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Politica

Ok boomer (la mia sul rifiuto dell’orale di maturità)

Parliamo dei ragazzi che si rifiutano di fare l’orale di maturità, dai. Facciamoci del male.
Io il mio orale di maturità l’ho fatto con la camicia hawaiiana. Questa cosa è successa (davvero, giuro) perchè il commissario esterno di matematica mi aveva detto: “Scommetto che lei non ha le palle per venire vestito da hawaiiano a fare l’orale di maturità.”. Tipo Marty McFly.
Precisazione 1: la mia situazione era tutt’altro che quella di uno che con il solo voto degli scritti avrebbe matematicamente conseguito il diploma.
Precisazione 2: nella mia classe sono usciti in 17 su 27 con un voto compreso tra 60/100 e 61/100, cosa che mi dava margine per pensare che, prima di segare me, avrebbero dovuto segare troppe persone e che quindi potevo permettermi di accettare la sfida.
Precisazione 3: i membri di commissione esterni alla maturità sono la ragione per cui io, a 44 anni, non sto ancora cercando di diplomarmi. Perchè, si può pensarla un po’ come si vuole, ma se 17 alunni su 27 arrivano alla maturità con una media che permette di ambire massimo a 60 e 61 o tutti gli idioti del 1981 iscritti al liceo scientifico Paolo Frisi di Monza furono scientemente raggruppati dentro un’unica sezione, oppure forse c’era qualcosa che non funzionava benissimo nell’equipe di luminari professori che ci ha portati in quinta.
Precisazione 4: non ricordo che genere di scommessa ci fosse in ballo col professore di cui sopra, ma ricordo che si rifiutò di concedere vittoria perchè “io intendevo con il gonnellino di paglia e i cocchi sui capezzoli”. A costo di citare Michael Bay: questa, giuro, continua ad essere una storia vera.

Questo racconto serve a dire che il punto della maturità, ma se vogliamo di tutto il mio percorso al liceo, per me non è mai stato il voto. E’ sempre stato sopravvivere. E  non lo dico con il tono melodrammatico di chi “ai miei tempi sì che il liceo era una roba pesa”, ma perchè era davvero così. Era una guerra, psicologica, contro i professori, combattuta sui due fronti ad armi impari. Una cazzo di guerra di resistenza. Solo che, anche se provavano tutto ciò che fosse in loro potere per buttartela al culo, i miei professori avevano quantomeno il merito di riconoscere l’onore delle armi a chi riusciva a difendersi, in un modo o nell’altro, e restare in piedi. Gente come me, che tirava serenamente a campare galleggiando sulla soglia della sufficienza non tanto/solo per la mancanza di voglia di studiare, ma anche/soprattutto per la volontà strenua di non dar loro alcuna soddisfazione.
Precisazione 5: in 5a liceo io mi presentavo ai compiti in classe di latino senza dizionario. Dopo cinque anni di sonore insufficienze era evidente che avere o meno il Castiglioni/Mariotti con me non facesse alcuna differenza, ma era altrettanto evidente che non fosse necessario esplicitare in modo così veemente che di prendere l’ennesimo 4 non me ne fregava grossomodo un cazzo.
Precisazione 6: il mio prof. di italiano e latino adorava uno dei miei migliori amici (aka Orifizio). Prima dell’orale di maturità si accordarono su quel che avrebbe voluto gli chiedesse e, essendoci stati io ed un altro paio di testimoni, lo chiese anche a noi. Io non avevo mai avuto un rapporto con il mio prof di italiano, come avrete potuto intuire dalla precisazione precedente. Quando mi chiese “Mancuso, cosa preferisce che le chieda?” io risposi “Mi chieda quello che vuole”. Lui mi guardò negli occhi e mi disse: “Le chiedo Ungaretti”. Per un secondo l’avevo preso come un gesto distensivo, che riconosceva la mia schiena dritta nel momento della verità. Poi mi presentai davanti alla commissione e mi sparò una domanda volutamente incomprensibile, forse per testare i miei limiti o forse per farmela pagare, non lo so. Io partii a nastro parlando di Ungaretti e ancora oggi non ho idea se quel che dissi era la risposta a quel che aveva chiesto o meno. Lui si limitò ad un “può bastare” dopo un paio di minuti di monologo e io passai alla materia successiva.

Non lo so che idea si possa fare una persona esterna nel leggere queste righe, ma per me quelli delle superiori sono stati anni bellissimi. Mi hanno insegnato tutto quello che oggi ritengo importante per vivere in questo mondo di merda.
Precisazione 7: a meno di un mese dalla fine della 5a viene indetta simulazione di terza prova d’esame. Le materie erano fisica (media dell’8 da tre anni, inscalfibile), inglese (grossomodo sempre sotto dalla 1a) e filosofia (media del 7 letteralmente sudata col sangue dopo una debacle totale su Kant nel primo quadrimestre). Nel tentativo di salvare questo terzo risultato, bigio. Al rientro, la prof. di fisica mi disse, testualmente: “Lei pensa di avere 8 in pagella saltando l’ultimo compito?”, poi mi chiamò alla lavagna e mi fece fare scena muta. Volutamente, per darmi 4. Unica insufficienza in fisica mai presa. La settimana successiva, mi chiamò di nuovo fuori, a sorpresa, chiedendomi se volessi recuperare. Feci una bella interrogazione, presi di nuovo 8. “Bravo. Peccato per il 4 della scorsa settimana, ma la porto comunque all’esame con 7”. Ed era la prof. a cui volevo più bene (e che ne voleva di più a me).

E’ giusto, doveroso anzi, sviluppare un certo antagonismo verso il sistema scuola durante l’adolescenza. Perchè la scuola è fondamentale, ma non perfetta e i professori ti aiutano a crescere anche per il fatto che sanno essere degli stronzi senza pari. Chiudere il liceo in cinque anni combattendo contro di loro è stata la mia vittoria più grande. Più di qualsiasi trenta preso all’università, più del dottorato, più di qualsiasi successo lavorativo se in quel che ho mai fatto ci possa essere qualcosa di definibile come “successo”. Mettendo lo stesso impegno nello studio, invece che in questa sfida continua, ce l’avrei fatta uguale e probabilmente anche con un bel voto, ma per me era più importante tenere il punto.
Precisazione 8: in prima liceo, a un mese dall’inizio di un percorso scolastico nuovo in un ambiente in cui conoscevo letteralmente quattro persone, un “amico” di quinta conosciuto in oratorio mi chiese se mi andasse di far parte della loro lista per il consiglio di istituto, che gli mancava uno. Scoprii, tardi, che era una lista di CL. Avevo quattordici anni. Per diversi prof. ero e sono rimasto CLino per cinque anni, con tutta la simpatia che ne può conseguire in un ambiente come quello del liceo in cui andavo io alla fine degli anni novanta (ho ancora amici che me la menano per sta cosa. Dopo trent’anni.). A me, però, di andare a spiegare che non fossi CLino non è mai interessato, mi faceva ribrezzo l’idea di doverlo fare. L’idea che mi avrebbero valutato diversamente.

Quindi boh, a me non è che faccia tutta questa impressione uno studente che, col culo al caldo della promozione aritmetica conseguita sulla base di essere stato cinque anni per benino dentro ai binari, se ne esca con l’idea di “boicottare l’orale di maturità”.
Però se a questi ragazzi sarà utile per provare a tirare delle somme e crescere con un’idea della vita che gli consenta, anni dopo, di continuare a vedere il confine tra il giusto e lo sbagliato anche quando ci si rende conto di non poter più essere (o forse non essere mai stati) dalla parte del giusto, non quanto si sarebbe voluto, allora fanno bene a farlo. Sicuramente, gli servirà di più di qualsiasi versione, teorema, poesia o legge della termodinamica imparata nei cinque anni precedenti.


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Massimo Coppola che si incazza

L’altro giorno sono incappato in questo video qui sotto.
Premessa: non conosco il podcast, non conosco chi lo conduce. Ci sono arrivato perchè YT mi ha profilato, giustamente, come uno a cui piacciono le polemiche, ma poi me lo sono guardato davvero perchè l’intervistato, Massimo Coppola, è un personaggio di cui mi interessa conoscere le opinioni.
Lo riporto qui sotto, dura un’oretta, poi sotto scrivo qualche riflessione.

Guardandosi tutto il contenuto ci sono ovviamente delle problematiche grosse, che vanno ampiamente oltre il “conflitto” finale a cui si arriva in maniera se vogliamo anche inaspettata.
Il primo problema è il conduttore, in generale, ma soprattutto in relazione ad un ospite come Coppola. Il tipo rappresenta, a mio avviso, un po’ il tipico podcaster attuale, che definiremo “alla Gazzoli”: uno con niente da dire o comunque a cui non interessi dire nulla mentre fa un podcast, che si limita a imbeccare l’ospite con domandine superflue e un po’ del cazzo sperando che sia poi l’altr*, eventualmente, a rendere il contenuto interessante facendo, se e quando vuole, un passo in più. E’ un modo di condurre le interviste di cui comprendo il razionale e che può anche funzionare, pur trovandolo io, personalmente, detestabile. Solo che dall’altra parte ci deve essere un*ospite che accetti la cosa, per qualche ragione che può andare dall’etica, al rispetto per l’impegno preso fino alla necessità di non ostacolare la promozione per cui si trova nella stanza. Se l’intervistat* accetta può scegliere di stare al livello proposto e regalare a chi guarda un’ora di vuoto pneumatico, oppure alzare l’asticella portando la conversazione su un altro piano. Se, ripetiamolo, accetta l’assunto.
Nel caso specifico, Massimo Coppola non lo accetta manco un po’ e, fin dal principio, appare intenzionato a farlo notare. Verrebbe da chiedersi perchè abbia deciso di andarci, che aspettative avesse, ma non ha molto senso da parte mia stare a fare dietrologia, restiamo su quel che si vede. L’evidente rifiuto, legittimo, di Coppola a prestarsi ad una chiacchierata sterile e superflua si traduce però in un atteggiamento di maleducazione rara che, fin dalle prime battute, avrebbe messo a dura prova i nervi di qualsiasi persona. Il tipo però, gli va riconosciuto, invece di mandarlo a fare in culo come avrebbe diritto di fare, trovandosi in casa propria, cerca di abbozzare e prova a mantenere il dialogo aperto. Da questo lavoro pazzesco esce un’oretta scarsa di contenuto a mio avviso valido, in cui anche Massimo Coppola di tanto in tanto dimentica di volersi mettere di traverso e contribuisce dicendo cose interessanti. E’ uno strazio da seguire, per via dell’atteggiamento di cui sopra, ma almeno ci sono dei concetti.
In questo clima, si arriva alla situazione finale non con un climax di tensione crescente che sarebbe stato anche ipotizzabile visti gli inizi, ma proprio al contrario. Lo scontro nasce nel momento in cui sembravano poter arrivare in fondo. Volendo entrare nel merito, senza spoiler: la domanda incriminata era quantomeno mal posta se non completamente idiota nella logica fondante? Sì. C’erano gli estremi per alzarsi ed andarsene? Per me no, per Coppola sì e quindi ha fatto bene a farlo. Il modo in cui se n’è andato è criticabile? Boh, sembra l’atteggiamento di uno schizofrenico: si alza, saluta con rispetto spiegando di non poter andare avanti, porge addirittura la mano e poi uscendo urla minacce risibili e del tutto antitetiche con la posizione di uno che “non tollera i fascismi”. Onestamente però anche di quello mi interessa relativamente.
La roba su cui volevo ragionare con questo post è un’altra. Coppola non è un politico, non gli è richiesto di usare una strategia comunicativa utile al messaggio in cui crede. Non è il suo ruolo rappresentare la sinistra e può fare quello che vuole, rispondendone come individuo. Però non è neanche idiota, credo, certamente non al punto da ignorare che il suo atteggiamento di chiusura e di arroganza (reale o ostentata che sia) possa avere una conseguenza che va oltre il farsi un’opinione di Massimo Coppola. Specie in un contesto sociale in cui sembra evidente la sinistra, come macro categoria intellettuale, abbia come primo problema l’incapacità di parlare con le persone. E quindi boh, forse uno sforzo in più anche persone come Massimo Coppola, a cui non è richiesto un cazzo, dovrebbero provare a farlo.
Nulla più di questo, in realtà.


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La serie su Mussolini

Ci sono un po’ di riflessioni che mi stanno girando per la testa riguardo la serie “M. il figlio del secolo”, di cui si parla così tanto in giro che è diventato impossibile non farcisi un’opinione.
La mia era anche piuttosto semplice: non mi interessa.
Il fascismo è un argomento che ho studiato a scuola e di cui so tutto quello che credo di aver bisogno di sapere. Se mi interessasse approfondirlo, penso che partirei dai libri di storia. Non è un argomento di cui apprezzo particolarmente la spettacolarizzazione, quale che sia il tiro con cui viene fatta, ma penso si tratti semplicemente di gusto personale. La storia è costellata di tantissime tragedie che non ho minimamente problemi vengano romanzate sullo schermo. Di alcune ho conoscenza storica e riesco a vedere il confine della fiction, per altre meno e mi serve approfondire in un secondo momento, di altre ancora mi frega talmente poco che prendo tutto per finto e ‘sti cazzi.
Col fascismo, con la figura storica di Mussolini in particolare, non ce la faccio. Per quanto venga riproposta come grottesca o caricaturale, faccio tantissima fatica a sopportarla e digerisco malissimo qualsiasi prodotto la contempli. Problema mio eh, che si risolve facilmente non guardando roba come Sono Tornato o, appunto, M. Il figlio del secolo.
Quello che invece penso sia un po’ meno un problema mio è che negli ultimi cento anni i confini ben marcati di una storia infame si siano via via sbiaditi, che con l’alibi del “Eh, ma la storia la scrivono i vincitori” si siano aperte le porte del vale tutto e che oggi, di fatto, sia possibile avere del fascismo un’opinione diversa dal disgusto, partendo dal cherry picking del “anche cose buone” fino alle più sfrontate rivendicazioni di appartenenza. Spesso, ironicamente, presentate come qualcosa di impopolare e coraggioso anche se sbraitate da cariche istituzionali che guidano il Paese forti di un largo consenso popolare.
Ora, io non penso che la serie su Mussolini abbia minimamente a che fare con questo problema, nè che possa in alcun modo spostare qual si voglia pedina in questo scacchiere. Però mi sembra di venir preso un po’ per scemo quando mi si vuol far credere che mettere in piedi un’opera del genere possa avere qual si voglia attinenza con l’antifascismo. E’ una serie TV, uno spettacolo, intrattenimento. Dargli qualsiasi ruolo o peso pedagogico è sempre e comunque sbagliato.
Qui, quindi, parto con mie personalissime dietrologie che, a pelle, mi fanno percepire una certa disonestà intellettuale attorno al prodotto. Io non ho (a grandissime linee) niente contro il fatto che una serie sul duce oggi giochi a cavalcare/monetizzare un fenomeno allarmante, mi dà più fastidio se chi lo fa finge di non saperlo. E non mi riferisco alle interviste di Marinelli, che meritano un discorso a parte, ma proprio a tutto il dibattito che gira attorno alla promozione della serie da parte degli addetti ai lavori.
Una serie che, oltretutto, da quanto leggo presenta un Mussolini che nel suo essere grottesco presta tantissimo il fianco alla libera interpretazione di dove finisca la storia ed inizi la finzione. Non so, mi ricorda un po’ quel fenomeno di anni fa su twitter (rip) in cui gente che si credeva particolarmente acuta metteva in giro fake news agghindate a meme allo scopo di ridere di quelli che abboccavano. Boh, non mi è mai sembrata la giusta strategia comunicativa, ci vedo più un tentativo di autoproclamarsi intelligenti.
Ecco, secondo me una domanda in testa uno dovrebbe porsela prima di dare anche solo uno spiraglio alla misinterpretazione di Benito Mussolini.

Dicevo di Marinelli e delle sue interviste. Non metto link, ce ne sono mille perchè la promozione della serie è davvero una roba molto grossa e le domande che gli vengono fatte sono più o meno sempre quelle (e poi non credo esista un singolo lettore di questo blog  che abbia mai, anche per sbaglio, cliccato su uno dei link.).
Tra i temi ricorrenti c’è il suo rimarcare con ossessione l’essere antifascista e quindi la difficoltà di interpretare un personaggio per cui lui ha un giudizio netto e negativo, ma che si è trovato costretto a sospendere per tutto il tempo della recitazione come richiede il mestiere dell’attore. Non metto le virgolette perchè sto parafrasando a memoria, ma credo di essere stato piuttosto accurato nella riproposizione.
Acting is not endorsement.
Non lo so, ma io ammattisco attorno a sto concetto e credo di averlo già dimostrato.
Sei un attore, interpreti personaggi che possono essere negativi. Ci sta. Sei bravo perchè riesci a farli senza essere come loro. Rimarcarlo nello specifico per questa interpretazione fa parte del discorso di cui sopra, ovvero il cavalcare un fenomeno, alimentare un dibattito “divisivo” (cristoddio) ed è evidentemente solo ed esclusivamente marketing. Per quanto per me una serie così non dovrebbe esistere, non ho nulla nei confronti di chi la guarda, di chi l’ha fatta e di chi ci recita. Sono anche abbastanza sicuro, leggendo i nomi che l’hanno tirata in piedi, che sia un ottimo prodotto. Per favore però risparmiatemi le minchiate che buttano solo benzina sul fuoco e che danno adito, quelle sì, ai peggio starnazzamenti di quelli che non vedono l’ora di potersi sentire/raccontare accerchiati mentre tengono in mano le redini del Paese.


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Una volta qui erano tutti pezzi d’opinione

A Ladispoli hanno deciso non sia più il caso di far esibire Emis Killa a Capodanno (ref.).
Onestamente dopo questa frase fatico anche ad andare avanti a scrivere perchè basta rileggerla due volte per rendersi conto di quanto si stia effettivamente discutendo del niente più assoluto. Siccome però è molto probabile io adesso parta con un pistolotto infinito tra il filosofico e lo psichedelico, mi sa che ogni tanto la riprenderò per riportare l’implausibile lettore al fatto che stiamo comunque discutendo di Ladispoli che non fa esibire Emis Killa.
Ad ogni modo.
E’ successo che dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin il dibattito relativo al femminicidio e alla violenza sulle donne è tornato, come capita ogni volta, d’attualità. Come capita ogni volta, abbiamo assistito ad ogni genere di volteggio attorno all’argomento nel tentativo di “fare qualcosa in contesto” ed entrare nel dibattito nazionale. Su questa cosa non voglio scrivere altro perchè mi fa troppo disgusto e sono ancora troppo incazzato, perdonatemi.
Torniamo quindi a Ladispoli che “non vuole essere da meno, anche lei il suo vagone da attaccare in fondo al treno” (cit.) e così il sindaco decide che il concerto di Emis Killa previsto per capodanno non si farà. Il rapper, ci spiegano, rischia di veicolare un messaggio sbagliato. Qualcuno in sostanza potrebbe non capire che quella di EK sia una rappresentazione cruda della realtà e non un invito alla violenza di genere. Cliccate sul link che ho messo, vi prego. Anzi, ve lo rimetto qui. Il comunicato dice davvero così.
Un tentativo incredibile di equilibrismo tra il fare qualcosa (a caso) intorno al tema della violenza di genere, tenersi comunque buono l’artista (perchè non è colpa sua eh, è il pubblico che non capisce) e giustificare il fatto che i testi di Emis Killa fossero lì esattamente uguali anche quando l’avevano fatto suonare l’anno precedente. 
Io qui mi devo fermare a respirare, che se no attacco a bestemmiare.

Parliamo di Emis Killa.
Ho appena cancellato un paragrafo infinito in cui riprendevo “esternazioni discutibili” del tipo, perchè di fatto non ha senso stare qui a discutere il personaggio. La cosa su cui però dovremmo ragionare, tutti, è che questo episodio di Ladispoli gli permetterà di continuare la sua crociata verso il “politically correct che non ti fa più dire niente”. Un argomento particolarmente caro all’artista e a tanti suoi colleghi nel genere, stando ai quali esisterebbe una sorta di PC Army che non permette loro di esprimersi liberamente. Un esercito che, immagino, abbia il giorno di riposo ogni volta che Emis Killa dice: “Quelli del politicamente corretto devono succhiarmi il cazzo” su un palco e di fronte a centinaia o migliaia di persone. Perchè è quello il punto. Una fetta nutritissima di rapper sostiene che esista un limite a quello che si può dire nelle canzoni, ma simultaneamente bercia orgoglioso di battersene il cazzo.
E allora che limite è?
Soprattutto: come siamo arrivati a farci convincere che non aderire a quelli che dovrebbero essere diktat del politically correct sia qualcosa di speciale e/o anticonformista? La maggior parte dei rapper si vanta di farlo e stando alle classifiche i loro dischi sono l’unica musica ascoltata nel Paese. Potete dirmi che siano gli artisti ad influenzare le masse, ma io ho sempre pensato che siano le masse ad influenzare gli artisti, soprattutto quelli che hanno la spasmodica necessità di flexare i propri numeri. Non ho il minimo dubbio che Emis Killa creda davvero in quel che dice, ma sono anche sicuro che se le sue idee politiche e sociali togliessero incassi più di quanti ne portano, inizierebbe a tenersele per sè.

“Se il politically correct non esiste, perchè non lo fanno suonare a Ladispoli? EH?”
Il politically correct esiste, ma non ha niente a che fare con una scelta opportunistica ed evidentemente sporadica fatta dal sindaco di Ladispoli.
Il politically correct, se proprio vogliamo chiamarlo così, è un insieme di valori che si sta facendo strada nella nostra società e sta rivoluzionando alcuni aspetti del nostro vivere. Non mi interessa neanche star qui a dire se in modo positivo o negativo, quella è opinione soggettiva, ma di sicuro non è oggi un pensiero dominante o tantomeno una legge inderogabile.

Un’ultima cosa.
Qualche settimana fa Marky Ramone avrebbe dovuto suonare al CSA Baraonda, ma non è salito sul palco perchè era esposta la bandiera palestinese. I ragazzi del CSA si sono rifiutati di toglierla e gli hanno detto che poteva benissimo non suonare.
In questo articolo è inserito un video in cui spiegano al pubblico quello che è successo e, secondo me, hanno fatto molto bene a dirgli di tornarsene a casa.
Io, però, la schiena dritta di Marky Ramone la rispetto. Combatte per delle idee di merda, ma si fa carico delle conseguenze che questa linea gli porta.
La cosa che fa ridere, di tutta la questione Emis Killa, sono le stories in cui fa la vittima. Se davvero sei convinto di lottare contro un pensiero unico e di ribellarti ad un sistema, devi tenere la testa alta.
Altrimenti sei solo uno che grida slogan di comodo per fare il bulletto davanti ai fan.


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Addio, Silvio Berlusconi

Sono nato nel 1981, quindi l’Italia di Silvio Berlusconi me la sono vissuta tutta, col suo periodo di maggior rilevanza politica che è grossomodo coinciso con il mio periodo di maggior fervore giovanile.
Siccome mi imbarazzano molto le cose che scrivo (a ragione, direte voi) non mi metto a fare una verifica, ma dal 2005 ad oggi credo di aver speso parecchie parole qui sopra parlando di Berlusconi. Probabilmente con tante diverse sfumature di odio e disprezzo.
Non mi pento di nulla e non rinnego niente.
Nel giorno della sua morte però, mi prendo qualche altra riga per due concetti che vorrei lasciare qui sopra a chiudere il discorso.

UNO:
Io lo so che noi millennials tifosi dell’AC MILAN dobbiamo tantissime vittorie meravigliose a Silvio Berlusconi.
Però:
– Celebrarlo per il Milan è, letteralmente, dire: “Ha fatto anche cose buone”
– Il calcio dei ricchi che, spero, fa tanto schifo a tutti lo ha creato lui.
Quindi oggi, secondo me, non dovremmo dire niente. Abbiamo goduto di Van Basten, Sheva e Kakà come tutti i privilegiati che dalle briciole degli interessi personali di SB hanno raccattato il proprio benessere.
Teniamoci stretti i ricordi, ringraziamo la sorte, e finiamola lì.

DUE:
In Game of Thrones, quando muore il Night King, immediatamente tutti gli zombie da lui creati cadono a terra e smettono di essere un problema.
Con la morte del cattivo il male finisce di colpo, come con un colpo di spugna, e la storia cambia. Per quello i buoni festeggiano, per quello lo spettatore esulta. La morte cancella i problemi insieme a colui che li ha creati.
Nella realta, purtroppo, non siamo così fortunati. 

C’è poco da festeggiare.


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Quella cosa dell’ad di Tommy spiegata bene

Succede che sto scrollando il feed di Facebook e mi appare questo ad di Tommy Hilfiger che, come credo nell’intenzione di chi l’ha pensato, mi fa bestemmiare.
Così apro wordpress e inizio a mettere insieme i pensieri al fine di argomentare la mia bestemmia, solo che ad una certa penso: “E se, invece, la buttassi in vacca?”. Mi capita spessissimo di pensarlo, ma direi che da qualche anno a questa parte 9 volte su 10 desisto, inseguendo il miraggio del mio quieto vivere. ‘Sta volta no.
Questa volta chiudo wordpress, apro i social e me ne esco con questa cosa qui:

Detesto essere quello che spiega le barzellette, anche quando non fanno ridere, ma tocca provarci: credo sia evidente il patriarcato sia ancora esattamente dov’era quando Tommy nelle pubblicitá ci metteva Gigi Hadid. Non sono peró neanche qui a darmi il tono di quello che “era un esperimento sociale”, “era solo una provocazione” o, peggio, “mi avete frainteso”.
Sono davvero convinto che la scelta di modellǝ distanti dai canoni comuni di bellezza (e, precisiamolo, non é tanto/solo questione di taglia) sia una stupidata e adesso elencheró le mie ragioni per punti.

1) Mi dá profondamente fastidio l’ipocrisia di base. Non dei brand peró, delle persone. Di quelli che se Volkswagen pubblicizza ormai solo modelli ibridi o elettrici é greenwashing, mentre Tommy fuckin’ Hilfiger che piazza una ragazza selezionata appositamente per non risultare bella a nessuno (perché se non é trasversale, la campagna non funziona) sia da applaudire. O cavalcare certe lotte per ritorno commerciale é sbagliato sempre, o non é sbagliato mai. Solo i Sith vivono di assoluti, ma Yoda diceva: “do or do not, there is no try” quindi mollatemi, che anche in questo caso mi pare si stiano usando due pesi e due misure sulla base del tifo.
Dei brand che si appropriano di valori non necessariamente loro per vendere avevo parlato qui tempo fa, quindi non sto a ripetermi e vado avanti.
2) Smantellare i canoni di bellezza é una chimera del cazzo. Mi sembra assurdo doverlo stare a dire, ma in una societá in cui siamo costantemente esposti a dei modelli, chi sceglie questi modelli ci plasma sulla base del costruire in noi delle aspirazioni a cui omologarci, possibilmente acquistando ció che serve. Nel momento in cui ci andiamo tutti meravigliosamente bene cosí come siamo, finisce che non ci serve piú niente e, da dove la sto guardando io (AD 2023) non siamo destinati, come specie, all’assenza di necessitá.
Appurato questo, io credo che il problema non sia mai nel tipo di modello a cui ci chiedono di tendere, ma nella nostra capacitá di accettare il nostro esserne distanti, ma qui andiamo a dove bestemmio piú forte, ovvero il punto
3) L’EDUCAZIONE NON LA FA LA PUBBLICITA’. Non é e non sará mai il suo ruolo e, anzi, sarebbe dannosissimo delegarle quella funzione. Ci servono gli strumenti per comprendere il ruolo della pubblicitá e per costruirci la self confidence necessaria a guardare un poster con Cristiano Ronaldo o Jennifer Lawrence senza sentirci dei falliti. E lo strumento non é convincersi che su quel poster potremmo/dovremmo starci anche noi. Perché?
4) Perché ci saranno sempre ambiti in cui ognuno di noi funziona meglio o peggio. Stare in mutande su un cartellone ha un’unica valenza ed é estetica. Non c’é merito nell’avere quella dote come non c’é merito nell’essere alti due metri o avere una mente piú brillante della media. Sono fortune, che volendo richiedono anche un certo impegno/sacrificio per non essere vanificate, ma che di fatto apriranno alcune porte con piú facilitá. Di nuovo, lo scopo dovrebbe essere avere porte per tutti ed essere capaci di scegliere le proprie, non pretendere di passare tutti dalle stesse.
5) Dovremmo anche smetterla di raccontarci che la bellezza abbia qualcosa a che vedere con il patriarcato. Il patriarcato ha a che vedere solo col potere.
Questa cosa la spiega benissimo il porno, che é (anche giustamente) accusato di essere uno dei fattori che contribuiscono a radicare un certo tipo di mentalitá negli uomini. Nel porno ci sono categorie di ogni tipo, per fantasie di ogni tipo. Il porno é maschilista perché fallocentrico e costruito attorno al piacere maschile, quando lo si accusa perché “alimenta fantasie verso standard di bellezza stereotipati” si manca clamorosamente il bersaglio. Anche fosse, peró…
6) Dovremmo assolutamente smetterla di criminalizzare la fantasia o, peggio, costruire una societá che per evitare delusioni ci forzi a sognare in piccolo. Vaffanculo. La fantasia é un paradiso che esiste davvero, a comando, per compensare qui ed ora un’esistenza non sempre all’altezza di essere l’unica che avremo a disposizione. 

Per questi motivi, quando vedo quel tipo di ad, mi monta il nervoso. Sono tutti punti ampiamente dibattibili e non condivisibili, ci mancherebbe. Senza togliere che l’uscita con cui ho provato a esplicitare il dissenso possa essere considerata “infelice”. La cosa che, come sempre, mi fa un po’ sbarellare é la reazione social a questo tipo di uscite.
Su FB, dove di massima conosco le persone che vedono quel che scrivo, c’é un po’ piú di propensione al dubbio e meno tendenza al giudizio tranchant. In tanti avranno letto quel post pensando “che cazzata”, ma se qualcuno pensa che io sia un coglione non lo pensa (solo) per via di questo post cosí come non sará un post a fargli cambiare idea domani. Conoscendomi, qualcuno di quelli che ha pensato fosse una cazzata si é premurato di dirmelo, anche solo per incasellarla nell’idea che ha di me.
Su twitter la cosa é ovviamente diversa, ma io sono un cretino e penso che non lo sia.
Penso che chi mi segue un po’ mi conosca e che quindi non mi giudichi ogni volta da zero, ad ogni tweet, sfanculandomi alla prima uscita “non conforme all’atteso”, eppure so benissimo che non é cosí che funziona da quelle parti. Mi ostino a cercare in quel posto interazioni/relazioni che non sono nella natura del contesto (salvo eccezioni che peró rientrano nel tipo di persone simili al profilo che ho descritto per FB).
E quindi finisco sempre nello stesso loop, a ragionare di come si possa avere aspettative cosí alte nei confronti di chi ci sta intorno, responsabile di dover dire sempre e solo cose condivisibili.
Boh, io non ce la faccio.


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Milano 30

Provo a mettere in fila un po’ di pensieri in merito alla proposta portata in giunta da Marco Mazzei per l’abbassamento del limite di velocità a 30km/h in tutta l’area urbana di Milano.
Lo faccio perché, come spesso accade, il dibattito si è immediatamente avvelenato ed è diventato complesso prendere una posizione senza finire a litigare, ma anche farsi un’idea senza obbligatoriamente impantanarsi dentro una delle due fazioni. Cosa che a me fa sempre tanta tristezza.
Partiamo quindi con una premessa: essere scettici verso questa idea non vuol dire non vedere il problema che cerca di risolvere né pensare che non sia importante risolverlo.
Non per forza e non nel mio caso.
C’è una clip di Immanuel Casto al Breaking Italy podcast che spiega bene perché questa premessa sia importante*. Io sono convinto che a Milano ci siano problemi di traffico, inquinamento e sicurezza stradale e sono iper d’accordo a lavorare per risolverli, ma resto scettico sul fatto che questa sia la via migliore per arrivarci e adesso provo a spiegare perché.
Prima però metto il link a un’altra clip in cui lo stesso Mazzei spiega nel merito le argomentazioni che supportano l’idea, perché credo sia giusto partire da lì.
Guardatela e poi leggete il resto, se vi va.

Le argomentazioni principali a supporto dell’idea, oltre alla sempre irritante “lo fanno anche X e Y” che non prendo volutamente in considerazione, sono essenzialmente tre.
1) Più sicurezza.
La base di partenza dell’idea è che, stando ai dati, essere investiti da un’auto a 30km/h non sia letale, mentre a 50km/h lo è. Inoltre, il tempo di arresto a 50km/h è di 25m mentre a 30km/h è di 10 metri. Io non sono ovviamente qui a contestare questi numeri, ma a mio avviso può essere utile ragionarci sopra.
Faccio un parallelismo che non vuole essere una provocazione, ma spero aiuti a capire il mio punto. La causa del 100% delle morti per incidente aereo è l’altezza. Indiscutibile. La soluzione però non può essere “facciamo spostare gli aerei a terra”, deve essere “rendiamo il volo il più sicuro possibile in modo che il pericolo intrinseco legato all’altezza venga neutralizzato”. Abbassare il limite di velocità a 30km/h per me usa lo stesso principio logico del tenere gli aerei al suolo ed è un modo reazionario di approcciare i problemi che non mi appartiene. Io punto sempre a soluzioni che ci portino un passo avanti e non indietro, quindi nello specifico dovremmo puntare a muoverci più velocemente ed in modo più sicuro, sfruttando la tecnologia che abbiamo a disposizione. Torniamo a quei numeri sullo spazio di frenata. I famosi 25m di cui sopra non possono essere intesi come “assoluti” perché dipendono certamente dall’efficienza dell’impianto frenante, ma soprattutto dai tempi di reazione di chi guida. Tempi che con la tecnologia corrente per la frenata assistita possono ridursi. Più importante però é che quegli stessi tempi si allungano se chi è al volante non sta prestando la dovuta attenzione, indipendentemente dalla velocità a cui sta guidando. Quindi il problema principale, per me, non è fare andare questa gente più piano, ma farla guidare con la dovuta attenzione e spingerla a dotarsi di tecnologia di sicurezza che subentri in caso di errore.
Vedo ovviamente arrivare l’obbiezione: “La gente non smetterà mai di stare al telefono mentre guida”, ma se questo è il presupposto potrei rispondere con i dati che certificano la propensione degli italiani ad infrangere i limiti di velocità e finiremmo in un cul de sac.
Quindi, riassumendo, non dico che questa idea non vada nella direzione di una maggiore sicurezza. È vero e, in questi termini, se applicata perfettamente porterebbe benefici. Non sono propenso a giustificare i mezzi per via del fine, peró, e io discuto unicamente quello.
2) Meno inquinamento.
Qui non ho molto da dire per controbattere, perché non ho dati concreti in mano. L’altra sera la mia formazione scientifica mi ha portato a fare un po’ di test con la mia auto (un 1.6 diesel di sei anni fa), perché tramite computerino di bordo posso monitorare i consumi.
Percorrendo lo stesso tratto di strada in condizioni di velocità costante (quindi non in fase di accelerazione né decelerazione) e stesso numero di giri motore (circa 1200), per mantenere i 30km/h devo viaggiare in terza marcia, mentre i 50km/h li ho mantenuti in quarta. In queste condizioni la mia auto consuma di più tenendo i 30km/h (non tanto di più), credo per via del fatto che i motori moderni non sono pensati per essere efficienti a quei regimi di utilizzo. Al netto di questo, credo il reale abbattimento sia legato alla riduzione delle accelerate che, causa traffico, portano costantemente a passare da zero a 50km/h. Dovendo andare da 0 a 30km/h queste accelerate sono meno veementi e riducono le emissioni, ma questo ci porta diretti al punto
3) Il traffico.
L’obbiezione più ovvia, che poi cosí ovvia forse non è, rimane: “Se riduco la velocità, ma mantengo inalterate le distanze da coprire, il tempo deve aumentare. Se aumenta il tempo, aumenta l’occupazione delle strade per singolo veicolo e, di conseguenza, il traffico”.
A questa cosa ho visto rispondere in modi diversi, che cito per completezza di argomentazione.
– “Nel traffico si viaggia a 12km/h di media, non a 50, quindi non cambia nulla.”. Non può essere vero, perché la velocità media dipende dagli estremi. Se abbassi gli estremi, si abbassa anche lei. Quindi è una non risposta, oltre ad essere un’argomentazione boomerang che porterebbe a ribattere: “Allora non c’è alcun problema di sicurezza, visto che a 12km/h ci si arresta in meno di 10m e non si è letali”.
– “Il tempo di percorrenza non cambia abbassando la velocità perché è determinato in misura maggiore dalle soste ai semafori che non dalla velocità di spostamento.”. In pratica, andando più veloce passi solo più tempo fermo al semaforo, ma ci metti uguale ad arrivare. Questa è un’argomentazione già più sensata, che però dovrebbe tener conto di un fattore. La proposta di Milano 30 prevede un cambiamento nelle tempistiche dei semafori volta a favorire un maggiore scorrimento ed un minor fenomeno di “stop&go”, reale causa di traffico e smog. Benissimo. Se coi limiti attuali, dove sicuramente la velocità dovrebbe portare ad uno scorrimento maggiore, questo non avviene forse si dovrebbe puntare il dito proprio verso una gestione poco corretta dei semafori che impediscono al traffico di defluire come potrebbe. In altre parole: la gestione perfetta dei flussi che si pensa di implementare per Milano 30 avrebbe molto più effetto ed efficacia sul traffico (e forse anche sullo smog) se adottata per Milano 50. A meno di ragioni per cui questa cosa si possa fare con il limite a 30km/h e non si possa fare con il limite a 50km/h, ma non ho sentito nessuno dire questa cosa né fare una domanda in questa direzione.

Questi i dubbi nel merito, razionali, a cui si somma un preconcetto costruito in anni di vita a Milano. Sbaglierò, ma se ci fosse davvero la voglia di cambiare, alla messa in vigore della norma (anzi, diciamo 3 mesi dopo per evitare effetto sorpresa) dovrebbe partire un’operazione costante di vigilanza e sanzionai. Non perché io sia particolarmente favorevole al metodo coercitivo, ma perché se applichi una politica intransigente per forza di cose “educhi” i cittadini a rispettare il vincolo. Se invece sanzioni ogni tanto, magari all’occorrenza di bilancio, il messaggio che passi ai cittadini è che quella norma non esiste, che infrangerla è un rischio ponderabile e che le multe sono essenzialmente questione di sfiga. Se così sarà anche questa volta, credo davvero Milano 30 non possa portare alcun beneficio alla città. 
Ultima nota.
Da dati non recentissimi che ho trovato online facendo un minimo di ricerca, quindi senza perderci il sonno, il 50% del traffico cittadino di Milano è di transito da o verso fuori, quindi di persone che non possono valutare spostamenti ad impatto zero come andare in bici o a piedi. Chi si muove dentro la città già usa i mezzi 4 volte su 10 perché a Milano, checché se ne dica, il trasporto pubblico funziona bene. Tra i restanti, il numero di persone che si sposta in auto è grossomodo equivalente a quello di chi va a piedi o in bicicletta. A mio avviso questo vuol dire che chi usa l’auto oggi non lo fa per mancanza di alternative, ma per scelta e sono davvero molto scettico questa scelta possa cambiare in virtù di una sbandierata maggiore sicurezza per pedoni e biciclette.

* già che ci siete guardatela tutta quell’intervista perché merita molto.


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I mondiali di Calcio in Qatar

In questa settimana ho avuto (e ho tutt’ora) il COVID. Di conseguenza sono bloccato in casa, al confino da familiari e relazioni, e mi ritrovo con porzioni ampie di giornata senza nulla da fare.
Eppure non ho ancora visto un singolo secondo di questi Mondiali.
L’idea da qui in poi è ragionare sul perché, senza (spero) scadere in paternalismi o volermi dare pose da attivista di questo e quell’altro cazzo.

In primo luogo tocca dire che se l’Italia si fosse qualificata, io i mondiali li starei guardando eccome.
Non sono un tifoso sfegatato di calcio. Seguo il Milan volentieri, ma di massima non organizzo il weekend in base a quando c’è la partita. Mi capita di farlo giusto col derby o le sfide di cartello, ma perché quelle se riesco le guardo con qualche amico e diventa soprattutto una scusa per bere una roba insieme. Coinvolgimento moderato, diciamo, e soprattutto molto correlato ai risultati. Se il Milan compete mi piace star dietro alla corsa e tifare perché ce la faccia, se non compete chissenefrega.
Con la Nazionale però è molto diverso. La Nazionale la seguo sempre con tantissimo trasporto e le sue vittorie sono probabilmente le gioie calcistiche più grandi ed esplosive della mia vita. Niente come il mondiale 2006, neanche la Champions vinta contro Inter e Juve. Nel bene e nel male eh, quindi anche niente come la finale degli Europei 2000 persa al golden gol, per me. Neppure Isanbul.
Mio figlio stesso ha iniziato a “seguire il calcio” con gli Europei 2021, non credo sia un caso.
Questa passione viscerale per la Nazionale ce l’ho sempre avuta e credo nasca dal fatto che fin da piccolo ho visto gente (fortunatamente fuori casa) litigare per il pallone, trovandolo stupido. Di conseguenza, per me era bello che la Nazionale ci mettesse tutti dalla stessa parte, a bestemmiare e/o gioire compatti.
Devo però anche dire che la cosa si è radicalizzata con l’esperienza di vita all’estero, in Germania (non un estero qualsiasi, calcisticamente parlando), e i successivi anni spesi a lavorare a stretto contatto con stranieri. Leggo sempre in giro che gli stereotipi sulle nazionalità siano falsi miti da superare, spesso dentro una retorica da “siamo tutti uguali” che ha certamente un fine positivo, ma che per me è indigeribile.
Non lo siamo.
Che i francesi siano arroganti o che i tedeschi siano rigidi non è falso. Sono estremizzazioni (forse) di differenze culturali reali e tangibili. Diventano un problema solo se pensiamo 1) di non avere difetti a nostra volta e 2) di essere gli unici legittimati ad avercela coi difetti altrui. Senza allargare ulteriormente il tiro di ‘sto post già abbastanza a maglie larghe, lo sport Nazionale, che sia il calcio o le Olimpiadi, per me è una bella valvola di sfogo per convogliare un certo senso di rivalsa e orgoglio Nazionale.
Che vivo e sento perché, ci crediate o meno, negli ambienti sociali ad alta istruzione (quindi elitari) che frequento io, essere italiani porta con sé un pregiudizio di inferiorità che tocca smantellare e che, purtroppo, lascia delle scorie che depurare col tifo è il meglio che possiamo chiedere.
Tutto questo per dire che con l’Italia io il mondiale lo avrei seguito e, quindi, che non ha molto senso parlare di boicottaggio quando non si partecipa a qualcosa che non ci interessa, senza una vera rinuncia di principio dietro.
Certo, potrei comunque guardare le altre partite, ma credo si evinca per me il calcio non sia uno sport particolarmente godibile senza la componente emotiva. Posso apprezzare una bella partita anche se non gioca una squadra che mi interessa, ovviamente, ma per il mio concetto di “bella partita” direi che si tratta di casi molto sporadici.
Però.

Però è indubbio che questo mondiale in Qatar porti alla luce il peggio di tutto quello che ruota attorno al calcio, che poi è quello che ruota attorno anche a tutto il resto: i soldi.
In una società guidata dai soldi, in ogni ambito, ci capita di avere queste epifanie in cui realizziamo che il principio non collima con i valori dello sport. Oppure, che se le istituzioni a cui guardiamo e da cui ci facciamo rappresentare non mettono dei paletti, ci sarà sempre qualcuno pronto a portare la legge dei soldi oltre i nostri limiti etici e morali, senza che noi ci si possa fare poi molto se non pretendere di più dalle istituzioni di cui sopra.
Andando al punto (finalmente, se dio vuole) in Qatar ci sono due aspetti.
Uno è quello relativo alla parte gestionale, la costruzione degli stadi tramite schiavitù (perché quello è) con annessa caterva di morti che si è portata appresso. Questa è una cosa che la FIFA aveva il dovere di osteggiare, in sede organizzativa, chiedendo garanzie diverse e mettendo vincoli. Vigilando. Possiamo dirci: “Eh, a nessuno è fregato nulla fino a ieri!”, ma non è che tutti abbiano il dovere di avere sul radar la questione. Quel dovere ce l’aveva la FIFA e non ha fatto niente.
Il secondo aspetto è quello dei diritti umani e civili, legato alla situazione politica e religiosa del Qatar.
Secondo me portare un evento mondiale in un Paese con quel tipo di gestione è positivo, perché solo mettendoli più in contatto con il resto del mondo potranno vedere cosa c’è fuori, fare dei bilanci, ed eventualmente prendere coscienza dei problemi che hanno.
L’inclusione è sempre l’unica via, perché spinge al confronto e dal confronto si impara tutti (a lungo andare).
Quindi, se lo chiedete a me, chi davvero ha a cuore mettere sul radar dell’opinione pubblica i problemi che derivano da un governo che non rispetta diritti umani e civili e ha la possibilità di prendere parte a questo carrozzone dovrebbe farlo e trovare il modo di mandare un segnale. Quale che sia. Perchè quel segnale arriverà anche a chi il problema lo ignora o non lo vede. Tirandosi fuori invece il messaggio lo si manda a chi è già consapevole ed è una cosa che ho sempre l’impressione si faccia più per se stessi che per la causa.
Aggiungo però che chi ci va, ai miei occhi, ha il dovere di porsi in merito alla questione e se decide di non farlo sta assumendo comunque una posizione politica chiara, legittima e, proprio per questo, ingiustificabile.
In tal senso chiudo citando l’editoriale di apertura di Rai Sport.

Al netto del testo, sicuramente perfettibile, mi è sembrata la posizione giusta da tenere da parte del Servizio Pubblico, che ha il dovere di esserci e di raccontare un evento di questo tipo, ma senza nascondersi e, anzi, mettendo i problemi sul radar di chi questo mondiale lo sta seguendo nonostante tutto. Un audience probabilmente meno incline a riflettere sul peso di certe problematiche e che quindi dovrebbe essere la prima a cui puntare se si ritiene che, invece, queste problematiche debbano essere nella testa di tutti.
Attivismo, secondo me, vuol dire questo.


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Il giorno dopo

Non è che vada molto meglio, rispetto a ieri, però c’è forse un filo di lucidità in più per fare un mezzo punto della situazione. 
Non mi interessa più di tanto fare l’analisi del risultato elettorale, un po’ perchè resto convinto di quel che avevo scritto prima delle elezioni e un po’ perchè ieri c’è stato modo di discuterne su twitter realizzando, come spesso, di avere una visione non proprio condivisa della faccenda. Oltretutto, stare qui a fare il processo post partita rischia di diventare un mero esercizio di stile, se non uno sfogo alla frustrazione, quindi cui prodest? Il sempre acuto account ComunqueMilan diceva che  in politica, come nel calcio, “chi perde, spiega” e non c’è davvero nulla da aggiungere.
Quello su cui però forse un paio di parole andrebbero spese è quel che succederà, tra timori e prese di coscienza.
Io non ci credo tantissimo alla cosa della deriva fascista della nostra politica, perchè ho l’impressione che in Europa quella strada non sia percorribile, strutturalmente, e che la Meloni (come Salvini prima di lei) si riscoprirà molto più europeista ora che deve portare avanti il Paese. Il problema, più che politico in senso stretto, temo possa essere sociale.
Quando la Meloni strilla che la sua vittoria permetterà a tanti di rialzare la testa e smetterla di nascondere la propria ideologia, non parla ai suoi (che ancora giustamente continuano a vergognarsi come ratti quando scappa loro un saluto romano), ma alla gente. E in mezzo alla gente ci sono brutte persone, purtroppo. 
Persone che da domani si considereranno legittimate a fare cose orrende verso i più deboli, o gli emarginati. Non perchè una nuova legge gli consentirà di farlo, non perchè investiti di chissà quale carica istituzionale, ma semplicemente perchè si sentiranno improvvisamente in diritto di poter essere le merde che sono. E, secondo me, è quella la cosa che dobbiamo provare ad arginare come società, il fenomeno a cui va opposta resistenza. Certo, magari sono eccessivamente ottimista e tra un mese staremo davvero assistendo a tentativi di abolire la 194 o di istituire i reati di gender e nuove leggi raziali, ma la verità è che non sarà necessario e la Meloni è la prima a saperlo. Perchè abolire la 194 quando si può semplicemente spingere l’obbiezione di coscienza, sottotraccia, aprendo le porte della carriera ai medici che la sostengono e creando un’inapplicabilità fattuale del diritto all’aborto? E’ una cosa che già si fa, basta solo calcare la mano. 
In questo senso, a costo di sembrare uno di quelli che millanta di aver vinto anche quando le ha prese secche, sono molto felice (e un filo orgoglioso) di aver contribuito a mandare in Senato Ilaria Cucchi. Perchè quando le forze dell’ordine inizieranno a sentire il vento in poppa e a qualche “ufficiale troppo zelante” scapperà la mano, sarà importante avere finalmente qualcuno in Parlamento per tenere il punto ed evitare che le istituzioni lascino correre. Le auguro davvero ogni bene, a naso la attendono cinque anni piuttosto complicati. 
Al netto di tutto questo però, io continuo a credere il nostro Paese sia meglio di come lo si immagini. Anche oggi. 
Tocca stare un po’ più attenti, certamente, e diventa ancora più importante restare fermi nella volontà di far succedere le cose. Se il problema è sociale prima che politico, il ruolo del cittadino non può limitarsi al voto, diventa fondamentale. Però non è il caso di lasciarsi abbattere.
Ci attendono cinque anni controcorrente, dobbiamo solo nuotare più forte.