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Racconti

38 Minuti

2:11 p.m.
Il magazzino è piccolo e abbastanza incasinato.
Pacchi di vecchie brochure e rimasugli di chissà quali attività promozionali si contendono lo spazio sugli scaffali arrugginiti. I cartoni riportano scritte in diversi colori e diverse calligrafie, che a conti fatti sono l’unico indizio che permetta di risalire a quando sono stati abbandonati qui. Molte appartengono a persone che hanno lasciato l’azienda.
Non ci sono finestre. Oltre alla porta blindata da cui si accede al locale c’è solo un piccolo lucernario 30×80 cm, in alto sulla parete di sinistra. Il vetro è sporco ed incrostato ed è impossibile capire se affacci all’esterno o su una qualche intercapedine tra le fondamenta del palazzo. L’unica cosa sicura è che da lì non filtra alcuna luce, l’illuminazione è tutta a carico di una lampada alogena che pende dal centro del soffitto.
In azienda chiamano questo posto ARCHIVIO con la stessa serietà con cui definiscono “Food & Beverage Manager” il ragazzo che rifornisce i distributori automatici. È probabile che alle risorse umane abbiano fatto uno studio per identificare la denominazione che allontanasse maggiormente dalla testa del dipendente l’idea di muffa alle pareti.
Nella stanza però c’è odore di umido. Entrandoci per qualche minuto ad “archiviare” l’ennesimo pacco di carta sprecata non ci si farebbe caso, eppure c’è ed è piuttosto pesante.
Quattro minuti fa la radio ha troncato di netto un pezzo di Dua Lipa per trasmettere il messaggio di una voce metallica che recitava più o meno così:

“LA CITTÀ È BERSAGLIO DI UN IMMINENTE ATTACCO MISSILISTICO. METTETEVI AL RIPARO. QUESTA NON E UN’ESERCITAZIONE.”

Ci sono voluti duecentoquaranta secondi perché Meg uscisse dall’ufficio, facesse tre piani di scale e si infilasse dentro al magazzino. Ci ha trovato Nic.
Lui è rannicchiato in un angolo. Sta piangendo. Trema.
Lei è seduta a pochi centimetri dalla porta, con la schiena appoggiata ad uno scaffale e le gambe stese di fronte a lei. In questo momento, non riesce a pensare ad altro che a questo terribile puzzo di umido.

2:17 p.m.
– Sarà passata?
– E io cosa cazzo ne so…
Nic ha appena alzato la testa dalle gambe. È riuscito a calmare un pochino i nervi perché, in cuor suo, se qualcosa sarebbe dovuto succedere sarebbe già successo. Quanto può impiegare un missile ad arrivare al bersaglio? Ormai sono in archivio da un’infinità e non gli sembra di aver sentito nulla che potesse far pensare all’impatto. Nessun botto, nessuna scossa. Nel tentativo di razionalizzare si è trovato a mettere insieme nella testa tutte le possibili nozioni sulle armi nucleari di cui è a conoscenza, ma la cosa più che calmarlo lo stava gettando nuovamente nel panico, così ha deciso di staccare la fronte dalle ginocchia e parlare con Meg. Una semplice domanda. Un’implicita richiesta di conferma per distendere i nervi. Perché doveva essere sempre così stronza?
– Intendo che ormai sarà passata. Siamo qui da un sacco di tempo.
– Siamo qui da neanche dieci minuti.
– Solo?
– Solo.
Nic sa di aver lasciato l’iPhone sulla scrivania, ma ha l’orologio. Non è più abituato ad usarlo per controllare l’ora e quindi fino a quel momento non ci aveva pensato. Adesso però lo guarda.
– Quanto dici che ci vorrà?
– Perché non esci a controllare?
Maledetta stronza.

2:19 p.m.
Meg ha con sé il suo cellulare e guarda il display. L’indicatore dice che lì sotto non c’è segnale e lei ha smesso di provare a smentirlo. Quando la radio ha passato il messaggio l’unica cosa che ricorda di aver fatto è chiamare casa. Non sa come sia uscita dall’ufficio né come sia arrivata in magazzino. Ricorda solo il maledetto “bip” della chiamata che cade. Una, cinque, dieci volte. Le bestemmie a denti stretti, il groppo in gola e quel continuo “bip”. Nel momento in cui tutta la città stava telefonando, prendere la linea sarebbe stato meno probabile che vincere la lotteria, eppure non riusciva a smettere di provarci, ancora e ancora.
Sua figlia oggi non aveva lezione. Abitano fuori città, seppur non di molto, e in teoria dovrebbe essere al sicuro. Il missile che sta arrivando però potrebbe essere farcito con chissà quale soluzione all’avanguardia per la distruzione di massa. Magari è una bomba atomica, magari un’arma chimica o batteriologica.
Meg si ritrova a sperare sia una cosa che li ammazzi sul colpo. Più ci pensa e più capisce che la chiamata che ha tanto desiderato di poter fare non era per mettere in guardia la sua bambina, né per assicurarsi fosse al sicuro.
Meg capisce di non voler morire senza sentire la sua voce un’ultima volta.

2:27 p.m.
Nic ora gira per il magazzino e rovista tra gli scatoloni. Non sa cosa sta cercando, ma farlo lo aiuta a tenere impegnata la testa. Trova un sacco di vecchio materiale pubblicitario destinato a fiere e convegni, risme di carta intestata con indirizzi di sedi precedenti, buste, faldoni con ricevute di acquisti fatti prima del millennium bug.
L’azienda tiene uno storico di tutto – pensa Nic –  ed è una buona cosa, ma forse il modo in cui il materiale viene accumulato si potrebbe ripensare. Un archivio dovrebbe avere una catalogazione più precisa e dettagliata, dei rimandi univoci, sigle ed etichette ben leggibili.
Nic saprebbe come fare a gestire il tutto, è una persona precisa e meticolosa e ha le competenze gestionali per poterlo fare. La job description a cui sta pensando è “Records & File Manager” ed è un mezzo sorriso quello che si apre sul suo volto prima che il cervello collochi questa sua aspirazione dove dovrebbe stare: nel futuro.
Nic ricorda che potrebbe non avere un futuro.
Sta per sfogare la nuova ondata di panico in un grido quando Meg gli parla.
– Si può sapere cosa stai cercando?
– Ricordi quella fiera di tre anni fa a Londra?
– Sì, perché?
– Forse è rimasto qualche gadget. Avevamo fatto brandizzare
– LE RADIO! Cazzo, aspetta che ti aiuto.

2:33 p.m.
Scatoloni, borse di plastica, persino qualche sacco nero di quelli usati per il pattume. Su quegli scaffali c’è un mondo, reperti attraverso cui gli archeologi potrebbero ricostruire la storia dell’azienda anche tra migliaia di anni. Meg però non vede alcun motivo per cui, tra mille anni, a qualcuno dovrebbe fregare qualcosa dell’azienda.
Lei e Nic si sono divisi le pareti, in modo da lavorare in maniera indipendente. Una sua idea, ovviamente. Ora Meg ha coperto circa metà della sua area di competenza senza trovare nulla di utile. Con il passare degli scatoloni, la spinta data dall’euforia iniziale si è via via affievolita lasciando spazio al dubbio di stare sprecando del tempo. Posto che sia rimasta qualcuna di quelle orrende radioline verdastre e posto che loro riescano a trovarle, inizia a credere non se ne faranno un bel nulla dentro una stanza in cui non prendono nemmeno i cellulari.
– Mi dici perché mi odi tanto?
Meg si volta a guardare Nic e lo trova concentrato nella ricerca. E’ probabile le abbia fatto quella domanda senza neanche voltarsi a guardarla in faccia. Cristo, se chiedi a qualcuno perché ti odia, il minimo è guardarlo negli occhi. Devi essere pronto alla risposta, poterla sostenere. L’istinto le ha già portato alle labbra l’ennesima replica tagliente, uno dei tanti vaffanculo che ogni mattina si infila in faretra prima di varcare la porta dell’ufficio. Eppure si ferma. Respira.
– Io non ti odio. Nemmeno ti conosco.
– Non mi saluti mai. La mattina mi capita di incrociarti per l’ufficio e dirti “buongiorno”, ma tu non rispondi. Nemmeno un cenno. Quest’anno ti ho persino inserita tra i miei SMART Goals
– Gesù… ora sì che ti odio.
– Scusa?
– Senti Nic, io non so nemmeno chi sei o in che reparto lavori. So come ti chiami per via del cartellino che porti appeso al taschino. Questo posto è diventato un andirivieni di volti, non esiste più un orario di lavoro, un proprio ufficio. Ognuno si presenta all’ora che vuole e fa il suo, sedendosi nella prima scrivania che trova libera. Comunichiamo tra noi tramite email, Cristo santo, e magari siamo a due sedie di distanza. Non ti saluto come non saluto le persone che incrocio in metropolitana per venire qui.
– Beh, nemmeno ci provi però.
– Non provo a fare cosa?
– Ad instaurare dei rapporti.
Meg si pente di non averlo mandato affanculo. Tra tutti gli idioti che popolano questo posto doveva capitarle proprio Mr. Spirito Aziendale per la convivenza forzata dei suoi ultimi momenti di vita. Uno che discute i propri obbiettivi personali con l’ufficio risorse umane, uno che fa amicizia perché glielo chiede il capo, o peggio, perché lo reputa parte delle sue mansioni.
Di colpo sente di essere sul punto di crollare, abbandonarsi alla disperazione le sembra l’unica cosa che resti da fare.
– ECCOLE!
Il grido di esultanza di Nic la trattiene sull’orlo del buco nero in cui la sua mente stava per precipitare. Meg si fionda da lui e senza rendersene nemmeno conto gli strappa di mano quella piccola radio. Allunga l’antenna, poi ruota la manopola del volume che fa anche da interruttore. Un click, seguito dal classico rumore bianco dell’assenza di segnale. Merda.
Brandendo la radio come farebbe un rabdomante inizia a girare per lo stanzino in cerca di una trasmissione, anche minima, anche distorta. La sua attenzione ad ogni percettibile variazione di suono è massima.
Ci vuole qualche secondo, forse qualche minuto, poi accade:

“BZZZ…SAGLIO DI UN IMMINENTE ATTACCO MISSILISTICO. METTETEVI AL RIPARO. QUESTA NON E UN’ESERCITAZIONE. ATTENZIONE!”

2:39 p.m.
La radio ripete ininterrottamente lo stesso messaggio, in loop.
Nic era convinto non avrebbe mai più sentito quell’allarme. Era sicuro che, se fossero riusciti ad intercettare una qualche trasmissione, sarebbe stata di buone notizie.
E’ per questo che ora sta di nuovo piangendo, rannicchiato in un angolo dell’archivio. A differenza di prima anche Meg ora è in lacrime, ma questo Nic non lo sa. Potrebbe essere solo o in mezzo a mille persone in questo momento, non farebbe alcuna differenza.

2:41 p.m.
La stanza sembra avvolta dal silenzio. La radio continua a sputare lo stesso avviso letto dalla stessa voce metallica, ma ormai è un sottofondo indistinto che il cervello di Meg non registra nemmeno più. Osserva Nic, ha lo sguardo fisso avanti a sé e si dondola leggermente avanti ed indietro con il busto. Gli occhi sono rossi, ma probabilmente le lacrime sono finite. Finiscono per tutti, ad un certo punto.
– Ehi Nic, scusa se ho fatto la stronza.
Nic non risponde.
– Andrà bene – insiste lei – Vedrai che andrà tutto bene.
– Sai a cosa stavo pensando?
– No.
– Mi capitava spesso di immaginare il mio funerale. Hai presente? Ti chiedi “come sarebbe se morissi domani?” e cominci a fantasticare. Inizi a proiettare le immagini nella testa, come se guardassi con gli occhi del tuo fantasma che assiste all’evento senza poter intervenire. Parti dalla musica che vorresti risuonasse lungo il corteo e arrivi alle persone che ci saranno, quelle che non ci saranno, quelle che verranno anche se di te non gli è mai importato…
– Cristo, ti ho detto che mi dispiace ok?
– No, aspetta. Lasciami finire, non dicevo per quello. Stavo pensando a quanto sia assurdo l’aver immaginato tantissime volte i dettagli del mio funerale e poi morire in questo modo, in un attacco nucleare che spazzerà via tutto. Niente superstiti a piangere per noi, nessuno rimasto a sentire la nostra mancanza. Nessun funerale.
– Nic piantala, porca puttana. Noi non moriremo!
Dio, quanto vorrebbe esserne sicura.

2:45 p.m.
Sono passati trentotto minuti da quando è stato dato l’allarme e questa volta è il messaggio della voce metallica ad essere troncato brutalmente.
Dalla radio esce un fischio.
Nic chiude gli occhi, si raggomitola ancora più stretto in terra ed inizia a pregare.
Anche Meg chiude gli occhi, nella testa l’unica immagine è il volto della figlia.
È una frazione di secondo, eterna, poi la voce metallica scandisce un nuovo messaggio:

“ATTENZIONE. NON C’È ALCUN ATTACCO MISSILISTICO IN CORSO. SI È TRATTATO DI UN ERRORE. RIPETO. NON C’È ALCUN ATTACCO MISSILISTICO IN CORSO.”

Nic abbraccia Meg con tutte le sue forze e Meg ricambia l’abbraccio con lo stesso vigore. Si tengono stretti per quello che ad entrambi sembra tanto, tantissimo tempo e tutti e due non fanno che pensare al fatto che non sia un problema.
Ora hanno tutto il tempo che vogliono.

2:46 p.m.
È Meg a staccarsi per prima. Indietreggia di un passo. Guarda Nic.
Odia l’azienda, odia il suo lavoro.
L’aveva vista piangere.
– Sei licenziato.


Questo racconto l’ho scritto ormai diversi mesi fa con l’idea di partecipare ad una bella iniziativa editoriale messa in piedi da Fabrizio.
L’iniziativa non ha avuto il successo che speravamo, quindi questo raccontino sarebbe stato destinato a restare nel cassetto. Lo metto qui nella speranza che a qualcuno vada di leggerlo e darmi un feedback.

Una cosa divertente (che non farò mai più)

Intorno alla metà di Luglio @bidizeta ha scritto il tweet qui sotto:

A me è sembrata una bella idea, forse anche perchè ho immediatamente pensato al momento che avrei avuto voglia di raccontare, così ho iniziato a scrivere in giro e chiedere se qualcuno fosse interessato a fare, davvero, questa cosa. Molti “sì” e qualche “forse” nei mesi si sono trasformati in molti “forse” e altrettanti “no”, ma alla fine della fiera qualcuno che ce l’ha fatta a mandarmi un raccontino c’è stato e così li ho messi insieme in una raccolta .pdf di una sessantina di pagine.
Non sono un editore, non ho mai lavorato nell’ambito nemmeno di striscio, quindi probabilmente ho commesso una serie infinita di errori nel definire le scadenze e nel modo in cui ho provato a farle rispettare. E’ possibile che, se fossi andato avanti ad aspettare, avrei raccolto qualche pagina in più, ma mi sembrava poco rispettoso nei confronti di quelle persone che invece per arrivare entro i termini ci si sono sbattute. Si tratta di una cosa fatta unicamente per divertimento, quindi immaginavo dal principio che qualcuno alla fine non ce l’avrebbe fatta a starci dentro, spero solo nessuno se la sia presa per la mia decisione di non aspettare oltre. 

La raccolta contiene dodici raccontini più l’immagine di copertina, che è un’ulteriore storia che abbiamo provato a raccontare.
Hanno partecipato, in rigoroso ordine di apparizione: Gozer Vision, Steven Senegal, Roberto Gennari, Isidoro Meli, Michele Borgogni, Andrea Giunchi, Enzo Baruffaldi, Nanni Cobretti, vali, Luca Doldi, Claudia e Pietro “Pier” Lofrano.
Li ringrazio tutti per l’ennesima volta.

Tra i raccontini ce n’è ovviamente anche uno mio, racconta un avvenimento di cui avevo già scritto qui sopra a caldo, ma credo messo giù meglio.
Non sono tante le volte in cui sono soddisfatto di quello che scrivo, soprattutto perchè non sono tante le volte in cui mi prendo il tempo di scrivere con calma, senza pubblicazione immediata, potendo rileggere e rivedere il testo diverse volte, modificandolo in più riprese.
L’ho fatto leggere in anteprima a tre persone, prima di definirlo “finito”, e tutte e tre me lo hanno mezzo stroncato, con motivazioni diverse e a volte divergenti. Questo anche per dare un metro del mio essere soddisfatto di me.

Cliccando sulla copertina qui sotto vi scaricate la raccolta.

Il calcio è uno sport meraviglioso.

E’ il 115° minuto di Danimarca-Croazia, ottavo di finale mondiale.
Modric inventa una palla clamorosa per Rebic che, solo davanti al portiere, potrebbe fare qualunque cosa. Sceglie di cincischiare saltando il portiere per farsi poi abbattere dal difensore. Jørgensen cerca la palla, quindi  è cartellino giallo, però in questo momento conta solo una cosa.
E’ rigore.
Sul dischetto va proprio Modric. Il fenomeno del Real Madrid. Il capitano.
Calcia in modo orribile. Schmeichel Jr. non solo para, addirittura la trattiene.

Sbagliare un rigore al 115° vuol dire che la devi perdere.
Non ti rialzi da un colpo del genere. 

Si va quindi ai rigori.
La chiamano “lotteria” perchè azzera le differenze tecniche e tattiche, almeno in teoria. Può vincere chiunque. Contano solo tenuta mentale e fortuna, ma su quest’ultima nessun croato sarebbe pronto a scommettere, visto quanto appena successo. 
La Danimarca calcia per prima.
Ci va Eriksen, il più forte dei loro. Sbaglia.
Forse non è finita, forse la sorte ha deciso di pareggiare i conti. La fiammella della speranza agguanta una boccata di ossigeno e rinvigorisce un attimo. Giusto il tempo di vedere Schmeichel Jr. parare il penalty di Badelj, calciato anche peggio di quello di Modric nei regolamentari. La Croazia butta alle ortiche la seconda chance di vittoria in pochi minuti.

Non è cosa.
Gli Dei del calcio si stanno esprimendo chiaramente.
A ribadirlo è il proseguo dei calci di rigore. La Danimarca segna con Kjær, la Croazia impatta con Kramarić, ma Krohn-Dehli riporta ancora una volta avanti i danesi.
Modric ha sul piede la palla pesantissima della disfatta. Di nuovo lui, dopo quella per la gloria di 10 minuti prima.
GOL.
Ancora un rigore brutto, bruttissimo, che passa a pochi centimetri dal piedone di Schmeichel Jr., ma che questa volta si insacca alle sue spalle. I pochi centimetri che dividono tragedia e trionfo.
Parità. Di nuovo.

Solo che ora la sensazione è davvero che la sorte sia girata perchè Subasic, già fondamentale sull’errore di Eriksen, neutralizza Schøne e porta la Croazia al terzo possibile match point. Questa volta nei piedi di Pivarić.
La rincorsa è lunghissima.
Schmeichel Jr. para.
Schmeichel Sr., portierone anni novanta, in tribuna è letteralmente pazzo di suo figlio.
E’ t
ripudio danese sugli spalti.

Devono passare loro. E’ scritto. Come per Italia-Olanda nel 2000. Non ti puoi divorare tre possibilità di passare il turno senza pagare dazio alla fine. Non ai mondiali.
Credevo.
Invece Subasic fa un nuovo miracolo mettendo il piedone sul tiro centrale di un altro Jørgensen. 
Il quinto ed ultimo rigore tocca a Rakitić.
Se segna è vittoria, se sbaglia si va ad oltranza.
Palla da una parte, portiere dall’altra e Croazia ai quarti di finale.

Madonna che bello il calcio.


Questo post è nato su Facebook, ma poi ho pensato che meritasse di stare qui sopra. Che senso ha avere un blog, se le cose che scrivo le metto altrove?

Cose successe in HBO

George R.R. Martin è legato ad una sedia, sudato e stanco. Di fronte a lui, David Benioff e D.B. Weiss lo osservano. L’espressione soddisfatta e compiaciuta sui loro volti lascia presto il posto ad un ghigno. Può sembrare scherno, ma in realtà è solamente sadismo, represso per anni e finalmente lasciato libero di affiorare.
E’ a quel punto che i due iniziano a strappare pagine e pagine dai romanzi dello scrittore che, inerme, è suo malgrado costretto ad assistere a tutta la scena.
“La vedi questa storyline George? ECCO, NON CE NE FREGA UN CAZZO.”
“Vi prego, vi scongiuro lasciate quella part…”
“Quale, QUESTA? – risponde Weiss mentre di scatto sbottona i pantaloni ed inizia a pisciare sulle pagine di uno dei volumi – No, caro. Tutta questa MERDA noi la togliamo. Per noi non è mai esistita!!!”
“Ma… non potete farlo…”
“Oh, certo che possiamo. POSSIAMO ECCOME!”
E’ Benioff ora ad accanirsi sui tomi con una violenza ed una soddisfazione senza eguali, in preda ad una vera e propria estasi.
“Centinaia di pagine… in questi anni ci hai costretti a leggere miliardi di parole INUTILI! Personaggi, storie, colpi di scena DI CUI A NESSUNO PUO’ FREGARE UN CAZZO! Volevamo ribellarci, ma non potevamo. Abbiamo chiesto indipendenza, autonomia, ma l’unica risposta che arrivava erano altre pagine sotto cui soffocare. CI HAI ROTTO I COGLIONI!”
“Non volevo… scusatemi… non è colpa mia. Purtroppo non so più dove andare a parare. Vorrei piantarla lì, ma il mio editore mi sta addosso e anche HBO continuava a chiedere…”
“ZITTO! DEVI STARE ZITTO! – riprende Weiss tirando “A Dance with Dragons” nel camino – Hai venduto i diritti per la TV per fare ancora più soldi, per ampliare il numero di persone TRUFFATE da te e dal tuo editore. Hai promesso una saga che non sai concludere, un finale che non hai nemmeno idea di come tirare insieme. E NOI COSTRETTI A DARTI UNA MANO! Ancora mi sveglio sudato nel cuore della notte, con nelle orecchie le urla di persone che chiedono perchè le costringo a sciropparsi le storie di Daenerys a Meereen…”
“Dio, cosa abbiamo fatto…” bisbiglia Benioff piangendo, con il volto tra le mani.
“Ma adesso basta, caro George. – riprende Weiss – Basta. Vaffanculo Aegon Targaryen, vaffanculo Quentyn Martell…”
“‘FANCULO TUTTI I CAZZO DI MARTELL!!! – Grida Benioff gettando benzina su un espositore Mondadori.
“Già, fanculo a tutti loro! E Fanculo a te George. Non saremo più tuoi complici in questo!”
Martin è sconvolto.
“Voi non sapete quello che state facendo. Siete degli stupidi. Col materiale che vi ho dato avremmo potuto mangiare tutti per anni. Ci potevate fare almeno otto spin-off…”
“Ammazziamolo.”
“No, David. Non merita questa grazia. Noi ora chiuderemo quest’opera e lo faremo il meglio possibile. Con le nostre idee. Abbiamo ancora due stagioni da scrivere. Diamo alla gente quello che merita. Diamo loro un finale. Mettiamo fine alla tirannia di questo grassone di merda…”
“TANTO IO POI SCRIVERO’ UN FINALE DIVERSO PER I MIEI LIBRI E FOTTERO’ DI NUOVO TUTTI! COME HO SEMPRE FATTO! NON POTETE SCONFIGGERMI. IO SONO GEORGE R.R. MARTIN!”
“Può essere. Forse però, se faremo bene il nostro lavoro, qualcuno potremo salvarlo. Per pochi che siano, avremo fatto del bene.”
Weiss e Benioff escono dalla stanza.
Si abbracciano, commossi.
Da dentro giungono ancora grida ferali: “… NON SONO LA VOSTRA PUTTANA…”, ma loro ora hanno raggiunto la pace.
Insieme, costruiranno un mondo migliore.

Niente, ieri ho visto la premiere della sesta stagione di Game of Thrones e ora ho questa immagine bellissima in testa che non riesco proprio a far andare via.

One last kiss

Un altro post. Ebbene sì.
Venerdì sera tranquillo. Niente da fare, vado con la Polly a vedere Dragon trainer 2 (MEH) allo spettacolo delle 20:00, poi mangiamo una roba al volo da Rossopomodoro (NO) e alle 23:00 scarse siamo a casa. In serate così è un attimo finire su youtube/spotify a cazzeggiare. Se non si accende casualmente la play, dico.
Solite cose: ascolti un pezzo, che ne chiama un altro e poi un altro ancora. Decidi di fare una playlist che non riascolterai mai più e ci passi diciamo due ore. Inizi per associazione di idee, poi cerchi i pezzi che vuoi metterci, poi pensi ai pezzi che devi metterci per forza e cerchi anche quelli. E poi togli almeno 2/3 dei pezzi che hai scelto perchè non stanno bene con l’ultimo che hai tirato dentro e la tua playlist è diventata un’altra cosa rispetto all’idea originaria, ma ormai sei in ballo e la devi finire. Che vuol dire arrivare ad avere un numero di tracce nell’intorno di 15, in un ordine che ritieni funzionale al messaggio e alla playlist stessa. Come dicevo: le solite cose.
Sta di fatto che ad un certo punto, scartabellando la mia libreria su Media Player mi è capitato in cuffia un pezzo che non sentivo da boh, tantissimo. Il pezzo si chiama “One Last Kiss” e nella mia playlist sta a nome Adventures of Jet. Il disco è Muscle. L’anno d’uscita è il 2003. Prendiamo queste info e mettiamole lì.
Sto pezzo è finito nel mio PC indicativamente tra il 2003 e il 2006. Sono quasi sicuro di averlo letto, nominato da qualcuno, sul forum di Munnezza. Però per una volta non era una roba tipo leggi un commento e ti viene voglia di ascoltare il pezzo in questione. Ricordo che c’era un dibattito legato all’autore. Una di quelle discussioni tipo: “Oh, ma sapete mica di chi è il pezzo che fa così/dice così/che si sente in quel contesto lì?” e d’improvviso tutti lo conoscevano, tutti lo cercavano e nessuno aveva ragguagli in merito. E alla fine uno è arrivato e ha detto: “Ma sì, sono gli Adventures of Jet.” e io mi sono fiondato su internet e l’ho cercato, a lungo, fino a che l’ho trovato e scaricato. Era un pezzo figo, effettivamente. Genuino, con un certo tiro, delle melodie oneste e quell’alone sporco e ruvido che aveva quasi tutta quella roba lì in quegli anni lì. Finisce a schifio, con ognuno che suona per conto suo in un tripudio di ignoranza, ma gasa il giusto. Abbastanza da fare il secondo passo e cercare tutto il disco.
Introvabile.
Ai tempi i dischi introvabili erano più di qualcuno. Se non la ritenevo una causa degna di farsi venire il fegato gonfio, mollavo presto il colpo e mi accontentavo del pezzo che avevo. Per questi Adventures of Jet andò così.
Dieci anni dopo, Dio, per distrarci dal fatto che ancora esistano le zanzare ed il meeting di CL, ci ha donato Spotify e così quando alle 2 di notte mi è finita in cuffia la canzone incriminata, ho azzardato di nuovo il famoso secondo passo e ho deciso di sentirmi il disco per intero. Anche su Spotify trovare il disco o il gruppo non è immediato, però c’è.

Lo faccio partire. La prima traccia è fatta di rumoreggiare e tastierine. Pare una roba simpa per iniziare il disco, suona un po’ troppo pulita, ma potrebbe anche starci. La seconda traccia fa nascere il dubbio. Ancora tastiere, ancora suoni pettinati. La terza però è lei, di nome e di fatto. Mh. Andiamo avanti. Dalla quarta in poi, di nuovo in linea con l’inizio del disco. E’ evidente che la traccia di mio interesse sia inserita a cazzo in un disco che non c’entra niente. Va beh, non muore nessuno. Però io resto con la voglia di ascoltare il disco e, alle due passate di notte, ne so meno di quando mi ci sono messo.
Usiamo google. Cerco “Adventures of Jet”, ancora con l’idea che fossero sbagliate tutte le altre tracce. Occam a casa mia è un barbiere. Trovo qualcosa. Pochissimo. Ma con pazienza tiro insieme i pezzi e finisco sulla pagina dei Bobgoblin. Mi faccio una veloce cultura leggendo la bio e poi passo alla sezione musica, dove in fondo trovo anche le release a nome Adventures of Jet. Muscle è lì in bella mostra e si può ascoltare in streaming. Figata. Lo faccio partire e scopro che le tracce erano tutte giuste anche su Spotify, tranne “One Last Kiss” che, ovviamente, è un altro pezzo completamente in linea con il contesto.
Maddai.
Così riprendo in mano la traccia di cui voglio scoprire l’origine e memorizzo la prima strofa. “Down and lost again, intetions through the door”. Inizio a scriverla su Google per vedere se dal testo riesco a risalire al pezzo e all’autore. Scrivo “Down and lost again” e il browser autocompleta la citazione. Mi sento uno stronzo. In primis. Poi penso che magari è una cover di un pezzo famosissimo, tipo dei Beatles, e che se così fosse di risalirci dal testo non se ne parla. Ho già in canna due o tre Madonne, quindi, ma ci provo uguale e premo invio. Con mia somma sorpresa esce un sito di lyrics che riporta la citazione a nome Jerry Can. Dai che forse. Torno su Spotify e cerco. Niente. Cerco meglio. Trovo.

E’ la opener di un disco targato 2010. E’ impossibile che questo pezzo sia uscito nel 2010. Faccio partire il disco. Questa volta ci può stare. I pezzi sono abbastanza distanti tra loro e dalla traccia iniziale, ma la voce mi pare sia quella e i suoni sono sufficientemente approssimativi da risultare simili. Si va da roba tipo Lagwagon a roba tipo Good Riddance. Molta pattumiera, qualche cosa di decente. Mi faccio l’idea sia una raccolta uscita nel 2010 di pezzi da demo di varia origine e natura. E’ una spiega che può bastarmi, alle 3 del mattino.
Ci scrivo prima su due righe su FB, poi mi ricordo che ho un blog e butto giù un post.
Oh, “We had it all” è figa.
It was totally worth it.

Higgs, il bosone e la teoria di Ze

Ieri sera stavo chiacchiarando con Ze riguardo alla scoperta del Bosone di Higgs. In quanto uomini di scienza, o nel mio caso quantomeno autoproclamatosi tale in maniera arrogantella (cit.), la scoperta di questa particella fondamentale non ci ha lasciati indifferenti, pur non avendo io capito minimamente di cosa si tratti e quale sia il suo nesso con Dio, l’universo ed il Big Bang.
Ad ogni modo, mentre ne discutevamo, Ze mi guarda e mi dice una cosa tipo: “Massì, è la particella fondamentale. Spiega tutto. Senti qua…” e a quel punto snocciola lì una teoria che, effettivamente, spiega tutto.
Teoria che, autorizzato dall’autore, qui riporto in maniera che possa rimanere scritta da qualche parte.

La scoperta del bosone di Higgs, oltre a convalidare varie teorie scientifiche, apre chiaramente ad una nuova concezione e conoscenza dell’esistente che porterà nel prossimo futuro a una serie notevole di innovazioni tecnologiche e scientifiche. La più rilevante, per quanto concerne questa teoria, è la possibilità di viaggiare indietro nel tempo.
L’ottantaquattrenne scienziato inglese a questa cosa lavora già da tempo imprecisato, ma perchè il suo metodo funzioni è necessario arrivare a conoscere il fantomatico bosone. Con quella nozione e quanto ne deriva, la teoria che permette il “jumpback” (come lo definisce Higgs) è attuabile e necessita solo di essere messa in pratica.
Servono i cosiddetti tempi tecnici, diciamo ancora cinque mesi scarsi.
A lavorare su questo progetto ci sono un gruppo di suoi collaboratori, che prossimamente ultimeranno e collauderanno questa innovativa scoperta. Uno di loro, durante il “Jumpback”, finirà dai Maya e racconterà loro tutto, ma proprio tutto, della storia da lui vissuta fino al giorno in cui è saltato indietro nel tempo.
Giorno che, ovviamente, sarà il 21 Dicembre di quest’anno.
Da lì poi una serie di malintesi hanno portato i maya prima a fidarsi degli Spagnoli, che come il viaggiatore temporale si presentarono dicendo di venire da oltre l’oceano, e poi a formulare ipotesi sulla fine del mondo che in realtà è semplicemente la fine delle conoscenze future di una persona che, il 21-12-2012, è tornata indietro nel tempo.
La spiegazione è talmente lineare da fare paura.

Ze sosteneva che questa teoria può spiegare tutto. Lui era particolarmente focalizzato sulla deriva dei continenti, ma non saprei dirvi perchè. In quel momento infatti io ero intento a collegare questa cosa con l’altra teoria fondamentale di cui scrissi tempo fa: ovvero quella sulla provenienza di Gesù.
Eccitato da questa idea, sono andato a vedere sulla pagina del dipartimento di Higgs se qualcuno dei vari studenti, assistenti e ricercatori potesse avere, almeno per l’aspetto, le carte in regola e, così d’istinto, indicherei uno tra Sam Yoffe, Jamie Hudspith e Rudy Arthur come papabile (gioco di parole). In quest’ottica anche il nomignolo tanto discusso di “Particella di Dio” acquisterebbe tutto un altro spessore.
Questa quindi è la teoria che spiega l’origine di tutte le cose. Mi sarebbe piaciuto fosse Ze a scriverla per benino su questo sito, sarebbe stata esposta anche mille volte meglio, ma realizzo ora, a fine post, di non averglielo neppure chiesto.
Shame on me.

Il numero di Playboy con Stephanie Seymour

Esce oggi, per celebrare i vent’anni di Nevermind, Il numero di Playboy con Stephanie Seymour. Questo libro (perchè effettivamente sembra un libro vero) vuole essere una sorta di tributo all’album dei Nirvana che, un po’ per tutti anche se per tutti con una motivazione differente, è stato importante. Siccome è un’idea che apprezzo molto (e siccome ci ho scritto sopra due righe pure io [anche se la seconda motivazione è diretta conseguenza della prima]) mi pare valga la pena di segnalarlo.
La cover è di Giudit, la retrocopertina è di Tostoini, mentre l’impaginazione è soprattutto opera di Barabba.
L’idea da cui tutto è nato e di conseguenza la regia del progetto è di Bastonate.
Hanno contribuito, in rigoroso ordine alfabetico: Accento Svedese, Alex Grotto, Andrea Bentivoglio, Andrea Mancin, Arianna Galati, Aurelio Pasini, Bart Cosmetic, Capra – Gazebo Penguins, Daniele Funaro, Daniele Piovino, Daniele Rosa, Davide Bolzonella, Diego Peraccini, Elena Marinelli, Emiliano Colasanti, Enrico Veronese, Enzo Baruffaldi, Federico Bernocchi, Federico Guglielmi, Federico Pucci, Federico Sardo, Francesca Fiorini, Francesco Farabegoli, Francesco Russo, Germana Maffucci, Giampiero Cordisco, Giovanni Pontolillo, Giuditta Matteucci, Giulia Blasi, Giuseppe Mancuso, Irene Musumeci, Jacopo Cirillo, Livia Fagnocchi, Luca Benni, Marco Braggion, Marco Caizzi, Marco Delsoldato, Marco Kiado, Marco Manicardi, Marco Pecorari, Marina Pierri, Massimo Fiorio, Matteo Cortesi, Matteo Zuffolini, Mattia Meirana, Nicola Berto, Paolo Barbieri, Paolo Belardinelli, Paolo Grava, Paolo Morelli, Pop Topoi, Ramona Norvese, Ray Banhoff, Renato Angelo Taddei, Roberta Ragona, Roberto Bargone, Roberto Recchioni, Robertz Vinx, Simone Rossi, Solo Macello, Tatiana Traini, Tito Faraci, Tommaso Belletti, Valerio Spisani, Vanessa Carmicino.
Cliccando sull’immagine a sinistra è possibile scaricare il pdf, per l’epub il link è invece questo.
Buona lettura.

Pilota

L’appartamento è quasi totalmente immerso nel buio.
Un’altra torrida estate milanese è ormai iniziata ed in questo periodo le lampadine accese hanno lo spiacevole difetto di innalzare ulteriormente la temperatura oltre a richiamare le zanzare.
Io odio le zanzare.
Spesso mi chiedo quale sia stata la spinta evolutiva che le ha portate ad essere ciò che sono oggi. Il fatto che il loro ciclo vitale si fondi sul prelevare dal mio corpo preziosa linfa non mi crea particolare disagio. E’ irritante, se vogliamo, pensare che questi esseri per vivere non debbano fare altro che succhiare energia dalle creature che li circondano, tuttavia credo che questa cosa faccia particolarmente incazzare perché a noi poveri esseri umani non è concesso di fare lo stesso. Conosco molta gente che vivrebbe volentieri la vita del parassita. Gente che già nel quotidiano cerca, giorno dopo giorno, di attingere il più possibile da parenti, amici, colleghi e perfino estranei pur di risparmiarsi il peso di dover fare da sola. Anche il più dotato degli appartenenti a questa categoria, tuttavia, non arriverà mai a sfruttare il prossimo quanto possono e sanno fare le zanzare.
Per quanto non credo mi abbasserei mai a fare la vita del parassita il solo pensare che questi piccoli insetti possano permetterselo solletica la mia invidia, tuttavia sebbene dall’invidia sovente scaturiscano rancore e di conseguenza odio, non è per questo motivo che provo così tanto risentimento nei confronti dei fottuti insetti succhia sangue. Ciò che mi fa letteralmente impazzire è altro.
Per sopravvivere l’unica cosa che le maledette devono fare è succhiarmi del sangue. Niente di più. Oltretutto essendo migliaia non ho una sola fottuta speranza di impedirglielo, in nessuna maniera. Non c’è rimedio di quelli i cui spot inondano la TV ogni estate che abbia mai dato anche solo l’impressione di essere efficace e per quanto io mi possa impegnare ad uccidere ogni singolo esemplare mi ronzi attorno, ce ne sarà sempre qualcun altro pronto a pungermi nei punti più impensabili. Preso atto di questa sconfitta in partenza e rassegnatomi al dover donare alle bastarde parte del mio sangue come nutrimento, non c’è un solo cazzo di motivo per cui sia giustificabile il fatto che lascino sul mio corpo quegli orribili ponfi urticanti.
Ecco, è questo che non tollero delle zanzare: la beffa che si fanno di me dopo avermi sfruttato.
Ed è per questo che non vedo alcuna ragione evolutiva perché gli insetti che tanto disprezzo debbano aver mantenuto questa peculiarità nel corso degli anni. Trovo addirittura sia loro controproducente ai fini della continuità della specie, essendo il prurito la ragione principale per cui l’uomo tenta da secoli di sterminarle.
Allora perché sono così?
Non avendo una risposta a questa domanda potrei comportarmi come fa la gran parte gli uomini al cospetto di interrogativi privi di ragionevole e logica spiegazione: potrei rifugiarmi nella volontà divina. Se così facessi tuttavia, le zanzare per me non potrebbero rappresentare altro che la prova dell’anima sadica di Dio.
Sbatto le palpebre e torno al qui ed ora.
Dalla cucina del trilocale arrivano delle voci oltre ai tenui raggi dell’unica lampada presente nella stanza. La TV è accesa, ma con tutta probabilità le due persone che gli stanno intorno non la stanno guardando. Nessuno più la guarda, la televisione, eppure ormai qualunque abitazione ha un apparecchio televisivo per locale. Non credo manchi molto a che la gente inizi a farsi installare super schermi al plasma persino al cesso, strappando alla lettura l’ultima delle sue roccaforti.
La finestra del salotto si affaccia sul cortile ed è aperta proprio di fronte a me. La tapparella è alzata e l’immagine incorniciata dagli stipiti potrebbe essere ammirata per ore senza mai stancare, intrisa di una poesia ed una malinconia tali da rapire chiunque sappia apprezzare le cose belle che quotidianamente ci circondano. All’orizzonte il cielo è sereno e risplende di flebili e rade stelle. Per quanto piccolo, questo dannato paesino alle porte di Milano genera fin troppo inquinamento luminoso per permettere agli astri di farsi ammirare al massimo del loro splendore. La luna però, quella è difficile da offuscare, specialmente questa notte. Dritta avanti a me è piena ed arrogante nel suo giallo intenso. Oggi è talmente bassa dall’essere parzialmente coperta da alcuni alberi all’orizzonte e le sagome nere risaltano nella luce riflessa dal satellite generando un paesaggio che mai ci si aspetterebbe di poter vedere in questo buco di culo di area suburbana.
E dire che tempo fa non avrei certamente apprezzato cose come questa e non perché io abbia recentemente sviluppato un maggior gusto estetico. Semplicemente è cambiata l’attenzione con cui osservo ciò che mi sta attorno.
Ho aperto gli occhi.
Tornare a casa dall’ufficio non è più solo la coda in tangenziale. E’ il gioco di luci che il sole crea dietro le nuvole, è il luccichio dei riflessi sulle immense vetrate dei modernissimi palazzi che mi circondano, è il cucciolo di lupo addormentato nel verdissimo prato del mio vicino ed è quanto sto ammirando dalla finestra della stanza in cui mi trovo ormai da diversi minuti.
La bellezza.
Nel salotto di un appartamento quasi totalmente immerso nel buio in cui non ero mai stato prima di oggi sono le 22.17.
Basta cazzate, devo tenere salda l’attenzione su quel che sto per fare.

NdM: quello appena pubblicato è uno scritto che risale a diversi anni fa. Come altri suoi simili se ne stava sul mio PC in attesa di Dio solo sa quale destino, parte di chissà quale progetto nato e morto senza mai uscire un solo istante dalla mia testa. Oggi mi è ripassato per le mani e, a differenza di tutte le altre innumerevoli volte, ho deciso di pubblicarlo. Il nome del file era “pilota”, come si trattasse del primo episodio di chissà cosa.

Occhi aperti

E’ Venerdì, sono le 18.30 e sta piovendo. Non è un diluvio, è quella tipica pioggia primaverile che inserita nel contesto di Milano in un giorno di sciopero dei mezzi pubblici riesce a cristallizzare le strade e le vetture che loro malgrado le stanno percorrendo.
Sono abbastanza stanco.
Me ne accorgo perchè guido senza pensare a ciò che sto facendo, con le palpebre pesanti e la testa leggera, assente. Nello stereo gira un best autoprodotto dei Lagwagon. La scelta del CD è probabilmente dovuta al rammarico ancora vivo per averli persi live, o magari al fatto che nel traffico, sotto la pioggia e con la stanchezza fisica e mentale che ho in corpo oggi, l’unica cosa che chiedo alle casse è di sputare un po’ di sane e canterecce melodie che allontanino il nervoso e tengano gli occhi aperti.
I dieci chilometri circa che mi separano da casa stanno via via consumandosi ed in men che non si dica mi ritrovo a Cologno sud. Fermo allo stop, mi appresto a fare la rotonda che conduce all’ingresso della Tangenziale Est.
Non arriva nessuno.
Parto.
Mi tengo sulla destra per non dover tagliare la strada a nessuno al momento della deviazione a destra, metto la freccia e mi incolonno dietro un BMW. C’è un gran traffico, la coda per la tangenziale parte già dalla rotatoria e così la mia Yaris è costretta a stazionare in mezzo alla carreggiata, lasciando uno spiraglio sulla sinistra per chi, non dovendo uscire, è intenzionato a percorrere il resto della rotonda.
Alle mie spalle arriva una Civic grigia.
Me ne accorgo non so bene perchè, vista la mia scarsa presenza mentale in quel momento, tuttavia focalizzo con una lucidità insospettabile il tipo di macchina e la faccia del ragazzo che la guida, osservandoli dallo specchietto retrovisore.
Sono in tre a bordo e l’auto arriva ad una velocità piuttosto elevata, agevolata dal percorrere la direzione meno trafficata dello svincolo. Punta la mia sinistra, intenzionata a superarmi e continuare lungo la rotonda.
Penso: “Ci passa appena, perchè cazzo non rallenta?”.
Un flash.
La Civic colpisce in pieno la mia macchina.
La botta è forte, tuttavia il contraccolpo che subisco io all’interno dell”abitacolo è minimo.
Decido di scendere. Non sono una persona particolarmente irascibile, non sono nemmeno troppo alterato per quello che hanno appena fatto alla mia piccina. Dispiaciuto forse, ma calmo. La cosa mi sembra persino strana, in fin dei conti il danno è decisamente consistente, ciò nonostante la mia attenzione è al tipo del Civic. Voglio parlargli. Anche lui dev’essere mosso dallo stesso desiderio, perchè apre la portiera. Mentre scende inizio a parlare: “Cazzo, ma come pensavi di passarci?”.
Lo guardo.
Sorride.
Ha una pistola.
Non dice nemmeno una parola prima di sparare.
Nessun avvertimento, nessuna richiesta, nessuna minaccia.
Solo tre colpi.
So che sono tre perchè sento il rimbombo degli spari, in rapida successione, ma non capisco bene quanti di questi mi abbiano colpito perchè non sento dolore. L’istinto mi porta a guardare a terra, la vista mi si annebbia, ma la mente è lucidissima. Senza accorgermi ho portato la mano sinistra sulla pancia e vedo il sangue colare tra le dita. Ancora niente dolore, ma la paura che inizia a salire è straziante. D’istinto, senza realmente capire cosa volessi fare, cerco di muovere il braccio destro. Solo in questo momento avverto la prima lancinante fitta di dolore. Uno dei proiettili deve avermi colpito alla spalla. Non ne sono sicuro e credo non importi nemmeno molto, visto che le ginocchia cedono e mi ritrovo accasciato al suolo.
Nonostante un dolore mai provato prima d’ora, riesco a sentire le gocce della pioggia sul viso.
Chiudo gli occhi.
Sento la paura lasciare la mia mente, esattamente come il sangue sta lasciando il mio corpo.
Sono calmo.
Sto morendo.
Non so bene fino a che punto riesco ad essere cosciente della cosa, mi sembra tutto così strano. La prima cosa che penso è che il destino è bizzarro. “Perchè una persona dovrebbe nascere con un disturbo cardiaco, essere salvata dai medici a sette anni e morire a ventisei ucciso da un perfetto sconosciuto?”. Per un secondo penso addirittura che forse sarebbe stata la stessa cosa morire direttamente a sette anni, ma è solo un attimo. Tirando due rapide somme infatti ogni minuto vissuto da allora è valso la pena di viverlo, quindi fanculo al destino, fanculo al tipo del Civic e fanculo ai ragionamenti del cazzo che si fanno in punto di morte. Avrei volentieri continuato a stare al mondo, altro che palle.
Buffo, perchè questa è esattamente l’ultima cosa che penso prima di morire.
Un’altro flash.
Sono sul passo carrabile di fronte al cancello che porta al mio box, seduto in macchina.
I Lagwagon non hanno mai smesso di suonare, ma io non me ne sono accorto, esattamente come non mi sono accorto di aver guidato fino a casa.
Quella appena descritta è una delle tante astrazioni che la mia mente crea, giorno dopo giorno.
Di continuo.
Forse è per questo che difficilmente sogno durante la notte, perchè lo faccio incessantemente durante la giornata.
Ad occhi aperti.

Il vicino

Ieri sera sono stato alla festa di compleanno di Elena, la dottoranda che mi segue durante la tesi.
E’ stata veramente una serata piacevole.
Il tutto è iniziato scoprendo che Paola, la ragazza che divide il bancone con me, è la figlia del capo di Aui. Ovviamente ho già fatto presente al povero Destru le mie intenzioni di utilizzare questa informazione a mio vantaggio lasciandomi andare ai più biechi ricatti.
Non sembrava dare importanza alla cosa.
Cambierà idea.
Tornando alla festa, la mia macchina ha portato in loco me, Andrea e Paola per le 21.20. Elena abita in via Tibaldi al 27. Abbiamo parcheggiato all’ex C-Side. Una volta in casa, chiunque io abbia interrogato su dove avesse lasciato la macchina, mi rispondeva sistematicamente: “Qui sotto.” Non è stato bello apprendere di essere l’unico idiota che, dopo quaranta minuti alla ricerca di un posto, aveva dovuto parcheggiare oltr’Alpe.
Alla festa, oltre a quasi tutti i ragazzi che lavorano da noi, erano presenti anche soggetti di notevole caratura che hanno fortemente contribuito al mio personale divertimento.
Su tutti, l’eroe indiscusso si è rivelato essere il vicino di casa di Elena: atteggiamento da vero appartenente alla Milano bene, parlata milanese con spiccato accento bergamasco e attitudine a reale guest star della serata.
In due parole: un cretino.
Di quelli che però non si può non ammirare. Tempo di fare le presentazioni e ha aperto a trenta perfetti sconosciuti le porte di casa sua. La gente entrava e usciva come fosse lì residente, c’era chi fumava in salotto e chi apriva il frigo per cercare da bere.
Lui, al centro del movimento, si sentiva evidentemente al suo posto.
Due parole vorrei spenderle sulla dimora di questo tizio: casa enorme, ascensore privato che gli arriva in anticamera, mobili settecenteschi e porta della camera da letto a scomparsa all’interno di una enorme libreria in mogano che conteneva, tra i vari volumi, una Treccani da almeno dodicimila euro. Questo è quanto gli ha lasciato il padrone di casa affittandogli l’appartamento. Ora elencherò i tocchi di stile apportati da lui: cartello stradale di obbligo di svolta a destra all’ingresso che punta la cucina, poster di Carletto Mazzone con la scritta “io a Bergamo non posso entrare”, faccia di berlusconi incollata su un dipinto apparentemente antichissimo raffigurante una donna di fine ottocento, modella poco vestita incorniciata e appesa affianco al previa citato dipinto e neon blu in bagno.
Vedendo la casa siamo rimasti tutti piuttosto sconvolti.
La festa come detto è sicuramente ben riuscita, abbiamo apprezzato tutti.
Sono andato a letto alle 2:00.
Stamattina, al journal club delle nove, le nostre facce alla frase del capo: “Oggi ho un po’ sonno” sarebbero state da fotografare.
Chiudo con un paio di informazioni di servizio.
La prima riguarda il secondo vincitore del Template Contest: Max. Mi ha dato un grosso aiuto per la creazione del pop-up che ammorba chiunque da ieri apra questa home page. Ora aspetto che ritiri il suo meritato premio.
La seconda riguarda la scadenza del primo mese dall’iscrizione a ShinyStat. Il monitoraggio alle visite ricevute dalla mia creazione continua e quindi ho deciso di pubblicare le dieci migliori chiavi di ricerca che, in questo mese, hanno portato degli sventurati in questi lidi.
Secondo me sono buffe.

1- alcuni modi per rompere il setto nasale
2- borchie per anfibi
3- mastella
4- frasi geniali
5- “bello quando piove”
6- herpes zoster infettivo isolamento
7- gli hobby di pippo inzaghi
8- bela madunina accordi
9- schemi finestrino golf
10- tasselli fisher