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La zona di interesse

Sul finire dell’anno scorso ero andato a vedere il film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”, spinto dalla Polly. Alla fine, come capita spesso, avevo scritto nella chat che ho con alcuni amici per parlare di cinema e serie TV cercando un confronto perchè, pur avendolo trovato un bel film, non ero nelle condizioni di dire che mi fosse propriamente piaciuto.
Così usai una metafora:

Ecco, ieri ho visto “La zona di interesse” e posso confermare che la sensazione era davvero quella.

Direi che di un film come “La zona di interesse” si può tranquillamente parlare senza necessità di SPOILER alert, ma siccome non posso mai essere sicuro del livello di disagio di chi legge premetto che sì, potrei inserire commenti relativi a quello che succede nel film e che, incidentalmente, è quello che è successo ad Auschwitz negli anni ’40 del secolo scorso.
Ad essere del tutto onesti però io sono uscito dalla sala piuttosto convinto che i nazisti in questo film siano semplicemente un pretesto, l’estremizzazione necessaria a far passare un concetto più trasversale e attuale, che ha a che fare con l’etica, il lavoro e la ricchezza. Andiamo però con ordine.
Il film ci racconta la vita della famiglia di Rudolf Höß, comandante SS a capo del campo di concentramento di Auschwitz, vita che si svolge in una casa costruita appena oltre la recinzione del campo, in quella che fu definita appunto “zona di interesse”. Il tema è semplicissimo: illustrare come per quelle persone fosse possibile condurre un’esistenza normalissima nonostante si trovassero a pochi metri da un luogo infernale di morte e disumanità che non smetteva mai, nemmeno per un secondo, di palesarsi tale. Il film trasmette questo messaggio in maniera potentissima con il suono e con le immagini, ma riesce a far percepire chiaramente come anche altri sensi che non possono essere coinvolti dal mezzo cinematografico fossero costantemente esposti all’evidenza, su tutti l’olfatto. Eppure anche noi spettatori, pur costantemente investiti dal “rumore di fondo”, tendiamo ad abituarci durante la visione e filtrare quelle frequenze, dopo un po’, realizzandolo solo quando il rumore per qualche motivo cessa. Sotto questo punto di vista davvero un lavoro egregio, che effettivamente merita di essere goduto in una sala cinematografica.
Come dicevo prima però la cosa che più mi ha colpito di questo film, il suo lascito nella mia testa, è che di massima ci presenta una persona brava nel suo lavoro, che fa carriera e grazie a questo eleva il suo stato sociale. Con lui, una moglie che gode di questa ricchezza e che non ci vuole rinunciare. Nessuno dei due è ignaro di cosa ci sia alla base di quel lavoro e di quella ricchezza, ma come ci si abitua alla vista del fumo delle ciminiere, all’odore dei corpi bruciati e al suono degli spari, ci si abitua anche all’idea di essere ricchi sulla pelle degli altri.
L’idea del film però non è normalizzare dei mostri, attenzione.
L’idea è (credo) sottolineare come la soglia della nostra disattenzione selettiva sia labile e possa essere alzata fino ai livelli estremi di chi viveva nella Zona di Interesse. Saremo sempre disposti a fare qualcosa di brutto agli altri per ottenere qualcosa di bello per noi, quanto brutto e quanto bello dipende ovviamente da noi, ma non ci sarà mai un limite alla nostra capacità di non vedere quello che stiamo facendo. In questo senso ho trovato davvero “bellissime” tutte le scene in cui Rudolf è mostrato al lavoro, perchè sono costruite appositamente per non risultare diverse dalle riunioni aziendali di nessuno di noi: processi, ottimizzazioni, progetti, scadenze e obbiettivi. Tutte cose normalissime se non ci si sofferma a riflettere sul fatto che siano destinate allo scopo di sterminare un popolo. Ovviamente l’esempio è estremo, ma quanti di noi lavorano tutti i giorni per alimentare una macchina socioeconomica che, di fatto, si fonda sul mantenere un certo numero di esseri umani in condizioni di povertà? Ve lo dico io: tutti.
Adesso vi racconto il finale del film, paro paro.
Rudolf, felice di poter tornare a fare quello che sa fare meglio (ottimizzare processi di sterminio) e di tornare a vivere con la propria famiglia nella Zona di Interesse, scende una rampa di scale. Ad un certo punto si ferma e ha dei conati di vomito. Il film ci spiega, con una scelta di immagini e montaggio molto bella ed efficace, che per un secondo la consapevolezza lo investe. Un uomo che “non ha alcun problema a dormire la notte”, nonostante il lavoro che fa, per un breve momento è sopraffatto dal peso delle proprie azioni e delle proprie scelte, di cui non è mai stato inconsapevole nè genuinamente ignaro.
Poi gli passa e continua a scendere le scale verso l’oscurità.
Come nulla fosse.

Boh, forse sono io che ultimamente ho un po’ il tarlo per questo argomento e probabilmente questa lettura arriva dal fatto di avere in testa il tema già di mio, ma sono seriamente convinto che guardare questo film e fermarsi al fatto che parli di nazismo è perdere l’occasione di riflettere su quanto siamo capaci noi tutti, ogni giorno, di non sentire i rumori che arrivano da oltre il muro che abbiamo creato a protezione del nostro privilegio.

Madonna che pistolotto che ho sparato sto giro.


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