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Manq

I dischi del 2025

Siccome ‘sta cosa ha funzionato nel 2024, l’ho rifatta nel 2025. In pratica da Gennaio ho raccolto in una bozza wordpress le mie impressioni sui dischi usciti che mi è andato di ascoltare, senza velleità di completismo o pose da musicofilo. Per tenere un po’ il conto, diciamo. Sono 46 dischi, neanche pochissimi.

  • Gue (Tropico del Capricorno): a me Gue non ha mai fatto impazzire, trovo i dischi piuttosto noiosi musicalmente e direi che non sono un tipo che può apprezzarlo per i testi. Questo nuovo però funziona meglio del solito e almeno per due terzi mi ha divertito.
  • Explosions in the Sky (American Primeval OST): ero molto curioso di sentire come avrebbero gestito una OST gli Explosions in the sky, ma devo dire che ne è uscito un disco anonimo come pochi. Giusto per dargli una valutazione propria mi sono guardato anche la serie e con somma sorpresa quello che mi era sembrato l’unico momento buono del disco sostiene alla grande i momenti migliori dello show, quindi forse hanno avuto ragione loro.
  • Jake La Furia (FAME): a me Gue Jake non ha mai fatto impazzire, trovo i dischi piuttosto noiosi musicalmente e direi che non sono un tipo che può apprezzarlo per i testi.
  • L.S. Dunes (Violet): Non ho una bella opinione dei supergruppi, nella mia esperienza hanno tutti prodotto roba che di super ha ben poco. Questo disco non fa eccezione, anche se Paper Tigers è una delle reinterpretazioni di Where’s my mind? meno irritanti cui siamo stati sottoposti negli anni in area emocore.
  • Discomostro (Oh no!): nel 2018 ho sentito i Discomostro e pensato: “Oh, ecco qualcuno che sa fare bene oggi quello che si faceva bene vent’anni fa!”, ma poi ho scoperto che i regaz erano tutti persone che suonavano anche vent’anni fa e mi è un po’ scesa la poesia. Li riprendo in mano adesso per questo nuovo disco e la sensazione è sempre che facciano gran bene quella cosa lí, che poi è punk-hc in italiano, con l’aggiunta del fatto che ‘sto giro alcuni testi mi hanno fatto malissimo.
  • Love Is Noise (To live in a different way): in Friends c’è un episodio in cui Rachel fa la zuppa inglese, ma nel ricettario le pagine sono incollate a quelle dello spezzatino coi piselli, lei non se ne rende conto e alla fine esce un piatto completamente sbagliato fatto di tanti ingredienti che non ha il minimo senso mettere insieme. Poi arriva Joey e se lo mangia. Ecco, io dopo un bel po’ di ascolti non ho ancora capito se sono come Joey.
  • 1,000 UK Artists (Is This What We Want?): ho probabilmente un problema perché mi sono sentito davvero tutto questo disco. Magari non rappresenta il miglior modo di mettere sul radar delle persone il problema del diritto d’autore vs. IA, ma è un problema che infastidisce anche me e trovo comunque l’idea più centrata di tirare un minestrone contro la teca della Gioconda.
  • Silverstein (Antibloom): non avrei voluto manco metterlo in lista, sapevo sarebbe stato terribile ancora prima di sentirlo e sarebbe stato meglio abbandonarsi ai pregiudizi e lasciar perdere. Fa cagare.
  • Coheed & Cambria (The Father of Make Believe): ci sono robe talmente assurde da darci l’illusione di essere geniali. Una di queste è stata scrivere pezzi emo come fossero prog (o viceversa) e i Co&Ca ai tempi riuscirono a vendermela per due dischi pieni, prima che rinsavissi. Per quanto oggi non ci siano possibilità che la loro roba mi possa prendere, questo disco manca anche della cafonaggine necessaria a farmi quantomeno incazzare.
  • Gazebo Penguins (Temporale): alla fine mi sa che io ho un problema coi loro dischi dispari. Questo, per dire, non mi è piaciuto. Nonostante le trombe, che sono sempre una buona idea nell’emo.
  • Underøath (The Place After This One): torno a sentire un disco loro dopo veramente tanto tempo e devo ammettere di non averli trovati bene. Piuttosto che questa roba metto su gli Electric Callboy, che almeno sono onesti.
  • Deafheaven (Lonely People With Power): non credo sia necessariamente un brutto disco, ma io alla terza traccia ne avevo decisamente pieni i coglioni. Mi era piaciuta la svolta shoegaze del disco prima, qui si torna su quella specie di black metal da fuorisalone che è in assoluto meglio del black metal duro e puro, ma che personalmente digerisco a piccolissime dosi. Ci sono un po’ meno blast beat del cazzo, volendo trovarci del buono, ma 12 tracce sono un’infinità e per arrivare in fondo mi sono dovuto fare una certa violenza.
  • I cani (Post Mortem): avevo già abbastanza motivi per detestare il prossimo senza che mi ricordaste che vi piacciono I Cani.
  • Morningviews (Anedonia): se c’è una scena alternative in Italia che sta gran bene, ad occhio, è quella dello screamo e questo disco ne è un fulgido esempio. Solo cuori per l’amico Rob che ci urla dentro.
  • Neffa (Canerandagio – Parte 1): mi sono addormentato alla traccia 3 e non è che quelle che ho sentito mi abbiano proprio messo nel mood di riprovarci. Poi quel “Parte 1” suona un po’ come una minaccia.
  • Propagandhi (At peace): una volta ho visto un tipo che per fare una cacio e pepe si metteva col termometro a fare la fonduta di pecorino. Sicuramente buonissima eh, ma perde completamente il senso di quel che è una cacio e pepe. Ecco, secondo me l’unica caratteristica inderogabile del punk-hc deve essere l’immediatezza e questo è un disco punk-hc come lo suonerebbe la PFM. La fatica ad arrivare in fondo, signora mia.
  • Salmo (RANCH): forse per tanti Salmo ha fatto IL disco, l’opera di riferimento, e magari il problema sono io che dentro questa confezione mega scintillante e ricolma di idee matte e geniali, non sono riuscito a trovarci un cazzo.
  • Histrionic (Architect’s Leap): Make Out Of Tune Emo Great Again. Si ringrazia il Farabegoli per la segnalazione. Bombetta.
  • Mclusky (the world is still here and so are we): “Son tornati i Mclusky!!!” poi senti il disco e capisci perchè non ti eri interessato poi molto al fatto che potessero essere andati via.
  • Arm’s lenght (There’s a Whole World Out There): quello prima l’avevano presentato con un singolo gigantesco, quindi poi il disco era risultato un po’ spompo. ‘Sto giro hanno fatto l’opposto, sono usciti con delle tracce norm-emo fiacchette così poi senti il disco e SBAM! Il banjo.
  • Alien Boy (You Wanna Fade?): nella mia bolla sono un po’ tutti impazziti per questo disco e posso serenamente capirne le ragioni. Io penso sarebbe potuto essere un grandissimo EP di cinque pezzi, invece è un interminabile disco di undici canzoni reali e almeno trenta percepite. Sicuramente il problema sono io. Dovessi dare un riferimento, direi Weezer.
  • Charmer (Downpour): dischi come questo non sono mai piaciuti a troppe persone. Quando hanno iniziato ad uscire se li cagavano in pochi, quando é arrivata la fase dell’hype non erano già più dischi come questo. Forse non mi cambierà la vita, ma che ancora qualcuno abbia voglia di suonare così per me è una bella cosa (e cmq anche per quest’anno la quota cover Brand New l’abbiamo portata a casa).
  • Turnstile (NEVER ENOUGH): il disco precedente aveva diviso. Successo mega trasversale, ma nel giro del punk-hc già in tanti avevano storto il naso. A me era piaciucchiato. Il problema che avevo io coi Turnstile è il loro puntare ad essere la versione Netflix di una band HC mediocre (diciamo i Cancer Bats), più che la musica che fanno. Dico “avevo” perchè invece questo nuovo lavoro fa cagarissimo anche musicalmente, come tra l’altro implica il CAPSLOCK nel titolo.
  • Coez (1998): dice che per scrivere il disco si è ispirato ai Fontaines D.C., ma fortunatamente non è vero. Estate 1998 è un pezzo degli 883, per dire. Per il resto è Coez che torna a fare il Coez pre-COVID e sarà che non lo ascoltavo da quasi dieci anni, ma per me è un dischetto estivo che posso tranquillamente mettermi in cuffia facendo qualsiasi cosa non preveda ascoltare musica come attività principale.
  • Landmvrks (The Darkest Place I’ve Ever Been): questi li ho visti suonare allo Slamdunk senza avere idea di chi fossero e live sono stati clamorosi. Devastanti. Su disco però mi sa che non è più roba per me, se mai lo è davvero stata. Non so se i dischi vecchi siano meglio, ma ho idea che non lo scoprirò mai.
  • Fabri Fibra (Mentre Los Angeles Brucia): a me pare che faccia sempre lo stesso disco e non è un disco che mi piace.
  • Durry (This Movie Sucks): per qualche ragione ignota ero uscito abbastanza di testa per il disco prima di ‘sti qui. L’ho risentito dopo questo e sono ancora convinto avessero azzeccato la ricetta. Questo nuovo prova a rifare la stessa cosa e a tratti annoia perché ci riesce, a tratti indispone perché sbaglia proprio mira. Nel finale recupera qualcosina, ma in generale mi sa che sono sceso una fermata troppo tardi da un treno su cui viaggiavo da solo.
  • Hotline TNT (Raspberry Moon): rispetto ad anni fa, internet non è più un posto in cui mi sia facile incuriosirmi verso nuova musica suggerita da persone degne di fiducia. L’eccezione a questa triste regola, nel 2025, sono questi Hotline TNT (thx to: Vez). Parliamo di un bel disco per chi pensa che i Death Cab for Cutie non ne facciano a sufficienza, oppure per chi sostiene che qui, una volta, fosse tutto 2004. Non necessariamente io, quindi, però è un bel disco.
  • DJ Shocca (60 hz II): sarà che il rap non è prettamente la mia cosa o forse è che ho i gusti di uno che va per i 50, ma ‘sto disco mi pare giochi completamente un altro sport rispetto alla concorrenza. Gran bello.
  • Moving Mountains (Pruning of the Lower Limbs): ascoltando questo disco la sensazione principale è l’incredulità estrema rispetto all’aver potuto campare dieci anni senza nuova musica dei Moving Mountains. In qualità di uno dei pochissimi ad aver apprezzato il loro S/T quando uscì, mentre scrivo credo questo gli sia addirittura superiore. Per me disco fondamentale in questo 2025.
  • VV/AA (Paranoia e Potere Revisited): dovrei smetterla coi tribute album, davvero.
  • Pennwood Rd. (I Won’t a Friend): che bello l’emo. EP meraviglioso, ci sono uscito di testa. Per dare un riferimento: è uscito solo in cassetta e l’ho comprata.
  • Have Mercy (the lonelinets place i’ve ever been): io non lo so come fare a non incazzarmi con dischi del genere. Non è per nulla brutto, ma è un disco dei Jimmy Eat World che non fa niente per sembrare qualsiasi altra cosa. Quando sento sta roba non so mai se siano le prime avvisaglie della musica AI o se sono io che sono troppo vecchio per cascare nel tranello dei cloni wannabe. Credo più la seconda.
  • Hot Mulligan (The Sound a Body Makes When It’s Still): il nuovo disco degli Hot Mulligan è esattamente come ci si aspetta che sia un nuovo disco degli Hot Mulligan. A me piacciono, ma non al punto di aver bisogno di nuove variazioni sul tema ogni due anni. Probabilmente questo è meglio di quello prima, ma sono entrambi largamente peggio di “you’ll be fine”, che resta sempre il disco che metto su quando voglio sentire gli Hot Mulligan. I regaz quest’anno hanno anche inciso un pezzo per un wrestler che non è nel disco, ma che è più interessante di metà di quello che ci è finito dentro.
  • Deftones (private music): a me i Deftones non piacciono, ma questo disco me lo sono comprato. Il candidato tragga le proprie conclusioni.
  • Fine Before You Came (C’è ancora amore): miglior disco dei FBYC dai tempi di SFORTUNA: change my mind.
  • Biffy Clyro (Futique): secondo me si riduce tutto a quanto tempo é passato da quando si sono ascoltati con una certa frequenza i Biffy Clyro:
    – Più di 5 anni: è un disco godibile. Un filo meno moscio degli immediati predecessori e con qualche idea in più.
    – Meno di 5 anni: non scalzerá quello che state già ascoltando.
  • Motion City Soundtrack (The Same Old Wasted Wonderful World): questi sono un gruppo che ai tempi ho provato in più riprese ad approcciare, senza mai trovarci nulla. Questo disco arriva dopo dieci anni di silenzio, ma per me non fa molta differenza. La cosa se vogliamo strana è che mi è piaciuto. Non sarà il disco della mia vita, ok, ma è uno di quei dischi che se li metti in macchina ti fanno sentire come se stessi vivendo dentro a una di quelle serie americane che la gente si vergogna di ammettere di guardare.
  • Thrice (Horizons/West): dopo diversi anni, un disco dei Thrice che mi sono abbastanza goduto. Non aggiunge nè toglie niente alla storia del gruppo, ma centra qualche pezzo e lascia la sensazione abbiano ritrovato un po’ di cazzimma.
  • Elephant Brain (Almeno per ora): continuo a sentirli paragonare ai FASK, ma se anche fosse (e non lo è), per me non c’è un disco dei FASK a livello dei loro. Questo é più un disco tipo L’Esercizio delle Distanze dei Minnie’s e per il sottoscritto è un complimento gigante. Forse sto giro ho sofferto un filino i testi, ma è che son vecchio.
  • Aurevoir Sòfia (SCUOLA SOFIA): magari sbaglio, ma se i Turnstile stessero facendo davvero quello per cui li stiamo incensando, questi riempirebbero i palazzetti. #Einvece. Stando sul disco: quello prima è meglio, ma gli si vuole comunque bene.
  • All-American Rejects (Get this): è una vita che non avevo notizie degli AAR, i pochi pezzi loro che avevo sentito dal 2008 non mi erano piaciuti e fino a quest’anno non avevo idea fossero ancora una band. Poi in estate si sono messi a fare gli house party e mi sono tornati in simpatia, oltre che in testa. Questo EP fa grossomodo la stessa cosa, aiuta a rimetterli sul radar e a ritrovare la voglia di sentirsi i dischi vecchi.
  • Militarie Gun (God Save The Gun): il mio social amico Andrea Orio dice “disco dell’anno!” quindi l’ho ascoltato. Not my cup of tea, ma proprio nel senso che io mi interrogo spesso su come possa esistere gente a cui piace il tè.
  • Scary Monsters (The March of Hope): cazzeggiavo su FB e trovo ‘sto post di uno degli Explosions in the Sky che nel 2000 aveva una band con altri due amici e stavano per fare un disco, ma poi non lo avevano finito e invece ora si sono ritrovati e lo hanno chiuso quindi ascoltatelo se vi va. Ho ascoltato. Ha mille problemi, tra suoni, mix e voce, ma sai che non è male per niente?
  • Stay the Course (Red Flag): suonare un genere più che finito senza annoiare o addirittura indisporre chi ne ha sentito tanto è quasi impossibile, ma un modo c’è e questi Stay the Course l’hanno trovato. Invece di usare un’idea e costruirci attorno un pezzo, ne hanno usate dieci. Il risultato è che tengono alta l’attenzione. Facciamo un po’ di name dropping per darci il tono competente? Ok. Frullate insieme i primi Crime in Stereo, l’esordio dei Pentimento e spruzzateli di qualche breakdown facilone alla ADTR. Ne sapete meno di prima? Esatto.
  • Anxious (Bambi): questo l’ho recuperato dopo averlo visto in tante classifiche di fine anno. Volevo capire. Non ho capito.

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E’ un po’ che non ci si sente

Non ho davvero qualcosa da scrivere qui sopra, lo dico subito.
E’ il 30 novembre e non scrivo sul blog dal 21 ottobre. Chi conosce questo spazio sa che bucare un mese è sempre stato lo stigma massimo da cui ho lottato per tenermi lontano e in vent’anni ce l’ho (quasi sempre) fatta. Di conseguenza sono qui per riempire una paginetta uso “guarda maestra ho fatto i compiti”.
Lo farò dando un po’ di aggiornamenti random dalla mia vita.

– Il progetto segreto che chiameremo col nome in codice di “romanzo” è entrato nella sua fase conclusiva. Mancano undici capitoli. Se procedo al ritmo avuto fino a qui, dovrei chiuderlo entro il mio compleanno. Considerando che ormai si tratta di chiudere il cerchio e che la maggior parte di quel che devo raccontare è deciso, forse potrei farcela un filo prima. Il materiale che ho messo giù fino ad ora si aggira intorno alle 76K parole, quindi a spanne si parla di un’opera finita che sta sulle 100K. Tante? Poche? Boh. Per me tantissime, davvero un lavoro che non pensavo di riuscire a portare fino a questo punto. Ho chiesto ad un po’ di amici se gli andasse di leggere quanto già fatto e darmi dei feedback, qualcuno ha accettato. Hanno tutti esordito dicendo “i pirati a me fanno cagare”, ma qualcuno lo ha trovato godibile ciò nonostante. Qualcun altro no. Direi perfettamente normale per un malloppazzo scritto da un improvvisato alla prima esperienza. Se proprio devo brontolare di qualcosa, mi aspettavo forse un po’ più di “supporto” da parte delle persone a cui ho chiesto. Nei libri di solito alla fine si trovano i ringraziamenti a tutti quelli che hanno aiutato l’autore a portarla a casa e nel mio caso al momento farei fatica a riempirci tre righe scritte grosse. Non è una bella sensazione, specie per uno che (senza voler fare Gandhi), nel suo piccolo ha sempre provato a dare una mano a chi si trovava in questa situazione e chiedeva un aiuto. Amen. L’idea continua ad essere arrivare in fondo, il resto è contorno.

– Un paio di weekend fa sono andato a Manchester a vedere i Brand New. E’ stato l’ennesimo concerto bellissimo di questo 2025 fatto, al momento, solo di concerti belli. Un bel passo avanti rispetto al 2024, dove a memoria mi avevano fatto quasi tutti schifo. Non credo scriverò un post sui concerti dell’anno, non ho più voglia di farlo o forse non ho altra forza da usare per scrivere anche qui (questo post sta diventando un calvario), ma è un peccato perchè sono stati tutti concerti da raccontare.

– Nell’ultimo periodo ci sono stati un po’ di argomenti su cui avrei avuto voglia di litigare. Per citare gli ultimi che mi sovvengono a memoria: la polemica sul fatto che se togli 2 punti percentuali alla tassazione sui redditi che vanno dai 25 ai 50 mila euro, chi guadagna di più ne beneficia di più (un vero scoop) e l’ennesima polemica attorno al concetto di consenso. Special guest: la famiglia nel bosco. In questi casi di solito parto aprendo il blog, poi mi persuado sia tempo perso e allora apro instagram. Perchè una mia story ha il medesimo impatto che un mio post (ZERO), ma almeno non ci metto troppo tempo a buttarla giù. In molti casi sono finito a chiudere anche instagram perchè tanto “chissenefrega”.
Mi sono parecchio imbruttito, devo dire, ultimamente.

Chiudo qui, mese portato a casa e auto-psicanalisi spiccia pure.
A dicembre metterò fuori quantomeno la lista dei dischi che ho ascoltato, quindi al massimo il problema di dover scrivere il blog si ripresenterà nel 2026.
Segnatevelo eh.

Un appunto

Ho appena chiuso un capitolo di 4598 parole.
E’ il diciottesimo di quello che, forse, un giorno sarà un romanzo finito.
Non so dire se arrivato in fondo sarà il mio capitolo preferito o quello che mi sarà costato più fatica.
Forse lo rileggerò domani e sentirò di doverlo riscrivere da capo.
Eppure in questo momento sono un po’ felice.
Soddisfatto.
Certamente spossato, prosciugato da un’attività che mi assorbe una quantità di energia fuori scala, ma con in faccia uno di quei pochi sorrisi che non sono costretto a fare.
Mi sembrava giusto appuntarmi qui la sensazione.
Alla fine era un po’ questo lo scopo del posto, all’inizio.

Quando andremo a votare

Da quanto a Gaza è iniziata la rappresaglia (poi diventata genocidio) ad opera dell’esercito israeliano io qui sopra ne ho parlato una volta sola.
Ero convinto non ci fosse molto altro da dire, da parte mia.
Oggi però sento il bisogno di tornare in argomento, anche sull’onda dei recenti fatti che coinvolgono la Global Sumud Flotilla e la mobilitazione nazionale di supporto al popolo palestinese. Quel che mi sento di dire è che, mai come in questo caso, ho la percezione di essere completamente impotente. Quello che sta accadendo mi sembra ineluttabile, non vedo alcuno spiraglio perché la situazione cambi. Non ci sono se e ma dietro cui nascondersi, attenuanti che possano lasciar spazio all’illusione di essere in una sfortunata contingenza che può essere cambiata, parte di uno scenario che può essere sovvertito. Fortunatamente non ho mai avuto a che fare con l’elaborazione di un lutto, ma ho letto le fasi che la caratterizzano: shock, negazione, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione e speranza.
Ecco, io credo di essere nella quinta fase.
Intorno a me vedo tante persone schierarsi, prendere posizioni nette e partecipare ad azioni dimostrative. È una cosa che capisco e stimo, sono completamente dalla loro parte, ma dentro di me ho la convinzione stiano facendo il mio stesso percorso e siano rimasti alla terza fase.
Sento parlare di resistenza. Quando c’è stata la resistenza, cent’anni fa, c’era sicuramente la volontà di rovesciare un sistema schifoso, assassino e abominevole, ma c’era soprattutto una parte avversa a cui unirsi. C’erano i nazisti e gli alleati. Lo scenario, quando si parla di Gaza, è diverso.
Non c’è nessuno, oggi, dall’altra parte.
Io penso il peggio possibile del governo Meloni e di questa maggioranza, così come sono convinto da tempo che all’opposizione ci siano persone inadeguate, che non riescono a combinare nulla neanche in relazione ad aspetti sociali su cui sarebbe piuttosto semplice trovare il favore della maggioranza degli italiani (ne dico una facile: la sanità).
Tuttavia.
Immaginiamo che scendano in piazza 50 milioni di italiani e rovescino questo Governo per instaurarne uno che abbia l’unico scopo di schierarsi col popolo palestinese. Che si fa? Usciamo dalla Nato? Dall’Europa? Mandiamo l’esercito a Gaza?
Io sono un ignorante totale in termini di geopolitica e macroeconomia, ma mi pare evidente che quello che speriamo di ottenere non possa succedere. L’Europa non esiste e non esisterá mai, la reazione che abbiamo trovato al collasso che sta vivendo la società occidentale in questa fase (terminale, imho) dell’ultracapitalismo è stata un trasversale rigurgito nazionalista che non fa nulla per arginare i danni di un mercato globale e sregolato (anzi), ma ci toglie qualsiasi possibile peso politico. Quindi?
Certo, potremmo cominciare con l’essere meno conniventi.
Mica poco, intendiamoci, sarebbe già un grande passo. Smettere di vendere le armi? Applicare delle sanzioni? Sarebbe importante.
Chi può scegliere di fare un passo in questa direzione? L’Italia (o altri stati) da sola? Non credo. L’Unione Europea se si mettessero tutti d’accordo? Forse, ma se fosse davvero la spallata finale che farebbe crollare il sistema “occidente”, siamo sicuri che la classe dirigente, a prescindere dal posizionamento ideologico, voglia darla?
Siamo sicuri che, se si sfaldasse l’impero statunitense, il nostro futuro sarebbe migliore?
E non lo dico per fare una relazione costo:beneficio che porti all’idea di legittimare il proverbiale “mors tua, vita mea”, mi fa vomitare il solo pensiero. Lo dico come unica spiegazione razionale che posso darmi al fatto che, ancora oggi, si stia ballando intorno al SE sia il caso di fare qualcosa per fermare un massacro costante di innocenti che va avanti dall’8 ottobre 2023.

Sono questi i ragionamenti che sto provando a fare, questi i dubbi che mi porto dietro. Con questa testa, se scioperassi domani e scendessi in piazza, lo farei unicamente per me stesso, per provare a sentirmi meno impotente. Senza crederci davvero, purtroppo.
Mi si può rispondere che ci sono situazioni in cui è comunque importante tirare una riga e definire chi sta da una parte e chi sta dall’altra. È vero. Non sono per niente sicuro che la mia posizione sia giusta, non mi aspetto possa essere condivisibile e non sono certamente qui a pontificare.
Sono pieno di dubbi, ma più che altro sono a corto di speranze. Capisco possa suonare come una scusa, dal canto mio posso solo dire che starei gran meglio se lo fosse.
Fine.
Ah no, un’ultima cosa. Prima dicevo che penso il peggio possibile dell’attuale governo ed è vero. Perché se anche percepisco l’assenza di un reale potere decisionale, non posso tollerare l’atteggiamento con cui, quotidianamente, rivendicano l’orgoglio di essere dalla parte sbagliata di un crimine di portata storica.
Anche solo per quello, mi fanno schifo.
Ed è da lì che si arriva al titolo del post. Molti stanno dicendo che dovremo ricordarci di tutto questo quando andremo a votare. Sono d’accordo.
Dopo aver visto quello che stiamo vedendo, per me andare a votare ha perso completamente di senso.
Sarà un casino spiegarlo ai miei figli, in futuro.


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Parliamo di Charlie Kirk

Oggi è l’11 settembre 2025 e grossomodo tutti sanno chi è Charlie Kirk.
Il 9 settembre 2025 molti di quelli che lo stanno martirizzando non avevano letteralmente idea di chi fosse, ma di questa cosa non ha molto senso parlare. Non è il primo morto strumentalizzato e non sarà l’ultimo.
Per chi, non so bene come, ancora ignorasse chi sia stato Charlie Kirk faccio un recap veloce: un tizio che si è costruito una fama sui social spingendo l’ultraconservatorismo americano (una roba che in confronto la chiesa cattolica è un raduno di hippie) e che ieri è stato ammazzato male durante un comizio.
Io sapevo bene chi fosse anche prima venisse suo malgrado alla ribalta per i fatti di cronaca odierni.
C’è stato un periodo, non molto lontano in verità, in cui sono entrato nel circolo vizioso dei suoi contenuti online, ne ho consumati a decine. Ero in una situazione che potrei descrivere come il mix tra l’innata curiosità morbosa verso tutto ciò che mi è incompressibile e mio nonno che urlava alla televisione quando vedeva Berlusconi.
Forse è necessario che vi spieghi come erano strutturati i suoi contenuti. In pratica il tipo prendeva un tema sensibile, lo affrontava con una posizione ultra radicale difficile da digerire anche per quella che comunemente definiremmo “destra” e fingeva di volerlo dibattere montando le sue argomentazioni in antitesi a quelle di poveri ragazzi e ragazze che, ingenui  e spinti dalla necessità di contrastare un’ideologia così del cazzo, si prestavano inconsciamente al gioco senza avere una anche minima capacità argomentativa. Il risultato era lui che, per usare un termine caro all’internet e tra i primi tre che citerei come indicatore del nostro declino culturale, BLASTAVA dei poveracci.
Ecco, io so benissimo che tra tutti quelli che, apertamente e pubblicamente, decidevano di dibattere con lui, la maggior parte era gente capace di tenergli testa. Voglio dire, le argomentazioni di Kirk erano così assurde che non sarebbe stato complicato controbattere. Lui sceglieva appositamente di montare nei video quei pochi che non riuscivano in questa operazione e finivano “sconfitti” sul piano del dibattito, in modo da costruirsi l’aura di sommo oratore (lo sapete che gli americani considerano il dibattere una competizione, sì?).
Sto divagando, il punto è che io, pur conscio del meccanismo alla base del suo “lavoro”, ero diventato assiduo consumatore dei suoi video e li guardavo solo per lamentarmi. “Ma cazzo, ma rispondigli XYZ dai. E’ ovvio. Digli XYZ e lo metti all’angolo. Argomenta. CAZZO SMONTALO. COME FAI AD ESSERE COSI’ IDIOTA DA NON RIUSCIRE A RIBATTEREEEE…”. Ecco, questa era diventata una sorta di mia routine. Cercavo i suoi video per vedere quali argomentazioni assurde riuscisse a formulare, mi immedesimavo nella controparte trovando sempre la chiave per far cadere il suo castello di carte e mi incazzavo con quei poveracci che venivano mostrati in difficoltà nel farlo. Preciso ulteriormente: non è che io trovassi sempre il suo punto debole perchè sono un genio, è proprio che il suo livello era indecorosamente basso.
Insomma, io sono uno che si è guardato molti dei suoi video e oggi, quando ho saputo che gli avevano sparato, un po’ ci sono rimasto di merda.
Ecco, questo vuole essere l’argomento della mia riflessione.
Da questa mattina ho letto una montagna di post, pensierini, commenti, etc. espressi da gente che conosco e in certi casi stimo, che tenevano a ribadire come non ci fosse troppo da dispiacersi. E ora proverò a dibattere queste argomentazioni.
La prima la riporto testualmente: Insomma, leggendo in giro mi sembra di capire che oggi è la Giornata Internazionale del “Charlie Kirk era un pezzo di merda, ma”.
Come a dire che troppe persone, sbagliando, stessero dicendo che per quanto fosse uno stronzo forse sparargli non era la cosa da fare. Io sono tra quelli fermamente convinti fosse uno stronzo e tra quelli fermamente convinti non fosse il caso di sparargli. Sicuramente è una questione di bolle, ognuno pesa le opinioni che vede intorno a sè sulla base delle persone che ha, in quell’intorno, quindi magari per chi lo ha scritto quella posizione (la mia) è risultata largamente condivisa. Nella mia, di bolla, non è così. Da quel che vedo io, chi ne sta parlando, ne sta parlando come di uno che se l’è cercata e io con il tema del cercarsela ho un rapporto conflittuale. Non voglio entrarci adesso, ma per me non può e non deve essere un’attenuante. Mai.
Mi piace tifare per un mondo in cui non si spara agli stronzi, as simple as that. Sono troppo naive? Sono uno di quelli che vive nel mondo di Lelly Kelly e che crede nel “marketplace of ideas” (sto linkando un pezzo di stand up meraviglioso che, di fatto, sfotte me.)? Possibile.
Il che ci porta alla seconda argomentazione che ho letto: male male sparare al tipo, ma se da domani questi avvelenatori di pozzi pezzi di merda avranno un briciolo in più di paura nel fare quel che fanno, forse è bene sia così.
Non lo è (imho). Intendiamoci, capisco BENISSIMO da dove viene quel tipo di reazione e sarei falso se non dicessi di averla provata anche io, di aver pensato anche io di esserne convinto, sul principio. Però no. La paura come deterrente non funziona mai.
MAI.
M-A-I.
La paura spinge le persone a nascondere la polvere sotto il tappeto, a celare quel che causa ritorsioni a prescindere dall’idea che hanno di quella cosa. “Non lo faccio perchè non si fa” non funziona neanche coi bambini. L’educazione è la chiave con cui si combattono certi atteggiamenti tossici, tra cui il pensare di poter e dover dire tutto ciò che si vuole. L’educazione crea le basi per razionalizzare quel che si vuole dire, farsi delle domande, ragionare sul concetto di rispetto e mettersi dei limiti. Da soli. La paura non porta a nulla di tutto questo. La paura ottiene magari un risultato migliore, sul principio, ma non otterrà mai persone che si limitano per scelta propria, sarà sempre e solo un’imposizione. E quando quell’imposizione cade, si torna al punto di partenza.
Porto due esempi, che mi hanno illuminato quando vivevo a Colonia. In Germania c’erano due limiti: no fuochi d’artificio tranne capodanno, no espressioni di fiero nazionalismo tranne durante i mondiali.
In 2 anni e mezzo mai visto succedere nulla di strano tranne:
– A capodanno, dove la città diventava Baghdad e la gente puntava le finestre coi bengala uso ridere.
– Durante i mondiali, dove tutti avevano la bandiera tedesca alla finestra, sugli specchietti e sul cofano dell’auto, addosso. Molti le facevano anche il saluto (giuro).
Lì ho maturato l’idea che un popolo che si comporta bene perchè deve, non perchè vuole, non è un orizzonte a cui tendere. Per quanto in quel posto ti possa sembrare che le cose funzionino, non è il posto in cui vorresti vivere. Parlo per esperienza personale.
Quindi, per chiudere questo paragrafo, anche se la paura generata da questo evento di cronaca, come dal gesto di Luigi Mangione, può portare anche a cose buone (semicit.), resta un metodo del cazzo che per me dovrebbe sparire ieri, a prescindere da chi lo usa.
Il che ci porta al terzo ed ultimo aspetto della vicenda, l’unico che fa un po’ sorridere.
A meno di 24 ore dall’omicidio il governo USA ha materiale video sul killer e ha già trovato prove sull’arma e sui bossoli che riconducono evidentemente ed innegabilmente al fatto che chi ha sparato fosse un estremista di sinistra (leggi: antifa, pro transgender, etc.). Lasciamo un attimo da parte il fatto che ancora non sanno chi ha sparato a Kennedy, che sembra di fare ironia, il mio punto è diverso.
Io non ho alcun problema a credere che chi l’ha fatto sia uno che condivide la mia stessa opinione su Kirk. Questa autoconvinzione che i matti/spostati/ritardati/terroristi/violenti/estremisti siano sempre gli altri è idiota. Non saprei come altro definirla. Partendo dal fatto che nel mondo ci siano N persone problematiche che possono decidere di sparare ad un altro essere umano sulla base del credo politico, pensare che nessuna di queste sia dal nostro lato dell’ideologia è come credere che la terra sia piatta. Negli stati uniti hanno la cultura del risolvere i problemi sparando, non è una cosa correlata all’essere repubblicani o democratici, è un livello sopra, più trasversale. E’ perfettamente plausibile che chi ha sparato a Kirk, come chi ha sparato a Trump, sia un estremista di sinistra con evidenti limiti cognitivi. Se usi l’attentato per costruire una retorica volta a screditare quella parte politica fai schifo, ma devo darti il beneficio del dubbio. Se immediatamente dopo un evento del genere te ne esci dicendo di avere le prove che chi ha commesso il fatto è sicuramente uno di quella parte politica che tanto tieni a contrastare, allora spingi anche uno come me, che lo riteneva plausibile dal principio, a pensare tu stia mentendo e che chi ha tirato il grilletto non sia per niente chi mi dici che sia. Da lì, il complottismo. Su questo, però, probabilmente sbaglio io.
Cmq il mio punto, non si fosse capito, è che dovremmo smetterla di ammazzarci tra noi.
Quale che sia la ragione, quali che siano le colpe (oggettive o soggettive) di chi si prende il proiettile. Citando un film: I just wanna say I think killin’ is wrong, no matter who does it, whether it’s me or y’all or your government.


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Black Sails

Qualche mese fa avevo vaneggiato qui sopra di un progetto a cui mi stavo dedicando e di cui non mi sentivo di dare i dettagli per evitare di renderlo reale al punto di mal digerirne un eventuale fallimento. A distanza di tempo, ho deciso che non sia più il caso di fare i misteriosi.
Sto scrivendo un romanzo.
Al punto in cui sono ora(1), la parola fallimento ha assunto diverse sfumature, ma il significato che le avevo dato inizialmente era di buttarmi nell’opera e non riuscire ad arrivare in fondo. Siccome oggi mi sento di escludere questa possibilità, pur essendo ben lontano dal finire il lavoro, posso anche uscire allo scoperto qui sopra. Anche perchè, voglio dire, non è che questo sia propriamente un articolo del NY Times.
Veniamo al tema del post. Siccome il mio ipotetico romanzo parla di pirati, concluso il primo troncone di scrittura mi sono rivisto tutte le quattro stagioni di Black Sails per un “reality check” e mi sono innamorato di nuovo dell’opera. Se con quello che sto provando a fare (e che mi sta costando una quantità di ore e di sonno incalcolabili) riuscissi a trasferire anche solo un decimo dell’atmosfera che è riuscita a ricreare questa serie, mi riterrei ben più che soddisfatto.
Black Sails racconta le vicende del Capitano Flint e del pirata John Silver, poi Long John Silver, intrecciandone le origini con figure storiche dell’epoca. Un mix di fantasia e storia che, fin dal primo istante in cui ho pensato di cimentarmi nella stesura di un romanzo, è stato l’obiettivo a cui tendere anche per il sottoscritto. Essendomi messo a studiare parecchio l’epoca della pirateria, ho capito in fretta che sul piano della veridicità storica la serie TV non ha mai voluto essere davvero verosimile, si è limitata ad incollare nomi di figure realmente esistite dentro una storia completamente di fantasia e di difficile collocazione temporale. Questo però non è un difetto. Guardandola la prima volta non me ne ero assolutamente accorto e, probabilmente, è una buona indicazione del fatto che l’attenzione alla veridicità/verosimiglianza che sto provando a mettere io, con tutti i limiti del non essere uno storico, risulterà largamente superflua. Amen.
Tornando a parlare della serie, invece, quella spolverata di personaggi storici non fanno che supportare il lavoro magistrale fatto a livello visivo per trasferire allo spettatore un’ambientazione estremamente suggestiva, in cui chi ama quel tipo di periodo storico non può che venire risucchiato fin dai primi minuti grazie ad una fotografia superlativa. A livello di trama, poi, le prime due stagioni sono di un livello stellare. C’è un colpo di scena, nel penultimo episodio della seconda stagione, che per scrittura e realizzazione è senza dubbio il più sorprendente e potente che mi sia mai capitato di vedere. Non dico debba esserlo per tutti, ma per me lo è sicuramente stato. Non l’ho visto arrivare e mi ha colpito con una velocità e un’impatto irripetibili. Le due stagioni successive mantengono inalterata la qualità di resa dell’atmosfera, ma calano parecchio a livello di storia, anche se nel finale c’è una bella ripresa.
Quello che non cala mai, invece, è la grandezza dei personaggi raccontati. Ognuno di loro è perfetto, nel tratteggio e nel percorso, anche quelli che possono sembrare più caricaturali o stereotipati. Li ho amati tutti, senza esclusioni, e ho fatto il tifo per ognuno di loro in almeno un’occasione.

Quindi niente, il succo del discorso è che in un mese mi sono riguardato trentotto episodi di Black Sails e ne vorrei almeno altrettanti. Da amante dei pirati, credo siano il prodotto perfetto. Io sono un fan enorme di Monkey Island, ho adorato alla follia il primo Pirati dei Caraibi e ho letto un po’ di letteratura a tema, ma non credo di aver trovato mai nulla che fosse così affine alla mia idea e al mio gusto.
Ho chiesto di leggere la prima parte del mio romanzo wannabe ad una manciata di amici. Un paio lo hanno fatto davvero, mia moglie ci sta litigando, gli altri probabilmente sono troppo gentili per dirmi “lascia perdere”. Diciamo che dai primi feedback non ho l’impressione di avere per le mani un best seller, ma non ho intenzione di mollare.
L’illusione a cui mi aggrappo è che anche che Black Sails non è piaciuta a nessuno.

(1) circa 200 pagine scritte, circa metà della strada, circa metà del secondo dei tre tronconi di cui dovrebbe essere idealmente composto.


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#BelKomodo

Il megaviaggio di quest’anno lo abbiamo fatto tra Indonesia e Singapore. Siamo partiti alla ricerca dei famigerati draghi (da lì, l’hashtag) e abbiamo scoperto che il resto era molto molto meglio.
Come sempre, mi sono preso il tempo di buttare giù un report dell’esperienza ad uso e consumo di chi, magari, ha la curiosità di saperne di più.
Long story short: è stato bello bello.


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Polemichetta

Fa caldo ed è tempo di vacanze, ci sarebbero una tonnellata di cose più edificanti da fare che non gettarsi nella polemichetta, no?
Evidentemente no.
Partiamo da un mini riassunto dei fatti: Sydney Sweeney, che molti di voi ricorderanno per questo motivo, ha fatto da testimonial per un’azienda di jeans americana, American Eagle, in una serie di spot che giocano con l’assonanza tra JEANS e GENES. In pratica il messaggio è che l’attrice è una figa senza senso molto bella per via dei suoi geni.
Panico in sala.
Io vi giuro che non so neanche da dove partire a ridere di sta faccenda, ma ci voglio comunque provare.
Il reato imputato allo spot è di un riferimento alla supremazia della razza. Siccome il fenotipo dell’attrice è quello tipicamente ariano, siccome il fenotipo deriva dai geni e siccome è incontestabile i suoi geni abbiano fatto un discreto lavoro sul piano estetico, allora la razza ariana è superiore. Se mentre leggi questa cosa noti evidenti voragini nella logica non so che dirti, io sono qui solo per presentarti i fatti. Anche volendo però prendere per lineare il ragionamento di fondo, ci sono due aspetti di cui non mi pare si stia parlando abbastanza.
1) Il possibile target statunitense di quello spot dovrebbe essere la fetta di elettorato che si batte per togliere l’evoluzionismo dalle scuole, perchè crede nella bibbia e non nei dinosauri. Il target di quello spot NON LO SA cosa sono i geni o, comunque, non crede nella loro funzione.
Siccome sono propenso a pensare che le campagne marketing di aziende con così tanti soldi siano messe in mano a persone che sanno fare il proprio lavoro, è evidente che lo spot è stato scritto per innescare la polemica e far parlare del brand come di un brand anti-woke, che è il principale metodo di guadagno consenso negli USA ormai da qualche tempo, in maniera direi incontrovertibile. Se ci pensate è una roba veramente divertente. Se nessuno si fosse preso la briga di alzare la polemichetta, il messaggio suprematista dello spot i suprematisti non l’avrebbero colto. Dopo la polemichetta, invece, il vero messaggio che passa è che American Eagle è un brand anti-woke. Ed è molto diverso, perchè i suprematisti in USA sono tanti, ma non così tanti. Mentre il rigetto per il cosiddetto wokeism è davvero trasversale. Per dirla facile: la campagna ha centrato l’obbiettivo, AE probabilmente venderà più jeans, ma questo non deriva dal fatto che negli States siano tutti nazisti. Leggerla così è continuare a non capire perchè Trump ha vinto le elezioni.
2) Se anche volessimo credere che, negli Stati Uniti del 2025, dichiararsi sostenitori della supremazia della razza ariana sia talmente condiviso da fondarci sopra una campagna pubblicitaria volta a vendere indumenti ad un pubblico trasversale, il problema non dovrebbe MAI essere lo spot. Il problema di cui occuparsi dovrebbe essere perchè un’azienda possa pensare che uno spot di quel tipo faccia aumentare le vendite e non il contrario. Discutere della rimozione dello spot è sbagliare mira. Se AE inneggia a Hitler per vendere jeans, il problema non è AE. Il problema sono le persone che comprano i jeans. Io davvero non posso credere che dopo la retromarcia violenta fatta da quasi tutte le grandi aziende USA sul fronte dell’inclusività letteralmente il giorno dopo il riscontro elettorale avuto da Trump, ancora ci siano persone che credono che eventuali manifesti ideologici sbandierati da questa o quella multinazionale riflettano effettivamente dei valori e non unicamente la necessità di vendere a quante più persone possibile. Boh. Mi sembra lunare che se ne stia ancora parlando in questi termini.

Il problema dello scagliarsi contro concetti sbagliati, anche aberranti, con un approccio censorio invece che di dibattito è che si alimenta con microgesti irrilevanti una narrazione completamente inventata relativa al quadro generale. Tipo che escono settordicimila canzoni ogni giorno in cui il rapperino di turno dice che “alla sua troia gli taglia la gola”, ma poi una volta all’anno si decide che il cantante X non può suonare nel contesto Y per via dei suoi testi sessisti e violenti. Unica conseguenza: far ripartire il valzer del “non si può più dire niente”, senza che nessuno si prenda la briga di sottolineare che, dal giorno dopo, le canzoni sessiste e violente in uscita continueranno ad essere settordicimila, se non di più.
Viviamo un’economia di mercato, l’offerta segue la domanda e non viceversa. Chi insegue il grande pubblico gli dà quel che il grande pubblico vuole. Ci sono le nicchie, ovviamente, per fortuna ci sono le alternative. Possiamo e forse dobbiamo esercitare un consumo più consapevole, con tutti i limiti oggettivi che non è il caso di tirare fuori adesso, ma non possiamo illuderci di fermare il vento con le mani o cancellare i problemi semplicemente filtrandoli fuori dall’algoritmo. In altre parole: io posso non comprare America Eagle (facile), posso informarmi al massimo sull’etica reale dietro chi mi vende i jeans (già decisamente più complesso), ma non posso pensare che se AE pensa di vendere agli stronzi con un messaggio stronzo, eliminando il messaggio io stia eliminando gli stronzi. Non funziona così. Al massimo, non vedendo più il messaggio io posso convincermi che gli stronzi non esistano, ma siamo sicuri sia un bene perdere il termometro della società in cui siamo? Perchè poi arrivano le elezioni, puntualmente, e stiamo tutti a dire: “No, ma come è possibile?”.
E’ possibile perchè abbiamo deciso che guardare il mondo per com’era ci triggerava (brrr.) e abbiamo ritenuto più importante evitarci il fastidio che non cambiare il mondo.


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Ok boomer (la mia sul rifiuto dell’orale di maturità)

Parliamo dei ragazzi che si rifiutano di fare l’orale di maturità, dai. Facciamoci del male.
Io il mio orale di maturità l’ho fatto con la camicia hawaiiana. Questa cosa è successa (davvero, giuro) perchè il commissario esterno di matematica mi aveva detto: “Scommetto che lei non ha le palle per venire vestito da hawaiiano a fare l’orale di maturità.”. Tipo Marty McFly.
Precisazione 1: la mia situazione era tutt’altro che quella di uno che con il solo voto degli scritti avrebbe matematicamente conseguito il diploma.
Precisazione 2: nella mia classe sono usciti in 17 su 27 con un voto compreso tra 60/100 e 61/100, cosa che mi dava margine per pensare che, prima di segare me, avrebbero dovuto segare troppe persone e che quindi potevo permettermi di accettare la sfida.
Precisazione 3: i membri di commissione esterni alla maturità sono la ragione per cui io, a 44 anni, non sto ancora cercando di diplomarmi. Perchè, si può pensarla un po’ come si vuole, ma se 17 alunni su 27 arrivano alla maturità con una media che permette di ambire massimo a 60 e 61 o tutti gli idioti del 1981 iscritti al liceo scientifico Paolo Frisi di Monza furono scientemente raggruppati dentro un’unica sezione, oppure forse c’era qualcosa che non funzionava benissimo nell’equipe di luminari professori che ci ha portati in quinta.
Precisazione 4: non ricordo che genere di scommessa ci fosse in ballo col professore di cui sopra, ma ricordo che si rifiutò di concedere vittoria perchè “io intendevo con il gonnellino di paglia e i cocchi sui capezzoli”. A costo di citare Michael Bay: questa, giuro, continua ad essere una storia vera.

Questo racconto serve a dire che il punto della maturità, ma se vogliamo di tutto il mio percorso al liceo, per me non è mai stato il voto. E’ sempre stato sopravvivere. E  non lo dico con il tono melodrammatico di chi “ai miei tempi sì che il liceo era una roba pesa”, ma perchè era davvero così. Era una guerra, psicologica, contro i professori, combattuta sui due fronti ad armi impari. Una cazzo di guerra di resistenza. Solo che, anche se provavano tutto ciò che fosse in loro potere per buttartela al culo, i miei professori avevano quantomeno il merito di riconoscere l’onore delle armi a chi riusciva a difendersi, in un modo o nell’altro, e restare in piedi. Gente come me, che tirava serenamente a campare galleggiando sulla soglia della sufficienza non tanto/solo per la mancanza di voglia di studiare, ma anche/soprattutto per la volontà strenua di non dar loro alcuna soddisfazione.
Precisazione 5: in 5a liceo io mi presentavo ai compiti in classe di latino senza dizionario. Dopo cinque anni di sonore insufficienze era evidente che avere o meno il Castiglioni/Mariotti con me non facesse alcuna differenza, ma era altrettanto evidente che non fosse necessario esplicitare in modo così veemente che di prendere l’ennesimo 4 non me ne fregava grossomodo un cazzo.
Precisazione 6: il mio prof. di italiano e latino adorava uno dei miei migliori amici (aka Orifizio). Prima dell’orale di maturità si accordarono su quel che avrebbe voluto gli chiedesse e, essendoci stati io ed un altro paio di testimoni, lo chiese anche a noi. Io non avevo mai avuto un rapporto con il mio prof di italiano, come avrete potuto intuire dalla precisazione precedente. Quando mi chiese “Mancuso, cosa preferisce che le chieda?” io risposi “Mi chieda quello che vuole”. Lui mi guardò negli occhi e mi disse: “Le chiedo Ungaretti”. Per un secondo l’avevo preso come un gesto distensivo, che riconosceva la mia schiena dritta nel momento della verità. Poi mi presentai davanti alla commissione e mi sparò una domanda volutamente incomprensibile, forse per testare i miei limiti o forse per farmela pagare, non lo so. Io partii a nastro parlando di Ungaretti e ancora oggi non ho idea se quel che dissi era la risposta a quel che aveva chiesto o meno. Lui si limitò ad un “può bastare” dopo un paio di minuti di monologo e io passai alla materia successiva.

Non lo so che idea si possa fare una persona esterna nel leggere queste righe, ma per me quelli delle superiori sono stati anni bellissimi. Mi hanno insegnato tutto quello che oggi ritengo importante per vivere in questo mondo di merda.
Precisazione 7: a meno di un mese dalla fine della 5a viene indetta simulazione di terza prova d’esame. Le materie erano fisica (media dell’8 da tre anni, inscalfibile), inglese (grossomodo sempre sotto dalla 1a) e filosofia (media del 7 letteralmente sudata col sangue dopo una debacle totale su Kant nel primo quadrimestre). Nel tentativo di salvare questo terzo risultato, bigio. Al rientro, la prof. di fisica mi disse, testualmente: “Lei pensa di avere 8 in pagella saltando l’ultimo compito?”, poi mi chiamò alla lavagna e mi fece fare scena muta. Volutamente, per darmi 4. Unica insufficienza in fisica mai presa. La settimana successiva, mi chiamò di nuovo fuori, a sorpresa, chiedendomi se volessi recuperare. Feci una bella interrogazione, presi di nuovo 8. “Bravo. Peccato per il 4 della scorsa settimana, ma la porto comunque all’esame con 7”. Ed era la prof. a cui volevo più bene (e che ne voleva di più a me).

E’ giusto, doveroso anzi, sviluppare un certo antagonismo verso il sistema scuola durante l’adolescenza. Perchè la scuola è fondamentale, ma non perfetta e i professori ti aiutano a crescere anche per il fatto che sanno essere degli stronzi senza pari. Chiudere il liceo in cinque anni combattendo contro di loro è stata la mia vittoria più grande. Più di qualsiasi trenta preso all’università, più del dottorato, più di qualsiasi successo lavorativo se in quel che ho mai fatto ci possa essere qualcosa di definibile come “successo”. Mettendo lo stesso impegno nello studio, invece che in questa sfida continua, ce l’avrei fatta uguale e probabilmente anche con un bel voto, ma per me era più importante tenere il punto.
Precisazione 8: in prima liceo, a un mese dall’inizio di un percorso scolastico nuovo in un ambiente in cui conoscevo letteralmente quattro persone, un “amico” di quinta conosciuto in oratorio mi chiese se mi andasse di far parte della loro lista per il consiglio di istituto, che gli mancava uno. Scoprii, tardi, che era una lista di CL. Avevo quattordici anni. Per diversi prof. ero e sono rimasto CLino per cinque anni, con tutta la simpatia che ne può conseguire in un ambiente come quello del liceo in cui andavo io alla fine degli anni novanta (ho ancora amici che me la menano per sta cosa. Dopo trent’anni.). A me, però, di andare a spiegare che non fossi CLino non è mai interessato, mi faceva ribrezzo l’idea di doverlo fare. L’idea che mi avrebbero valutato diversamente.

Quindi boh, a me non è che faccia tutta questa impressione uno studente che, col culo al caldo della promozione aritmetica conseguita sulla base di essere stato cinque anni per benino dentro ai binari, se ne esca con l’idea di “boicottare l’orale di maturità”.
Però se a questi ragazzi sarà utile per provare a tirare delle somme e crescere con un’idea della vita che gli consenta, anni dopo, di continuare a vedere il confine tra il giusto e lo sbagliato anche quando ci si rende conto di non poter più essere (o forse non essere mai stati) dalla parte del giusto, non quanto si sarebbe voluto, allora fanno bene a farlo. Sicuramente, gli servirà di più di qualsiasi versione, teorema, poesia o legge della termodinamica imparata nei cinque anni precedenti.


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Desolazione & Stand-up comedy

Il fatto di essere di fatto fuori dai social probabilmente mi sta impedendo di entrare in contatto con tutta una serie di notizie, approfondimenti, commenti e sopra ogni cosa persone che un tempo finivano a vario titolo per farmi incazzare. E’ una buona cosa per la mia salute, credo, ma è una cosa terribile per questo blog su cui non trovo davvero più nulla da scrivere.
Dall’attualità ho sempre tratto il grosso dell’ispirazione a trascrivere in bella copia le mie riflessioni, ma la mia attualità, oggi, è decisamente poco ricca di spunti. Oltretutto, non ho più alcuna voglia di scrivere di politica o di temi grossi ed importanti. Quello che vedo succedere è spesso troppo brutto e non ho le energie necessarie a leggerlo e cercare di dargli una chiave dibattibile, soprattutto conscio del fatto che il dibattito non ci sarebbe in ogni caso. Su quell’aspetto credo di essere invecchiato molto male.
La verità è che questo spazio ha, ogni giorno che passa, sempre meno senso di esistere e forse devo solo decidermi a staccare la spina come ho fatto con i social.

Non oggi, però.
Oggi mi va di condividere qui sopra uno spettacolo di stand up che ho scoperto di recente. Si chiama “Alcoholocaust”, di Jim Jefferies, ed è uscito nel 2010. Trattandosi di stand-up, parliamo di un’era geologica fa e si nota tutta, già dalle prime battute. E’ uno spettacolo forte, con comicità aggressiva e spesso oltre le righe, ma il mio punto non è condividerlo per sostenere che oggi non si potrebbe più fare, che oggi non si può più dire niente, etc. etc.
Il mio punto è, paradossalmente, l’opposto.
Oggi ci sono tantissimi (troppi) comici che, esattamente come i rapper, brandiscono l’arma del politicamente corretto alla rovescia. Gente che cerca solo di fare le battute più edgy o scorrette possibile usando come selling point il fatto che non dovrebbe poterle fare e invece le fa lo stesso. Ideologicamente, come imprinting forse, io non ho neanche tutto questo astio verso chi si ostina a fare B quando tutti gli dicono che fare A è l’unica cosa giusta/possibile/accettabile. Anzi, sono situazioni per cui riesco a provare simpatia anche quando B è qualcosa di lontanissimo dal mio modo di vedere le cose. Il problema nasce quando i numeri non supportano più la narrazione, o almeno i numeri che percepisco io.
La mia impressione è che, oggi, tutti facciano B millantando una dittatura di A che non esiste. Nel caso della stand-up poi, l’aggravante diventa che fare B, ovvero essere scorretti, sia di per sè una sorta di bollino di qualità, che sia diventata condizione sufficiente oltre che necessaria a far ridere. Non è così e, guardando vecchi spettacoli di quando tutta questa menata non era sul radar di nessuno, a mio avviso diventa ancora più evidente.
Jim Jefferies qui fa un’ora di monologo dicendo sì cose ultra scorrette, ma la sua bravura, quello che ti fa realizzare che il tipo è uno capace e non solamente uno a cui piace sfottere le lesbiche, è la costruzione comica, il punto dove vuole portarti con quelle battute eccessive, senza che tu te ne accorga. Anzi, proprio perchè sei distratto dalla scorrettezza delle stesse, come uno specchietto per le allodole. Questo, secondo me, fa tutta la differenza del mondo.
Lo spettacolo integrale è su youtube, se interessa.


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