Il fatto di essere di fatto fuori dai social probabilmente mi sta impedendo di entrare in contatto con tutta una serie di notizie, approfondimenti, commenti e sopra ogni cosa persone che un tempo finivano a vario titolo per farmi incazzare. E’ una buona cosa per la mia salute, credo, ma è una cosa terribile per questo blog su cui non trovo davvero più nulla da scrivere.
Dall’attualità ho sempre tratto il grosso dell’ispirazione a trascrivere in bella copia le mie riflessioni, ma la mia attualità, oggi, è decisamente poco ricca di spunti. Oltretutto, non ho più alcuna voglia di scrivere di politica o di temi grossi ed importanti. Quello che vedo succedere è spesso troppo brutto e non ho le energie necessarie a leggerlo e cercare di dargli una chiave dibattibile, soprattutto conscio del fatto che il dibattito non ci sarebbe in ogni caso. Su quell’aspetto credo di essere invecchiato molto male.
La verità è che questo spazio ha, ogni giorno che passa, sempre meno senso di esistere e forse devo solo decidermi a staccare la spina come ho fatto con i social.
Non oggi, però.
Oggi mi va di condividere qui sopra uno spettacolo di stand up che ho scoperto di recente. Si chiama “Alcoholocaust”, di Jim Jefferies, ed è uscito nel 2010. Trattandosi di stand-up, parliamo di un’era geologica fa e si nota tutta, già dalle prime battute. E’ uno spettacolo forte, con comicità aggressiva e spesso oltre le righe, ma il mio punto non è condividerlo per sostenere che oggi non si potrebbe più fare, che oggi non si può più dire niente, etc. etc.
Il mio punto è, paradossalmente, l’opposto.
Oggi ci sono tantissimi (troppi) comici che, esattamente come i rapper, brandiscono l’arma del politicamente corretto alla rovescia. Gente che cerca solo di fare le battute più edgy o scorrette possibile usando come selling point il fatto che non dovrebbe poterle fare e invece le fa lo stesso. Ideologicamente, come imprinting forse, io non ho neanche tutto questo astio verso chi si ostina a fare B quando tutti gli dicono che fare A è l’unica cosa giusta/possibile/accettabile. Anzi, sono situazioni per cui riesco a provare simpatia anche quando B è qualcosa di lontanissimo dal mio modo di vedere le cose. Il problema nasce quando i numeri non supportano più la narrazione, o almeno i numeri che percepisco io.
La mia impressione è che, oggi, tutti facciano B millantando una dittatura di A che non esiste. Nel caso della stand-up poi, l’aggravante diventa che fare B, ovvero essere scorretti, sia di per sè una sorta di bollino di qualità, che sia diventata condizione sufficiente oltre che necessaria a far ridere. Non è così e, guardando vecchi spettacoli di quando tutta questa menata non era sul radar di nessuno, a mio avviso diventa ancora più evidente.
Jim Jefferies qui fa un’ora di monologo dicendo sì cose ultra scorrette, ma la sua bravura, quello che ti fa realizzare che il tipo è uno capace e non solamente uno a cui piace sfottere le lesbiche, è la costruzione comica, il punto dove vuole portarti con quelle battute eccessive, senza che tu te ne accorga. Anzi, proprio perchè sei distratto dalla scorrettezza delle stesse, come uno specchietto per le allodole. Questo, secondo me, fa tutta la differenza del mondo.
Lo spettacolo integrale è su youtube, se interessa.