso che le piattaforme di streaming legale hanno avuto su di me è la totale mancanza di sbattimento nel voler vedere roba pirata. La pazienza di trovare i link, la qualità che spesso fa schifo, le pubblicità ed i rischi per la sicurezza informatica: tutte menate che i servizi a pagamento ti risparmiano, viziandoti. Per questo ormai o una roba esce in uno dei siti che pago (al momento Amazon Prime Video, Netflix e Disney+) oppure per me non esiste. Sono un anziano e gli anziani, oltre a divagare continuamente mentre scrivono il loro blog, sono pigri.
Tornando sul punto, sto giro se dio vuole per rimanerci, due giorni fa io e la Polly abbiamo approcciato questa nuova serie finendoci dentro con tutte le scarpe e guardando due stagioni in grossomodo un giorno e mezzo. Il motivo è semplice: è una serie stupenda.
Ok, la prima stagione è stupenda, la seconda piuttosto sotto tono, ma ha comunque i suoi momenti ed un buon finale e quindi nel complesso promuovo anche quella.
Quel che fa Cobra Kai è essenzialmente prendere l’idea alla base di una gag pensata dagli sceneggiatori di How I Met Your Mother (ref.) e farci sopra una serie vera e propria in cui si prova a guardare il mondo con gli occhi del cattivo, per scoprire che WHAT A SURPRISE la realtà è un po’ più complessa di quel che poteva apparire e quindi che è sempre utile provare ad analizzare tutti i punti di vista di una storia prima di parlare di buoni e cattivi, visto che la storia la scrivono i vincitori. Lo so, uno legge una cosa del genere e pensa che lo step successivo a Cobra Kai sia “Mussolini ha fatto anche cose buone”, ma non è lì che voglio andare a parare. La cosa interessante nel vedere le cose da più prospettive è che si può trovare conferma dell’impressione iniziale e corroborarla con uno spessore nuovo. E il Johnny Lawrence di Cobra Kai non è tanto diverso da quello del film, non diventa magicamente “un buono”, però è un po’ meno bidimensionale e fa affiorare le ragioni alla base dei suoi comportamenti sbagliati permettendo di empatizzare e quindi aprendo la porta ad una certa autocritica sociale: se empatizzi con gli stronzi e ne comprendi le ragioni, sei un po’ stronzo anche tu. Come è stronzo Daniel LaRusso che però, a differenza dello spettatore, è radicato nella sua convinzione di stare dalla parte del bene per via di tutti quei pistolotti zen di Miyagi, vede il mondo unicamente dalla sua prospettiva e non realizza quanto sia bullo e prevaricatore pure lui, invaso di una autoassoluzione che trova pari solo in Adinolfi e nei Talebani. La serie si gioca tutta lì: non vuole rivalutare nessuno, sposta solo il confine tra buoni e cattivi (anzi, diciamo che praticamente lo toglie) e infila tutti sullo stesso piano, cosa che fanno notare grossomodo tutti i personaggi di contorno, a turno. Perchè non è una serie particolarmente sottile eh, non pensiate ci voglia chissà quale bilancino per misurarne i contenuti. E’ scritta in indelebile a punta grossa, ma è scritta bene.
Il motivo per cui però vale davvero la pena guardare Cobra Kai è che è davvero uno spasso. Durante la prima stagione, soprattutto, io ho riso tantissimo (e pure mia moglie). E poi, finalmente, non è un prodotto hipster che prende l’estetica anni ’80 e la ricicla unicamente per moda e senza alcun tipo di necessità reale (penso a 13 o Stranger Things, per esempio). Qui gli anni ’80 hanno un peso specifico serio e, come Johnny Lawrence, vengono ripescati e presentati nella prospettiva giusta, che spesso li espone ad un giudizio severo, ma altre volte spinge a riflettere su quanta ipocrisia ci sia in chi li vuole denigare a priori. La chiave di lettura infatti è anche quella: il messaggio machista del cinema e della TV anni ’80 è evidentemente uscito sconfitto dal giudizio del tempo, viva dio, ma non per questo oggi lo si deve guardare come ad un male assoluto e degenere capace di produrre solo disadattati e persone prive di capacità relazionali. Anzi, forse la risposta a quel tipo di cultura ha spostato il piano eccessivamente oltre, creando nuove problematiche e fragilità a cui quel tipo di approccio, diciamo alpha, potrebbe fare del bene. Insomma, l’importante è trovare un equilibrio e usare la testa, invece di tapparsi occhi e orecchie gridando “è sbagliato e basta”.
Io almeno l’ho letta così.
Per chiudere, se devo dare un riferimento di cosa sia Cobra Kai, per me la similitudine migliore è “L’ispettore Coliandro del karate”, perchè per quanto le serie siano diverse tra loro, hanno il medesimo scopo e due protagonisti scritti con la carta carbone.
– Buone queste banane fritte.
– Sono platani.
– Ah, qui le chiamiamo BANANE.
Se non è una battuta di Coliandro questa allora non avete mai visto Coliandro. E non è l’unica.

* Sì, ho riguardato Scrubs e mi è piaciuto di nuovo perchè sono una persona orribile che non riesce a cambiare prospettiva sul mondo come dovrebbero fare tutte le persone cool e veramente di sinistra. My bad.

Parasite

A un certo punto, abbastanza avanti nel film, il protagonista si chiede: “Cosa ci faccio qui?” e finalmente si compie quel processo di immedesimazione che il regista ha tentato di inserirmi nel cranio a forza per i precedenti settecentoventimila minuti (percepiti) di film.
Sono dentro il cinema, ma non mi ci sento a mio agio e, anzi, provo fastidio ed irrefrenabile voglia di essere altrove.
Possibilmente non in Corea.

Parasite, film di Bong Joon-Ho recentemente premiato a Cannes, mi ha fatto discretamente cagare.
Probabilmente sono io eh, non è colpa del film, però le operazioni di cinema cervellotico e autocompiaciuto le tollero a fatica già quando pescano dal mondo che conosco e mastico, figuriamoci poi quando ci si mette anche la distanza culturale.
Guardo questa roba e non capisco quanto caricaturale sia la rappresentazione dei personaggi, per dirne una, quindi a conti fatti non capisco il film, che è grossomodo tutto racchiuso in quello.
Certo, non è tutto da buttare.
Ci sono sequenze che mi sono piaciute tantissimo, ad esempio tutta la parte dell’esondazione, ma è perché si tratta di una parentesi di pura estetica che non c’entra più o meno niente con la storia e, anzi, te la toglie proprio dai coglioni per diversi minuti permettendoti di apprezzare quanto sia effettivamente bravo il nostro Bong nel costruire le immagini che vuole mostrarti.
Quando la parentesi si chiude però, e i personaggi riprendono a parlare, il film torna a volerti raccontare qualcosa a tutti i costi e a te torna addosso il nervoso. Irritante come il Refn di Only God Forgives, ma senza l’aggravante della preterintenzionalitá di non voler raccontare una storia. Qui la voglia c’è, ma forse sarebbe stato meglio lasciarla a casa.

Altro momento esemplare.
Ad una certa c’è questa scena in cui DAZN (giuro), figlio piccolo di una coppia ricchissima, dorme in giardino ed i suoi genitori stanno sul divano a guardare fuori dalla finestra per controllarlo.
Da cosa nasce cosa e i due iniziano a fare roba. Tutto abbastanza normale, solo che quel che ne esce è la scena più anti-erotica mai passata su grande schermo e non si capisce se lo sia perché non mi arriva la sensualità Coreana, perché è stata scritta e filmata coi piedi o perché l’idea sia mostrare come il sesso tra ricchi é oltremodo disgustoso. Quale che sia il motivo però, non cambia il fatto non sia una cosa bella da vedere.
Ecco, più o meno vale lo stesso per il resto della pellicola, finale compreso, il cui mega pippotto a mio avviso è unicamente pensato per infierire ulteriormente su gente come me che, senza la pressione sociale dell’essere al cinema con alcuni colleghi, si sarebbe volentieri data dopo i primi 20′ e senza particolari rimpianti.
E pensare che il mio collega voleva vedere Zombieland. Forse non ci avremmo trovato gente morta male a colpi di spiedo da BBQ, ma certamente ci saremmo divertiti di più.

Joker

Sta sera ho deciso di andarmi a vedere il Joker di Todd Philips (o se preferite di Joaquin Phoenix), da solo e al secondo spettacolo. Non avevo voglia, ma ho letto così tanti complimenti in giro da voler verificare di persona appena possibile.
Il dubbio più grande che avevo era che non avrebbe retto le aspettative che mi sono fatto leggendone in giro.
Ecco alcuni commenti sparsi che può leggere anche chi non lo ha visto, senza che rovinino nulla (tranne forse uno, ma lo segnalo prima).
1) Non lo so se usare il cattivo dei fummetti sia stato solo un pretesto per vendere il film, ma di sicuro, anche togliendo i Wayne e Gotham City dall’equazione, persino mia nonna all’uscita avrebbe detto: “Bello tutto, ma questo è il Joker…”
2) Non dirò che Joaquin Phenix è meno bravo di quel che si dice e legge in giro. Mentirei. Per darvi l’idea di come la vedo io però, posso dire che il mio Di Caprio preferito non è quello di The Revenant.
3) Ho letto che negli Stati Uniti c’è una certa preoccupazione intorno a quanto questo film possa innescare e che addirittura in alcuni casi si sia parlato di “stato di allerta” e “misure precauzionali”. Posso capire, ma non credo sia un problema del film.
Al di qua dell’Atlantico fortunatamente credo il peggio che possa accadere sia un nuovo effetto “V per Vendetta”, il cui pensiero mi porta in ogni caso a bestemmiare maledicendo la pellicola.
4) Domanda tecnica: la versione doppiata presenta gran parte dei testi a video tradotta in italiano, ma non tutti. Perché (cazzo) ne hanno tralasciati alcuni? Se pensavano fosse un lavoro utile (non lo è), tanto valeva farlo completo.
5) Si chiama Joker, parla del Joker: è un cinecomic. Non capisco la polemica che si è scatenata in tal senso.

Concludendo quindi é un gran bel film e merita i premi e i complimenti che sta raccogliendo, anche oltre la prova d’attore del protagonista. Per me, ad esempio, ha una regia strepitosa.
Se proprio dovessi fargli un appunto (MINISPOILER) mi sarei giocato meglio l’ambiguità tra quel che è reale e quel che Arthur percepisce in seguito alla sospensione delle terapie farmacologiche cui è sottoposto. Il film parte bene in quel senso, ma poi diventa eccessivamente “pulito” e lineare, quindi forse si poteva far meglio. Sono però davvero dettagli che non tolgono nulla alla valutazione complessiva.
Ultima riflessione a margine. Inizio ad avere un problema con le opere che mi sbattono in faccia quanto è orrenda la società in cui viviamo. Giorni fa tiravo un pippone sui social in merito all’ultimo video di Massimo Pericolo e ai numeri che mette insieme e per questo Joker vincitore a Venezia vale grossomodo lo stesso discorso. Non dico sia sbagliato che l’arte svolga questo ruolo, penso anzi il contrario, però forse sto nella parte di società che certi problemi li vede, ma non li vive ed il mio inconscio egoista vorrebbe evitare di venirci a contatto, se non sempre, almeno quando sta cercando di dedicarsi ad azioni di svago. Credo lo prenda come un colpo sotto la cintura. Lo so, è un discorso stronzo, ma sto spazio serve soprattutto a mettermi di fronte ai miei discorsi stronzi.
Certo è che se in Italia opere come Gomorra sollevano sempre un putiferio legato a quanto sia eticamente corretto raccontare i cattivi con una certa epica, al netto del fatto il messaggio nostrano sia sempre che quel tipo di scelta criminale non paga, questo film fa proprio saltare il banco, basandosi quasi esclusivamente sul darci la prospettiva del pazzo omicida. Non dico sia una cosa per forza sbagliata, credo sia argomento complesso e che certamente non voglio affrontare alla 1:55 di notte, ma resta un dato a mio avviso interessante.

Nel 2019 sono usciti sia Endgame che Joker: direi annata non male per i fumetti sul grande schermo.