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Riflessioni

I dischi del 2020

Il 2020 é stato un anno orrendo, non lo ribadiremo mai abbastanza, musicalmente poteva forse redimersi?
Magari sì eh, solo non per chi scrive.
Un fatto insindacabile è che quest’anno ho avuto zero tempo per sentirla, la musica. Forse lo scrivevo qui sopra tempo fa, forse no (non ho cazzi di controllare), ma non sono il tipo che mette su la musica quando c’è altra gente intorno. Crescere ascoltando roba che non piace mai a nessuno che frequenti ha scolpito in me un certo pudore e ho sempre l’impressione, che poi impressione non è, di rompere i coglioni.
Anche in casa se devo mettere un disco deve essere roba che piace ai bambini o che piace a mia moglie, il che chiude il cerchio ad una decina di dischi e un paio di playlist censurabili.
La musica io me la ascolto in cuffia la notte o in macchina da solo e ‘sto lockdown ha eliminato la seconda e ben più sfruttata circostanza, creandomi un bel collo di bottiglia.
Sarebbe facile quindi dire: “Annata di merda perché non ho ascoltato dischi”, ma di fatto ho comunque ascoltato abbastanza roba per fare una Top 10, solo che non sono riuscito a tirarci fuori più di cinque lavori che mi sembri sensato citare. Tipo: il nuovo dei Touché Amoré è un brutto disco? No, a tratti addirittura “Cazzo, no!“, eppure mentirei se dicessi che lo reputo un disco rilevante. Biffy Clyro? Sentito una volta, mai provato l’esigenza di rimetterlo su una seconda. Magari lo faccio adesso, ma di metterlo in classifica non se ne parla, direi.
Cazzo tengo fuori pure l’ultimo Envy, che voglio dire è comunque una roba con molte cosine al posto giusto, eppure non credo possa mai capitarmi di dire a qualcuno “Dovresti ascoltarti ‘sto disco” e questa mi pare davvero una conditio sine qua non per accedere alla classifica dei migliori dischi dell’anno.
La verità è che 2/3 piuttosto che far partire uno di questi dischi mettevo qualcosa di vecchio. Non vecchio nel senso di qualcosa che sta tra i miei ascolti routinari, categoria con cui è sempre ingiusto fare paragoni, ma semplicemente qualcosa a cui mi approcciavo per la prima volta nonostante fosse uscita tempo prima.
Ci sono poi tutti quei dischi di cui si chiacchiera tantissimo e che si leggono ovunque in classifiche di questo tipo, ma che io lascio volentieri ascoltare ad altri, non per alternativismo, ma proprio perché non sono la mia cosa. Tre nomi per tutti: Idles, Fountains DC e Phoebe Bridgers.
Quindi?
Quindi i cinque dischi che per me vale la pena segnalare di questo dannatissimo 2020 sono questi:

L’ordine è casuale, son tutti belli per motivi diversi e nessuno è davvero in grado di staccarsi dagli altri, in positivo o in negativo.
Dargen ha fatto un disco molto disomogeneo, con episodi che mi irritano come mai prima (Jacopo, per dire) e picchi che stanno probabilmente ai vertici della sua produzione. I secondi sono più dei primi, quindi posto in classifica meritato.
Gli Elephant Brain li ho approcciati perché conosco uno dei ragazzi che ci suona, ma è forse il disco a cui ho dato più ascolti nel 2020. Ne ho già scritto, non ripeto.
Nella mia vita credo di aver ascoltato fino alla fine un numero di dischi di Hip Hop USA che si conta sulle dita della mano di una tartaruga ninja, uno di questi è RTJ4, che è riuscito addirittura a diventare un ascolto ricorrente e qualcosa vorrà pur dire. Un disco clamoroso uscito mentre da quelle parti, letteralmente, si sparava per strada e questo vuol sicuramente dire qualcosa.
Melee dei Dogleg è il disco con le chitarre di questo 2020 (demmerda), quello che più di tutti avrei voluto veder suonare live. Non è un disco con chissà cosa dentro, a parte i pezzi, ma sono ancora uno di quelli per cui i pezzi contano e quindi eccolo lì.
L’ultimo è il disco di Speranza, che ho ascoltato unicamente perché leggevo solo cose bellissime in merito e volevo verificare come facessero a sbagliarsi in così tanti. Invece, SPOILER, ero prevenuto io. Rap Italiano + Caserta me la immaginavo combo ideale per il classico omaggio a Gomorra che non è mai dato sapere quanto sia fake e quanto in malafede (no, non ho sbagliato a scrivere), invece mi ha ribaltato. In primis perché il ragazzo ha un tiro pazzesco, ma poi perché riesce a raccontare la sua realtà con appartenenza, ma senza venderla per forza come una figata o un mondo a cui tendere. È proprio una roba onesta e cruda, che va controcorrente rispetto alla scena in cui si inserisce e che anche quando spinge pesa sui problemi del proprio contesto lo fa come punto di partenza per sviluppare argomenti, non come punto di arrivo su cui parlarsi addosso. Boh, disco pazzesco senza troppi cazzi questo qui, inutile che mi ci metta io a spiegarlo.

Niente, questo è quanto. Leggendo in giro ci sono un botto di classifiche più complete o prestigiose della mia, fate affidamento su quelle senza pensarci un secondo. Oggi però guardavo ad esempio quella di Kerrang! e pensavo che se non è stato un anno terribile per la musica, deve esserlo stato quantomeno per la redazione di Kerrang.

Come va?

Qui ormai non si dorme più.
Un po’ mi sento stronzo perché ultimamente mi pare di fare quello che si piange addosso nonostante sia evidente che i cazzi veri, fortunatamente, al momento stiano altrove. Magari scriverlo mi aiuta a ficcarmelo in testa. Il solito discorso delle prospettive.
Boh.
Che non si chiuda occhio resta un fatto.
Un mix di ansia, paura, stress e stanchezza mentale, credo.
Ho di fatto perso la percezione del tempo, mi ritrovo ogni due per tre a dover far mente locale per collocare temporalmente questo o quell’avvenimento e spessissimo sbaglio. Il 2019 é simultaneamente ieri e l’anno in cui sono avvenute cose lontanissime, cose che comunemente definiamo come “successe una vita fa”. Che poi, fondamentalmente, è vero.
Imbruttirsi, un giorno alla volta. Lentamente ed inesorabilmente. Il peso del tempo che scorre con la sensazione (manco troppo sbagliata) di non poterlo sfruttare è insopportabile. Non per tutti magari, ma qui si fa una fatica fottuta.
È vero, non siamo manco in lockdown. Ancora. Però la bolla che ci separa da ‘sto merda di virus continua a stringersi e mostrare qualche crepa. Poi magari tiene eh. Speriamo. Magari andrà davvero tutto bene.
Se vivi costantemente impegnato a non pensare a tutti i possibili scenari orribili che la tua testa lista alla voce: “domani”, una situazione in cui l’incertezza del futuro è il principale argomento di qualsiasi discussione non è propriamente la tua cosa.
Mangio un sacco, a volte anche se non ho fame. Al mattino non mi peso più da un po’, perché riesco simultaneamente a dire: “Vaffanculo, cazzo mi frega? Al massimo mi metto a dieta POI. Ora non è aria.”, ma poi non ho neanche i coglioni di affrontare le conseguenze di ‘sta presa di posizione. Non mi peso e il problema non esiste.
Ho il drammatico bisogno di avere almeno un problema a cui posso scegliere di non pensare.
Più probabilmente avrei bisogno di cacciare la testa in un cuscino, piangere, bestemmiare e sfogarmi almeno un po’. Far uscire cose.
Invece mi sforzo tantissimo di provare ad essere quello che ha tutto sotto controllo, quello che se si spacca una tubatura mentre il figlio è in isolamento cautelare e quindi non si può chiamare un idraulico, la prende a ridere.
Ma cosa ridi cosa, cretino?
E infatti eccomi qui a lagnarmi nel mio posticino segreto, che è sí accessibile letteralmente al mondo intero, ma è invisibile alle tre/quattro persone che davvero mi interessa proteggere dalle mie debolezze. Quindi ‘sticazzi.
Questi. Grandissimi. Cazzi.
Son le due di notte. In cuffia ho la solita roba tristona che mi sparo quando parto per ‘sti post deliranti.
Adesso spengo tutto, la abbraccio e provo a dormire.
Ci sto credendo. Vedo la meta.
Era davvero questione di allentare le valvole e svuotare il serbatoio, forse.
Domani si riparte con il lavoro, l’asilo che non c’è e i meme di Game of Thrones.
Intanto però, quello che dal 2005 é un blog che non legge nessuno, incidentalemte, é anche il salvagente che mi tiene a galla quando serve davvero.

Lavorare da casa

No, questo non vuole essere un altro articolo che spiega perchè lavorare da casa non dovrebbe essere definito smart working (anche se credo nel proseguo lo farà comunque), il mio è più un tentativo di rispondere ad una semplice domanda:

Il lavoro da casa è la soluzione a cui dovremmo tendere?

Risposta breve: no.
Se avete voglia, ora vi potete ciucciare la risposta lunga.
Premessa d’obbligo: il ragionamento esula dalla contingenza specifica in cui il COVID esiste e ci costringe ad un certo tipo di riflessioni. Il mio punto di partenza è provare a ragionare sul domani, quando in un sistema pandemia-free si dovrà decidere come ristrutturare la normalità lavorativa e pare che la discussione al momento sia polarizzata su due uniche possibilità: tornare al lavoro esattamente come prima, oppure rendere definitivo il passaggio al lavoro da casa per tutti coloro che possono farlo.
Come scenario mi pare povero di fantasia, sinceramente, ma se non credo servano articoli di approfondimento per sancire come un ritorno al lavoro pre-COVID sia un’idiozia sotto tantissimi punti di vista, è meno facile far passare il concetto che anche cristallizzare l’home working come panacea per un domani felice sia un discorso come minimo superficiale, che può andare giusto bene per bestemmiare addosso a Sala su twitter. 
Il primo motivo per cui per me lavorare ognuno nel proprio guscio domestico non è una soluzione sostenibile su larga scala è di tipo sociale. Se c’è qualcosa che ho imparato dal mondo in cui viviamo è che meno contatti ci sono con l’esterno, più diventiamo stronzi. Tutto ciò che non ci tange, letteralmente, diventa nel migliore dei casi trascurabile e nel peggiore fonte di paura, con le facili conseguenze che è inutile stare ad elencare. Ci sarà sempre chi è più empatico e chi meno, chi è più incline a guardare oltre al suo naso e chi meno, ma di base chiudersi nella propria realtà è il modo più semplice per nascondere sotto il tappeto le realtà altrui. E ne facciamo le spese tutti, perchè tolti gli estremi della campana, ognuno di noi ha qualcuno che sta peggio da cui vuole tutelare il proprio privilegio e qualcuno che sta meglio a cui spera di fottere il posto.
Chi più chi meno, ovviamente, ma sui grandi numeri la razza umana funziona così.
Senza rapporti diretti che lo rendano un individuo, il prossimo diventa unicamente un fastidio che limita in qualche modo la nostra esistenza. La frase “non ce l’ho coi gay, ho tanti amici gay” come giustificazione all’omofobia è una minchiata in primis perchè è falsa: se hai tanti amici gay davvero, è impossibile tu ce l’abbia coi gay. Puoi avercela coi gay solo se per te diventano una categoria estranea, astratta ed incomprensibile, di cui l’assenza di riscontri oggettivi rende possibile credere qualsiasi cosa. L’ignoto che fa paura. Questo è anche il motivo per cui l’omofobia nel tempo andrà a sparire, perchè sempre più persone entreranno in contatto diretto con l’omosessualità e capiranno che [SPOILER] non c’è nulla di cui avere paura.
E’ questo il valore di una società, l’interazione che porta integrazione.
In una società dove ormai si può compartimentare la vita privata  (reale ed online) creando vere e proprie bolle, dove grossomodo qualsiasi servizio è domiciliabile e larga parte delle attività non necessità più di coinvolgere il prossimo, il lavoro resta uno dei pochi ambiti in cui non è possibile scegliere con chi ci si dovrà relazionare. Se ci si pensa, questa cosa non è più vera neppure per la scuola, dove l’avvento dell’istruzione privata ha permesso di infilare i figli in contesti “elitari”, che con la scusa di un’istruzione migliore di fatto forniscono a genitori (idioti) la pia illusione di avere i propri eredi al riparo dalle brutture del mondo. Il primo motivo per cui, secondo me, l’istruzione dovrebbe essere forzatamente pubblica, ma sto divagando. Il succo del mio discorso sta nel vecchio detto per cui parenti e colleghi non te li puoi scegliere, con l’aggravante che i parenti puoi decidere di non frequentarli, mentre i colleghi no. Ed è una roba da salvaguardare. 
Oltre a questo aspetto, l’annullamento di confini tangibili tra la vita privata e la vita lavorativa, prima definiti ad esempio dagli spostamenti, rendono molto più sfumati i limiti dell’orario di lavoro e possono comportare difficoltà nell’esercizio del “diritto alla disconnessione”, specie quando sul piatto della bilancia per lo sdoganamento del telelavoro si continua a parlare dell’importanza di lavorare per obbiettivi, in contrapposizione al concetto vecchio stile di “orario lavorativo”. Intendiamoci, l’idea di base per cui chiudere un progetto sia più importane che lavorare 8 ore la condivido anche io, ma spesso si fa finta di non sapere che gli obbiettivi di massima il lavoratore dipendente li subisce, non li definisce e in un contesto in cui lavorare da casa diventa argomento di trattativa, il ritorno che l’altra parte esige per sacrificare la propria smania di controllo è difficile non impatti sulle richieste proprio in termini di obbiettivi. Se il presupposto sarà: “Ok lavorare da casa, ma devi dimostrare di essere efficiente”, per me l’orizzonte diventa un baratro.
Chiudo col discorso produttività, su cui spero sia inutile soffermarsi: chi non ha voglia di lavorare difficilmente lavora, a casa quanto in ufficio. Per tutti gli altri credo il bilancio vada a zero e per ogni persona che riduce un po’ la propria produttività tra le mura domestiche ce n’è probabilmente una che la incrementa. Parlando unicamente della mia esperienza personale, quando lavoravo in ufficio e avevo possibilità di farmi un giorno di lavoro da casa, quel giorno ero iper produttivo. Ora che la routine è lavorare da casa, non credo di essere più efficiente di quando ero in ufficio perchè parte del mio lavoro dipende da altre persone, con cui interagire da remoto è di fatto più complesso, e questo genera alcuni limiti nel circolare delle informazioni. Non dipende da nessuno ed è qualcosa che probabilmente si risolverà nel medio periodo, ma di fatto è uno dei motivi per cui trovo peggiorata la qualità del mio lavoro, da quando sono a casa in pianta stabile.

Quindi dobbiamo tutti tornare in ufficio come prima?

Risposta breve: no.
È ovvio ci siano evidenti limiti al sistema che abbiamo considerato normale nell’era pre-COVID, limiti che non solo tendono a rendere insostenibile quel meccanismo nel prossimo futuro, ma che alla luce di quanto sperimentato in questo 2020 non ha senso rimettere in atto senza trarre il minimo insegnamento. 
Se prima dicevo che i tempi di trasferimento sono un modo per scandire lo stacco tra lavoro e vita privata, il fatto che per molti questi tempi fossero di ore, in situazioni molto poco confortevoli e/o ad impatto ambientale drammatico è qualcosa che non può e non deve passare inosservato ora che abbiamo potuto dimostrare non si tratti di una necessità inderogabile.

Quindi?

Io non ho una soluzione certificabile, ma se devo pensare ad uno scenario che credo possa essere in ogni caso meglio dei due estremi di cui si discute, su cui scommetterei come investimento per il futuro, questo prevede spazi di lavoro condivisi in ogni centro abitato, in proporzione al numero di abitanti.
Luoghi dove si può andare a piedi o in bicicletta, vicino casa, magari sulla strada da e per la scuola dei figli. Luoghi dove si può interagire con altre persone, pranzare e bere il caffè con altre persone, che fanno lavori diversi e hanno stipendi diversi. Luoghi che potrebbero rendere vivi centri abitati che di fatto sono dormitori per lavoratori che poi migrano in città dalle 7 alle 20, congestionandola. Luoghi che potrebbero creare esigenza di attività corollario di ogni tipo: tutto ciò che facciamo in posti comodi perchè “vicini all’ufficio” potremmo farlo in posti comodi vicino a casa. Lavoro che genera altro lavoro.
Magari questa idea ha seimila risvolti negativi che la rendono utopica o più semplicemente stupida, non lo so, fortunatamente il futuro della locazione dei posti di lavoro non dipende da questo blog. Resto tuttavia convinto che una società senza interscambio tra persone sia destinata a gravissimi problemi e, purtroppo, l’interscambio va spinto perchè la tendenza dell’uomo è alla segregazione.
E a me la segregazione fa schifo.

Cobra Kai

Era tanto tempo che non divoravo una serie TV.
Le ultime serie che ho approcciato le ho mollate quasi tutte per strada e se ripenso alle ultime sessioni di binge watching vero l’unica cosa che mi viene in mente è il rewatch di Scrubs*. Non esistono più serie interessanti? Non credo, ma sono diventato tremendamente pigro e soffro un po’ l’effetto buffet di fronte ai cataloghi sconfinati di Netflix e compagnia. Tantissime portate, la curiosità di vederle tutte, ma al contempo il terrore di iniziare una cosa che non mi piace e quindi sprecare tempo prezioso che posso invece dedicare ad attività molto più sensate tipo il refresh compulsivo del mio feed Twitter.
Ne usciremo tutti migliori, dicevano.
Ad ogni modo la scorsa settimana è uscita su Netflix Cobra Kai, la serie che racconta le avventure di Johnny Lawrence dopo Karate Kid e ho deciso di guardarla con Paola. Ne avevo sentito parlare bene già ai tempi in cui uscì su youtube, ma non avevo mai approfondito perchè convinto prima o poi di poterla vedere, solo che a distanza di anni ancora non l’avevo fatto. Un side effect noioso che le piattaforme di streaming legale hanno avuto su di me è la totale mancanza di sbattimento nel voler vedere roba pirata. La pazienza di trovare i link, la qualità che spesso fa schifo, le pubblicità ed i rischi per la sicurezza informatica: tutte menate che i servizi a pagamento ti risparmiano, viziandoti. Per questo ormai o una roba esce in uno dei siti che pago (al momento Amazon Prime Video, Netflix e Disney+) oppure per me non esiste. Sono un anziano e gli anziani, oltre a divagare continuamente mentre scrivono il loro blog, sono pigri.
Tornando sul punto, sto giro se dio vuole per rimanerci, due giorni fa io e la Polly abbiamo approcciato questa nuova serie finendoci dentro con tutte le scarpe e guardando due stagioni in grossomodo un giorno e mezzo. Il motivo è semplice: è una serie stupenda.
Ok, la prima stagione è stupenda, la seconda piuttosto sotto tono, ma ha comunque i suoi momenti ed un buon finale e quindi nel complesso promuovo anche quella.
Quel che fa Cobra Kai è essenzialmente prendere l’idea alla base di una gag pensata dagli sceneggiatori di How I Met Your Mother (ref.) e farci sopra una serie vera e propria in cui si prova a guardare il mondo con gli occhi del cattivo, per scoprire che WHAT A SURPRISE la realtà è un po’ più complessa di quel che poteva apparire e quindi che è sempre utile provare ad analizzare tutti i punti di vista di una storia prima di parlare di buoni e cattivi, visto che la storia la scrivono i vincitori. Lo so, uno legge una cosa del genere e pensa che lo step successivo a Cobra Kai sia “Mussolini ha fatto anche cose buone”, ma non è lì che voglio andare a parare. La cosa interessante nel vedere le cose da più prospettive è che si può trovare conferma dell’impressione iniziale e corroborarla con uno spessore nuovo. E il Johnny Lawrence di Cobra Kai non è tanto diverso da quello del film, non diventa magicamente “un buono”, però è un po’ meno bidimensionale e fa affiorare le ragioni alla base dei suoi comportamenti sbagliati permettendo di empatizzare e quindi aprendo la porta ad una certa autocritica sociale: se empatizzi con gli stronzi e ne comprendi le ragioni, sei un po’ stronzo anche tu. Come è stronzo Daniel LaRusso che però, a differenza dello spettatore, è radicato nella sua convinzione di stare dalla parte del bene per via di tutti quei pistolotti zen di Miyagi, vede il mondo unicamente dalla sua prospettiva e non realizza quanto sia bullo e prevaricatore pure lui, invaso di una autoassoluzione che trova pari solo in Adinolfi e nei Talebani. La serie si gioca tutta lì: non vuole rivalutare nessuno, sposta solo il confine tra buoni e cattivi (anzi, diciamo che praticamente lo toglie) e infila tutti sullo stesso piano, cosa che fanno notare grossomodo tutti i personaggi di contorno, a turno. Perchè non è una serie particolarmente sottile eh, non pensiate ci voglia chissà quale bilancino per misurarne i contenuti. E’ scritta in indelebile a punta grossa, ma è scritta bene.
Il motivo per cui però vale davvero la pena guardare Cobra Kai è che è davvero uno spasso. Durante la prima stagione, soprattutto, io ho riso tantissimo (e pure mia moglie). E poi, finalmente, non è un prodotto hipster che prende l’estetica anni ’80 e la ricicla unicamente per moda e senza alcun tipo di necessità reale (penso a 13 o Stranger Things, per esempio). Qui gli anni ’80 hanno un peso specifico serio e, come Johnny Lawrence, vengono ripescati e presentati nella prospettiva giusta, che spesso li espone ad un giudizio severo, ma altre volte spinge a riflettere su quanta ipocrisia ci sia in chi li vuole denigare a priori. La chiave di lettura infatti è anche quella: il messaggio machista del cinema e della TV anni ’80 è evidentemente uscito sconfitto dal giudizio del tempo, viva dio, ma non per questo oggi lo si deve guardare come ad un male assoluto e degenere capace di produrre solo disadattati e persone prive di capacità relazionali. Anzi, forse la risposta a quel tipo di cultura ha spostato il piano eccessivamente oltre, creando nuove problematiche e fragilità a cui quel tipo di approccio, diciamo alpha, potrebbe fare del bene. Insomma, l’importante è trovare un equilibrio e usare la testa, invece di tapparsi occhi e orecchie gridando “è sbagliato e basta”.
Io almeno l’ho letta così.
Per chiudere, se devo dare un riferimento di cosa sia Cobra Kai, per me la similitudine migliore è “L’ispettore Coliandro del karate”, perchè per quanto le serie siano diverse tra loro, hanno il medesimo scopo e due protagonisti scritti con la carta carbone.
– Buone queste banane fritte.
– Sono platani.
– Ah, qui le chiamiamo BANANE.
Se non è una battuta di Coliandro questa allora non avete mai visto Coliandro. E non è l’unica.

* Sì, ho riguardato Scrubs e mi è piaciuto di nuovo perchè sono una persona orribile che non riesce a cambiare prospettiva sul mondo come dovrebbero fare tutte le persone cool e veramente di sinistra. My bad.

The Sadist Nation

One Nation under the gun
Where forward thinking is shunned
A morbid tradition
Of archaic value systems
Where violence justified
Is just another pride
Under the surface lies
A holy plastic empire
With guarded golden fences
Where misfortune
Shelters decisions
A pain wrought from blood flowing green
The myth of protection
Is a sick fascination
A culture of violence is what you are feeding
Fear is an heirloom
And hate is contagious
A Nation of sadists is what you are breeding
It’s everywhere
It’s everywhere that you see
But who decides
If you watch or turn the other cheek
And only in your mind
Is it your given right to be armed to the teeth
It’s a common disease
The only immunity is to disarm
This holy plastic empire disease

Burzum

Non so bene perchè, ma ad una certa Burzum è diventato un fenomeno pop, credo in maniera piuttosto analoga a quanto è successo al logo dei Black Flag, anche se nel caso di Burzum non mi risultano ruoli attivi da parte di Fergie.
Burzum, che di nome fa Varg Vikernes, è stato uno dei musicisti cardine del movimento black metal scandinavo, oltre ad uno con come minimo qualche problema di testa e di sicuro qualche problema con la giustizia. Non mi ha mai interessato più di tanto approfondire il personaggio, la sua storia, e tracciare limiti più definiti tra le cose che ha fatto, quelle che si dice abbia fatto e quelle che lui sostiene di aver fatto. Potrebbero tranquillamente essere tre insiemi privi di intersezioni, per quanto ne so. In fin dei conti parliamo di uno che fa musica che ho speso larga parte della mia vita a disprezzare ed osteggiare.
Perchè ne parlo, allora?
Facile, perchè oggi il tizio se n’è uscito con questo tweet:

In pratica Burzum se ne sta a fare quello che immagino faccia di solito, ovvero dissertare di supremazia, elitarismo e cultura della razza, solo che si trova al cospetto di tanti, a suo giudizio troppi, nazisti della domenica che non hanno capito nulla della questione. Capitelo: parliamo di un misantropo sociopatico che sta bene a suo agio unicamente nei boschi che si trova costantemente assediato da situazionisti impuri che pensano di essere dalla sua parte quando è evidente non solo che non ci dovrebbero stare, ma che lui non ce li vuole.
E’ normale inizi a mettere i puntini sulle svastiche.
Prima facendo notare come l’italiano tipo, che Burzum ha identificato in Aranzulla probabilmente dopo un crosscheck tra numero di follower e info su wikipedia*, non abbia connotati prettamente europei, poi gettando il cuore oltre l’ostacolo e tirando in mezzo addirittura Salvini, trovandolo effettivamente poco credibile nella sua veste sovranista.
I risvolti poetici di tutta questa faccenda mi sembrano evidenti, ma si può ridere ancora di più andando a leggere tutti i vari tweet collegati alla vicenda, tra cui il mio preferito in assoluto è probabilmente questo:

So che non sarebbe il caso di ridere di gente del genere, ma io resto convinto che quello di Burzum sia un grandissimo messaggio: “smettetela di fare i suprematisti, inferiori di merda.”
Per qualcuno questa roba non dovrebbe stare su twitter e forse ha anche ragione, però da persona adulta a me fa sempre piacere quando i nazisti lo sono apertamente e dichiaratamente, tipo sti due idioti. Mi fanno molta più paura (e trovo molto più pericolosi) quelli che non lo danno a vedere.
Un saggio diceva che non dovremmo permettere ai nazisti di togliersi l’uniforme e fingere di non esserlo.
Onestamente non mi sento di dargli torto.

* gag.

Punk Rawk Show

Io avevo un blog, vero?
Mi pare di ricordare di sì, un posto dove scrivevo robe poco interessanti sulla mia vita e su quel che mi dice la testa. E musica, scrivevo anche di musica che mi piace.
Per esempio: questa mattina mi è finito in home su youtube un live del 2015 degli MxPx e me lo sono visto tutto.

Non so se è per tutti così, ma a me sembrano passati mille anni dall’inizio di sto delirio globale legato al COVID e fatico a ricordare i dettagli della mia vita precedente. Com’era andare fisicamente al lavoro tutti i giorni? Com’era avere i weekend pieni di incombenze e cose da fare? Davvero a pensarci mi sembra tutto avvolto dalla nebbia.
Però c’è una cosa che mi ricordo bene ed è quanto fosse figo andare a vedere la gente che suona, cantare sotto al palco stando tutti vicini vicini e passare un’oretta con la testa in un posto diverso da quella realtà che ora non ricordo nei dettagli, ma sono sicuro fosse anche composta di un numero eccessivo di rotture di coglioni.
E niente, quella roba lì mi manca un sacco e vorrei riprendesse domani. Tipo quando attaccano pezzi come quello che c’è a 30:40 e ti viene l’istinto di correre avanti anche se sei seduto alla scrivania. Nel senso, a me viene, anche se poi quando mi ci ritrovo in mezzo non lo faccio più da almeno dieci anni.
Credo di averlo sicuramente già detto molte volte, probabilmente anche qui sopra, ma tra la roba che ascolto c’è n’è per tutti i mood: per quando sei preso bene, per quando sei preso male, per quando hai voglia di sfogarti e per quando vuoi deprimerti di proposito. Se dovessi scegliere un concerto con cui ripartire però, vorrei che fosse di gente che vuole viversela come fosse una festa, perchè in fondo è quello di cui abbiamo bisogno. Non solo per tutto quel che abbiamo vissuto e stiamo vivendo in relazione al COVID, ma anche perchè se è sbagliato fingere che i problemi che non esistano fino a che stiamo bene noi, lo è anche non distogliere mai lo sguardo e staccare la spina.
Questa mattina stavo riflettendo su quanto dica della nostra Società il fatto che le peggio nefandezze si annidino in posti che dovrebbero essere riservati alle persone migliori che la compongono e che invece sono diventati rifugio per le peggiori monnezze umane. Perchè che ci siano persone orribili è un problema irrisolvibile, ma forse una Società non andrebbe valutata in misura di quello, ma di quanto provi almeno a limitarne l’accesso ai ruoli chiave che ne dovrebbero garantire la salvaguardia e, perchè no, il modello etico a cui ambire. Cosa in cui abbiamo evidentemente fallito da tempo e che mi è difficile da digerire.
Quindi ogni tanto vedere qualcuno che mi dice:

Today didn’t have to be this way
Tomorrow is another day

non è poi così male.
Aiuta.
Ah, ultima cosa: nel video qui sopra a 22:20 c’è la dimostrazione che quando una canzone è buona ci puoi pure mettere le fottute trombe, resta stupenda.

Marco Crepaldi

Avevo deciso di lasciar passare la questione Marco Crepaldi senza metterci becco perché online “litigo” già abbastanza di mio sul tema della parità di genere, ma poi ho scoperto che lui è uno dei ragazzi di Dunkest e quindi ho deciso di approfondire.
Per iniziare quindi sono andato a vedermi il suo video:

A questo video sono seguiti, come forse ipotizzabile, una catena di eventi: critiche da un lato e campagne di supporto dall’altro che presto, se non subito, sono diventate insulti e benzina nello scenario della guerra tra sessi di cui ancora tantissima gente sente il bisogno.
Ora quindi mi prendo uno spazio per dire la mia.

Non credo sia un segreto la mia visione non sia tanto distante da quella di Marco. Un dilagante senso di avversione generalizzato verso il genere maschile esiste e sui social è abbastanza palpabile. Viene fuori ogni volta che si vira sull’argomento “parità di genere”, ma ormai è facile imbattercisi anche fuori contesto, se ammettiamo ci sia un contesto dove è lecito aspettarselo.
Uno degli ultimi tweet di questo tipo con cui ho interagito personalmente è questo:

Una generalizzazione a cazzo di cane che con bersaglio l’altro sesso (o un’etnia) farebbe quantomeno storcere il naso, ma che in questo caso dovremmo farci andar bene sulla base del fatto che “il sessismo nei confronti degli uomini non esiste“. Quando leggo cose di questo tipo, generalmente, mi incazzo, ma non per il motivo che si potrebbe pensare.
Non mi pesa il giudizio su di me, mi pesa il fatto che provando a mettere in discussione generalizzazioni di questo tipo si finisce per doversi smarcare da accuse di servilismo verso il patriarcato o di maschilismo proattivo, trattati alla stregua di chi vorrebbe la donna unicamente come oggetto sessuale o di cura domestica. Sono più che disposto ad essere attaccato per quel che penso e dico, decisamente meno per le generalizzazioni che da quel che penso e dico possono scaturire in chi ascolta e ancora meno per il semplice fatto di essere nato maschio. La vivo talmente male che quando sono in argomento ormai mi sento costretto ogni volta a mille precisazioni e distinguo, volti unicamente a tenere il punto circoscritto all’opinione specifica e non allo spettro di possibili deduzioni sbagliate che dall’opinione potrebbero scaturire. Il risultato è che chi mi legge pensa che mi stia giustificando, che stia mettendo le mani avanti stile “non sono maschilista, MA…”.
Ecco, il primo concetto che vorrei passasse da questo post è che forse quel che c’è prima del MA non conta, ma certamente conta quel che c’è dopo quindi sarebbe meglio prestare attenzione e valutare se davvero elimini il NON o semplicemente provi a spostare il discorso su un livello meno banale o assoluto.

L’integralismo a cui faccio riferimento poi ha l’aggravante di andare a singhiozzo, almeno sui social. Non posso avere un’opinione sulla questione delle donne che combattono il patriarcato non depilandosi* perché “sono uomo e non posso capire”, ma non mi è mai ancora successo di intervenire in una discussione sulla parità di genere sostenendo le parti “femministe” e venire trattato nello stesso modo. La mia opinione non è rilevante solo quando è disallineata.
Qui arriva il secondo punto che mi preme mettere in questo post. A me le persone che pensano si debba essere parte di una minoranza afflitta per comprenderne le ragioni spaventano. Dimostrano non solo assenza di empatia, ma anche un tremendo egoismo. Io sono piuttosto felice di espormi in favore di qualcuno che ha problemi che io non ho e non credo che non avere un problema equivalga a non poterlo comprendere. Certo da fuori posso necessitare di una guida o di spunti che potrei effettivamente non considerare dal mio punto di partenza, ma in quel caso vorrei me li si spiegasse invece di dirmi che non ho voce in capitolo.
L’impressione che ho, nella mia bolla social, è che le posizioni si stiano radicalizzando. Forse è una risposta al dilagare delle destre o del fronte populista, probabilmente anche io sono più netto di qualche anno fa nel rimarcare cosa sta dalla parte del giusto e cosa no, ma mi pare che la conseguenza principale di questo fenomeno sia che una mega guerra fratricida in cui spendiamo più tempo a fare la punta al cazzo di chi non è abbastanza dalla nostra parte rispetto a quello che investiamo nel fronteggiare chi sta dall’altra. Ci chiudiamo in un recinto in cui tutto ciò che non è perfettamente sovrapponibile a noi sta fuori e va osteggiato nello stesso modo e con la stessa forza. E’ una roba che non capisco e non mi piace, forse perchè la cosa del “Molti nemici, molto onore” mi ha sempre fatto cagare.

Arriviamo adesso a quello che forse mi separa da Marco. Ha senso farsi promotori di una campagna come quella che ha provato a portare avanti lui, nell’ambiente in cui ha provato a portarla avanti lui? Non lo so.
Come detto, io per primo non perdo occasione di infilarmi in quelle discussioni ogni volta che posso e provare a veicolare il messaggio, ma continuo a pensare che le proporzioni del fenomeno non siano tali da renderlo pericoloso quanto lui suggerisce. Per me si tratta più che altro di dare la sveglia a chi passa il limite, lui ne fa argomento di studio e da quel che dice siamo già andati oltre i “pochi casi isolati” e siamo saltati a piedi pari nel “Fenomeno in espansione”. Non ho strumenti per contraddirlo, però anche fosse: è davvero lecito parlare del problema oggi, in Italia? Ovviamente è sempre lecito parlarne, diciamo allora “legittimo”. Diciamo che se non posso comprendere o tollerare gli insulti che gli hanno rivolto, posso comprendere il ragionamento alla base per cui lamentarsi della misandria possa risultare “irrispettoso” in un ambiente in cui la misoginia è un problema decisamente più presente, radicato ed allarmante.
Lui dice chiaramente: “Non stiamo facendo una gara al problema più grave” ed ha ragione, però credo sia anche questione di sensibilità.
Io credo che chi in Italia è in cassa integrazione da Marzo e fatica ad arrivare a fine mese abbia un problema reale e concreto, ma forse non troverei corretto da parte sua lamentarsene al centro di un villaggio africano in cui le persone mangiano due volte a settimana. Non lo so, magari la differenza tra quel che fa lui e quel che faccio io è solo nella mia testa, può essere, ma io ancora la vedo.

Concludendo, a conti fatti questo fenomeno non è altro che una manifestazione tra le tante di quella che in sociologia è nota come Legge Juvenuts:

Una larga maggioranza dei tifosi non juventini non auspica un calcio più equo, vorrebbe solo che la sua squadra, un giorno, diventasse la Juve.


* Ovviamente ho un’opinione in merito alle donne che combattono il patriarcato non depilandosi e sono ben felice di illustrarla: facciano come vogliono, ovviamente.
Tuttavia non serve un genio per comprendere che il patriarcato può aver anche influenzato i canoni di bellezza estetica alle donne verso standard tossici, MA:
1) depilarsi non credo rientri in questi standard essendo di fatto accessibile a TUTTE senza limitazioni fisiche, metaboliche, ecc.
2) tutti quotidianamente siamo sottoposti a pressione sociale per le nostre apparenze, non solo le donne. La libertà di una donna di andare in giro coi peli sotto le ascelle è la stessa che ho io di farmi i capelli fucsia come a diciannove anni. Nessuno ce lo vieta, ma se abbiamo più di diciannove anni capiamo che per quanto formalmente insindacabile sia il nostro diritto, la società non ci permette di esercitarlo e farne una battaglia forse rientra nel focalizzarsi sulle stronzate che non sono propriamente il first world problem, col rischio concreto di far perdere di significato tutta la battaglia agli occhi di chi già era scettico di suo. Tipo: se il problema della parità di genere sono i peli delle ascelle, la parità di genere non è un problema. Lo so, è un ragionamento limitato, ma stiamo parlando di chi ha problemi nel vedere le disuguaglianze di genere, ci aspettiamo qualcosa di meglio? Forse prima sarebbe il caso di prioritizzare (altro concetto che sopra i diciannove anni dovremmo tutti essere in grado di comprendere) e portare la percezione di disuguaglianza alla popolazione nel suo complesso, usando esempi ben più significativi.
3) Il problema alla fine si riduce comunque al fatto che noi uomini, in realtà, di pressione sociale non ne facciamo manco un po’ verso i canoni estetici, perchè alla fine nessuno rinuncerà mai a una sco*ata per quattro peli (per quanto disgustosi) e questo è l’unico motivo reale per cui la situazione è ancora in discussione e non è morta immediatamente. Checchè leggiate in giro “Non ho bisogno di piacere agli uomini, mi tengo i peli” la realtà è che se coi peli avessero la certezza di non piacere più a nessuno, starebbero in coda dall’estetista per la definitiva.
Col punto 3 forse vi sto trollando.

La mossa Kansas City

Quasi quindici anni fa è uscito un film che si intitola “Slevin”. E’ un gran film, secondo me, con due pregi su tutti:
1) La miglior Lucy Liu di sempre. Non in termini interpretativi, semplicemente figa come mai prima e mai dopo nella sua vita.
2) La definizione di Kansas City Shuffle, ovvero della “mossa Kansas City”.
Su youtube c’è lo spezzone del film in cui il sempre maestoso Bruce Willis spiega cosa sia la mossa Kansas City, ma è uno SPOILER bello grosso quindi se non avete visto “Slevin” non schiacciate play, che tanto ve la spiego io più in basso.
Ovviamente (altro SPOILER) non sarà la stessa cosa.

La mossa Kansas City è quando qualcuno ti porta a guardare a destra per distrarti da quel che sta facendo a sinistra e, come dice Bruce ad inizio film, colpisce chi non vuol sentire.

In questo periodo di COVID19, zone rosse e distanziamento sociale, la mossa Kansas City è quella che stanno portando avanti in massa tutti i più rilevanti esponenti dell’informazione del nostro Paese che, prima coi runner e oggi con la movida, catalizzano l’opinione pubblica verso facili capri espiatori su cui far convergere il risentimento ed il fastidio della popolazione, che è fermamente convinta si ammalerà per via dei ragazzi che fanno l’aperitivo e non per l’aver dovuto continuare a prendere i mezzi affollati per recarsi in un posto di lavoro dove DPI e misure di distanziamento sono stati introdotti, se sono stati introdotti, con almeno due mesi di ritardo e senza verifiche.
Perchè ricordiamolo, abbiamo i droni per inseguire le persone in spiaggia, ma guai a chiedere la verifica della sicurezza sui posti di lavoro. Non ci sono certamente le risorse per farlo.
Da quando questa situazione è iniziata ho discusso varie volte e con varie persone di come il lavoro non sia, a mio modesto avviso, incompatibile con il blocco dei contagi. Alla fine il COVID19 è un virus abbastanza facile da limitare: mascherine, distanze, igiene personale e le possibilità di contrarlo crollano di moltissimo. Con un minimo di raziocinio iniziale si sarebbe potuto evitare di spaventare le persone oltre il necessario, invece la caccia alla notizia, al paziente zero e alla conta dei morti ha creato il panico incontenibile nella popolazione che, giustamente, ha iniziato ad avere paura di uscire di casa.
Questa cosa però mal si abbina alla necessità (purtroppo innegabile) di continuare a produrre e, di conseguenza, di lavorare. E così si è cercato di correre ai ripari. Come? Ovviamente NON costruendo un dibattito sulla possibilità di lavorare in sicurezza (lo so, l’ho già detto).
Il primo tentativo è stato quello di fare retromarcia.
La stampa ha provato a dire che non ci fosse nulla da temere, che non fosse il caso di panicare. Tipo così. Vi faccio notare l’incipit di questo articolo: “Superata la prima crisi di panico che ha portato molti cittadini ad assaltare i supermercati nelle giornate di domenica 23, lunedì 24 e martedì 25, l’Italia sembra aver ritrovato la propria calma.“. Ovviamente i responsabili della paura fuori controllo sono i cittadini, che da soli di punto in bianco hanno deciso che fosse il caso di assaltare gli ipermercati. Ci siamo arrivati tutti insieme, simultaneamente, ma senza nessun tipo di influenza esterna. E’ che abbiamo una mente alveare.
Purtroppo però per fare retromarcia era tardi: si andava verso il momento più drammatico dell’epidemia italiana e la politica stava già visibilmente brancolando nel buio cercando di rifilare colpi a cerchio e botte tra lockdown sempre più restrittivi per i cittadini e salvaguardie sempre meno chiare per le attività produttive. Erano i giorni in cui il dibattito online sembrava tutto incentrato sul definire cosa fosse essenziale e cosa no, senza nessuno che parlasse di norme di sicurezza (lo so, sono un disco rotto).
Con Confindustria in costante pressing per la riapertura, iniziato praticamente da prima di chiudere, era necessario creare una nuova narrazione ed è qui che la stampa nostrana ha iniziato a lavorare sulla mossa Kansas City.
Prima i runner, poi i Navigli ed ora la più generica “movida“.
Più in generale, un assalto frontale ai giovani che, come sempre, sono causa di qualsiasi problema (NdM: lo scrive uno che giovane non è), ma che soprattutto adesso sono evidentemente una popolazione diversa da chi acquista, clicca ed eventualmente finanzia i giornali di cui sopra. Casualmente.
Non è che ci si sia inventati niente di nuovo, in periodi di crisi è abbastanza standard veicolare il disagio delle persone verso un bersaglio e non fa differenza se siano gli ebrei, i meridionali, gli immigrati o gli aperitivers: funziona sempre nello stesso modo. E infatti, anche in questo caso, siamo arrivati alle ronde su base volontaria. Con la Serie A ferma, d’altra parte, qualcuno sentiva la mancanza delle squadre.

E il lavoro? Non si parla di eventuali rischi legati alla ripresa grossomodo totale del lavoro?
Certo, qui un esempio tratto dal Corriere della Sera:

Il lavoro non c’entra nulla con i contagi perchè prendendo dati arbitrari ed interpretandoli a cazzo di cane diventa evidente che sia più pericoloso starsene in casa che non andare al lavoro.
Dove, ribadiamolo, tutte le aziende hanno messo in atto al millimetro ogni possibile azione preventiva e di sicurezza, ne siamo talmente certi che non è neanche necessario verificare. L’assunto tanto è che chi fa impresa è gente coscienziosa, mica come chi fa l’aperitivo.
Ed è giusto ribadirla questa cosa, a costo di assumere delle persone e pagarle perchè infrangano di proposito ogni regola esponendosi ad eventuali contagi in modo da girarci uno spot volto a sensibilizzare. Dove sensibilizzare è più che altro stigmatizzare.
Così mentre le persone deputate alla nostra sicurezza e salvaguardia se ne vanno in TV a delirare sul concetto di R0 ed Rt, riaprono le celebrazioni religiose tanto care alla porzione di popolazione più a rischio (cosa potrà mai andare storto?) e continui a non esserci mezzo piano per la collocazione dei bambini nemmeno ora che papà e mamme sono costretti a tornare al lavoro, noi possiamo tranquillamente guardare altrove e focalizzare i nostri travasi di bile verso chi si beve uno spritz.
Notate: quella di Gallera è una gaffe, una strana teoria, mentre per chi va a bersi una birra serve la tolleranza zero.
Che peso vuoi che abbiano le parole nel giornalismo?

Se ho fatto questa lunga, lunghissima sfilza di esempi è solo per dire che non abboccare a questa mossa Kansas City è possibile.
Dire: “Eh, ma se apri i bar e i ristoranti e non pensi che poi la gente ci vada sei scemo…” è sbagliato perchè implicitamente alleggerisce le responsabilità di chi ha preso questa decisione, che poverino non ci ha pensato, e le carica sulle spalle di chi l’ha messa in atto, secondo l’assurdo principio per cui “se riaprono i bar non vuol dire che ci si debba andare per forza”.
Non sono stupidi, tanto meno ingenui.
Stanno solo costruendo un alibi.
Ed è un alibi di ferro perchè, senza tracciabilità dei contagi, nessuno avrà mai la prova non sia stata colpa dei maledetti runner.

Contromano in tangenziale

ATTENZIONE: questo è uno di quei post in cui mi parlo addosso con lo scopo ultimo di cavar fuori una direzione al mio complicato modo di essere. Lo scrivo per lettori che non esistono, ma che ipotizzo eviterebbero volentieri di finire a leggere una cosa così senza preavviso.

La barzelletta di quello che guida contromano in tangenziale la conosciamo tutti:
+ La radio: “Avvistato un pazzo contromano in tangenziale…”
+ Uomo al volante: “Uno? A me sembrano tantissimi!”
Fa ridere.
Però io ci vivo dentro.

Il mio problema è che non sono matto a sufficienza da pensare di essere l’unico nel giusto, sempre e comunque, ma contemporaneamente non riesco a capire come faccia la maggioranza delle persone con cui interagisco a non vedere il mondo come lo vedo io. La testa, programmata per ragionare con logica, mi porta a pensare sia io quello sbagliato, eppure la stessa logica spesso non mi permette di trovare l’errore. E questo porta al crash del sistema.
Una canzone che mi piace dice:

Mio nonno
Per quasi settant’anni
È stato in minoranza
E sta benissimo!

È una bella frase e Dio solo sa quanto mi piacerebbe fosse applicabile alla mia vita. Purtroppo non è così: io la vivo male.
L’ultimo ambito in cui mi sto scontrando con le persone che frequento, da amici, a colleghi, a persone con cui in qualche modo interagisco online è la situazione relativa all’infezione da coronavirus che stiamo vivendo, ma è davvero solo un altro esempio di una routine in cui mi trovo a sedermi dal lato opposto della maggioranza dei miei conoscenti e investo ore nel tentativo di discuterne.
Vista da fuori è facile: è il profilo tipico di quello che gode nell’andare contro tutti, ma la realtà dei fatti (per lo meno a livello conscio) è esattamente all’opposto. Allora perché faccio così? Non lo so.
Di solito inizio a ragionare su un argomento a partire dagli elementi che ho in mano, costruendomi un’opinione che poi uso per dibattere col prossimo. Questo mi serve per approfondire, dare spessore al mio punto di vista ed irrobustirlo, oppure cambiarlo. Non so se sia cosí per tutti, ma per me funziona.
Ci sono volte (rare, imho) in cui però sono sufficientemente convinto di quanto sostengo da volerlo spiegare a tutti. Boh, forse è un retaggio evangelico della mia educazione cattolica, cazzo ne so. Il punto è che mi ci sbatto e quando fallisco di norma mi deprimo.
Il motivo ho provato a spiegarlo fuori contesto giorni fa su twitter:

Il problema infatti è che non mi metto mai a discutere con chi so a priori non possa farcela a seguire il discorso (a mio insindacabile e del tutto soggettivo giudizio), io punto solo su cavalli che stimo, gente che penso possa capire e che, se non arriverà a sposare la mia linea, nella mia testa lo farà argomentando in modo dettagliato ed univoco, fornendomi spunti di riflessione magari nuovi a cui non avevo pensato in partenza.
Quanto ci credo? Nel 100% dei casi.
Quanto succede? Non ho fatto un conto, ma la percezione sta intorno al 10-20%.
Eppure insisto.
Ogni cazzo di volta.
E così accumulo delusioni, amarezza e senso di inopportuno.

Sono le 2:49.
Questo post ho iniziato a scriverlo dopo essermi sfogato con quella santa di mia moglie, che alla 1:00 di tutto aveva voglia, tranne che di sentirsi vomitare addosso le mie menate esistenziali, soprattutto se derivanti dall’ennesima discussione su twitter con un estraneo.
Non sono per nulla convinto, razionalmente, di non essere io lo scemo del villaggio.
Eppure non riesco a prendere in considerazione la cosa e continuo a sentirmi come il tizio che corre sicuro di sé, contromano, in tangenziale.