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Marchetta

Non è vero, quella che segue non è una marchetta. Nessuno mi pagherebbe per scrivere roba, a nessun livello, e credo mi stia molto bene così.
È successo però che Rob mi chiedesse se mi andasse di scrivere due righe sul disco/EP del suo gruppo. Rob l’ho conosciuto su twitter, ci accomuna una certa passione per un certo tipo di musica. Di norma non mi piace scrivere male di roba fatta da gente che conosco, ma ovviamente non mi va nemmeno di scrivere cose che non penso, quindi ho questa “regola” per cui se il disco mi fa cagare glisso, se invece posso parlarne bene non vedo perché no.

Il disco si chiama “You’re not the places you live in“, loro sono i Morningviews e la mia opinione sta sotto il player, così se non vi interessa vi sentite il disco e basta.

La cosa bella di non scrivere più di dischi fuori da questo mio spazio è che non sento più la pressione ad azzeccare i riferimenti che uso per dare un’idea del prodotto. Prima ci passavo un tot di tempo a definire coordinate che fossero precise e tanto più si usciva dallo spettro dei miei ascolti canonici, tanto più sentivo il peso di non sbagliare. Era un casino. Qui invece me ne batto i coglioni e il risultato è che se dovessi descrivere questo disco di getto direi che è un disco dei Deftones suonato dai Mineral. Pesantina eh?
Meglio argomentare.
È un discorso di sensazioni. È un disco che fonda su quegli arpeggini che sfociano in muri di chitarre, tipici di un certo emo primi anni 2000, però usati per disegnare melodie che più che suscitare malinconia mettono a disagio. Presente no, le linee melodiche dei Deftones? Ecco.
Poi ovviamente il disco è molto più di questo. Anzi, se vogliamo una critica è che per soli cinque pezzi ci hanno infilato un po’ troppi riferimenti e diventa difficile orientarsi e dargli un’identità. Dopo tre tracce decisamente più vicine a certe atmosfere alt-rock, addirittura post-metal se vogliamo (e se il termine esiste), ti ritrovi in cuffia Dye, ovvero i Moving Mountains di Pneuma impegnati a farci sapere di aver compreso la cifra stilistica dei Brand New. È un bel salto.
L’abbondanza di riferimenti viene fuori anche nelle parti vocali: abbiamo le linee pulite, abbiamo gli scream e pure alcuni passaggi parlati/recitati. C’è n’è davvero per tutti i gusti e questo credo sarà un bel vantaggio quando le tracce da mettere in fila saranno dieci o dodici: troppe idee non sono mai un problema. Se ci pensate capita spesso di pensare che un disco abbia qualche traccia di troppo, ma non altrettanto spesso di pensare ne abbia meno del necessario.
Arriviamo all’ultima spinosa questione: è un disco derivativo? Parecchio, ma non credo che loro negherebbero questa cosa. Io ho 38 anni e magari ho ascoltato meno dischi dei ragazzi(ni) che oggi recensicono roba online, però quelli che ho ascoltato li ho ascoltati per il doppio degli anni. Ce li ho tatuati nelle sinapsi ormai, quindi quando ci si avvicina a quelle cose non posso non accorgermene. Non ho mai pensato questo fosse un problema, peró. Alcuni dei miei dischi preferiti sono tremendamente derivativi, solo che sono anche più fighi della roba a cui si rifanno, quindi dove starebbe il difetto? Oltretutto, come detto, qui i riferimenti sono tantissimi, di conseguenza tutto suona inevitabilmente meno ridondante. Son ragazzi che hanno studiato e capito le basi, anche meglio di altri, questa cosa paga ora e pagherà ancora di più andando avanti.
I miei momenti preferiti del disco sono On Uranus e Needle in a Haystack, che chiude tutto dalle parti di un certo post-rock.
L’unica curiosità che avrei, forse anche figlia di una certa fissa che vivo ultimamente, è sentirli con testi in italiano. Non per una qualche deriva sovranista (che proprio stocazzo), ma perché se c’è una roba che in questo disco non troverete sono troppi punti di contatto con la scena italiana di oggi, da cui il fatto che con pezzi in italiano forse arricchirebbero un panorama nostrano non proprio sfaccettato.
Se la parola che stai pensando è “esticazzi?” hai ragione tu.

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