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Ball don’t lie

Un sacco di papà cercano di infondere ai figli la propria fede calcistica, ci tengono proprio, invece a me non è mai interessato.
Giorgio ha due nonni gobbissimi e uno zio interista sfegatato, che su quel versante hanno lavorato molto più di me per sette anni. Ho sempre lasciato correre, un po’ perchè pensavo che non fosse questione di prima importanza, un po’ perchè, a voler essere onesti, in questi anni non pensavo sarebbe stato fargli poi questo gran favore, crescerlo milanista.
Ho smesso di essere un tifoso vero da ben prima che il Milan smettesse di vincere e credo sia pesato tanto veder andar via Sheva e Kakà. Se sei cresciuto negli anni del Presidente Berlusconi è un cambiamento radicale diventare la squadra che non può tenere i propri eroi. C’è chi pensa che i giocatori vanno ed il Milan resta, ma io sono sempre stato tra quelli che accende la TV più per guardare i giocatori che per guardare la sua squadra. Perchè, di massima, il calcio da guardare è uno sport orrendo, se gli togli il tifo o l’aspettativa per “la giocata”.
Giorgio però negli anni cresceva e voleva sapere come mai fossi milanista e non juventino, ad esempio, visto che “la Juve vince e ha Ronaldo”. Così ho cercato di spiegarglielo, di dirgli che vincere non è l’unica cosa che conta e lui ha iniziato a dire di essere anche un po’ milanista, per farmi contento. 
E’ grazie a mio figlio se ho ripreso a seguire il Milan con assiduità, a guardare le partite, a tifare.
Mio figlio, che ieri mattina dai nonni ha disegnato “Giroud che fa gol”, che ieri sera a cena ha chiamato l’applauso per Theo durante la passerella, ma che non ha voluto vedere la partita con me per “lasciarmi tranquillo”, è il motivo per cui questo scudetto è uno dei più belli.
Me lo ha regalato lui, di fatto.

Il video qui sopra l’hanno fatto quelli di ComunqueMilan, una pagina che in questi anni di disaffezione è stata il mio principale (spesso unico) contatto con i rossoneri. Anche quando non guardavo le partite, leggevo loro e credo il video qui sopra spieghi cos’abbiano di speciale.
Nell’ultimo anno poi non nego di aver avuto addirittura il guilty pleasure del canale youtube di Suma. Una narrazione da istituto luce capace però di riportarmi all’ovile della tifoseria, che non deve essere imparziale nè onesta, basa solo esserne consapevoli. Suma mi ha messo sul carro e mi ci ha tenuto su, devo ringraziare anche lui per questo godimento.
E poi ci sono gli interisti, di tutte le specie.
Da quelli beceri per cui si gode sinceramente nel vederli schiumare, a quelli a cui si vuole tutto sommato bene e con cui è divertente prendersi per il culo. Sempre, ma soprattutto oggi.
E’ a loro che dedico il titolo di questo post.
<3

Catarsi

Cercando la parola Catarsi sul dizionario (che poi è Google) esce questa definizione:

/ca·tàr·si/
1. Nella religione della Grecia classica, il rito magico della purificazione, inteso a mondare il corpo e l’anima da ogni contaminazione.
2. In psicoanalisi, processo di liberazione da esperienze traumatizzanti o da situazioni conflittuali, ottenuto col far riaffiorare alla coscienza dell’individuo gli eventi responsabili, rimuovendoli dal subconscio.

Negli ultimi ventisei mesi ho fantasticato molto su quale sarebbe potuto o dovuto essere il primo concerto post pandemia e su come lo avrei vissuto. Mi immaginavo quale potesse essere la canzone che mi avrebbe fatto tornare compresso in mezzo ad altre persone con il ditino alzato e la necessità di cantare e ogni volta me ne uscivo con una risposta diversa, sempre sbagliata per qualche motivo. In tutto questo tempo non ho mai preso in considerazione si sarebbe trattato di Dargen D’Amico.
Non so perchè, ho anche comprato il biglietto per l’evento di ieri in prevendita, andarci non è stata una decisione estemporanea. Forse ho in qualche modo pensato che per qualche ragione tutto sarebbe saltato, che a quel concerto non ci sarei andato davvero. Chi lo sa.
Invece ieri sera all’Alcatraz di Milano ci sono andato per davvero e all’inizio è stato molto strano. Tante persone, poche mascherine: tutti belli ammassati sotto ad un palco, in un ambiente buio che forse psicologicamente dava l’impressione di essere un non-luogo, una bolla fuori da una realtà che ancora porta evidenti le cicatrici degli ultimi due anni. Di primo impatto quindi il feeling non è stato di ritorno alla normalità, tutt’altro. Non vero e proprio disagio, ma una leggera sensazione di allerta che scorre sotto pelle. Volendo fare un paragone, è stato un po’ come il primo concerto post Bataclan: tutto bene, felice di esserci, ma per la prima volta nella vita fai caso a dove sono le uscite di emergenza.
Ad una certa però è iniziato il concerto e tutto è tornato al suo posto quasi subito, fino al momento in cui è stato chiaro non ci sarebbe potuto essere modo migliore per scrollarsi via due anni e passa di inibizioni, frustrazioni e astinenza. Il momento in cui ci siamo ammassati un po’ più stretti, abbiamo ballato un po’ più spinti e abbiamo cantato un po’ più forte. Finalmente.
Questo momento qui.

Non sono solito fare video ai concerti, è la prima volta e l’ho fatto essenzialmente per mio figlio che è andato parecchio sotto al pezzo e si è seccato di non poter venire al concerto. Non credo lo rifarò in futuro, ma in qualche modo sono contento di aver infranto la mia regola e aver immortalato questo momento importante.
La mia personalissima catarsi.

Ci sarebbe poi da parlare del concerto vero e proprio, che ha visto sul palco un JD decisamente in forma. La scaletta è forse un po’ piaciona e molto correlata all’ultimo disco, cosa che penso sia abbastanza normale visto che si piazza di fatto nel post Sanremo. Le escursioni che si concede vanno a pescare tra i pezzi più noti del repertorio e coprono soprattutto D’Io, relegando a comparsata un po’ tutti gli altri dischi. Il momento probabilmente più figo, a livello musicale, è l’Universo non muore mai, riarrangiata per l’occasione in una chiave parecchio interessante. Bello il momento con Tedua, che su disco non ascolterei manco se mi rapiste i figli, ma che sul palco sa starci.
Nell’encore ha suonato Bocciofili e sono definitivamente impazzito, ma a fine pezzo forse il momento più alto della serata.
Prima fa cantare la folla a comando per un paio di minuti e poi se ne esce con: “Ma perchè vi fate manipolare in questo modo? Vi rendete conto? E’ così che la politica vi usa…”.
Io gli voglio bene, anche più di quanto gliene volessi prima.

Ho cambiato servizio di streaming per la musica

La cosa di avere un blog funziona se poi ci si scrive sopra, di massima.
Non è che non lo sappia eh, solo non ho tutta questa impellenza di raccontare cose, ultimamente, e se proprio mi è capitato di avere qualcosa da dire sono finito per scriverla da altre parti.
In questi giorni però c’è stata una piccola rivoluzione della mia vita domestica ed è qualcosa che magari può interessare altri, quindi eccomi qui.
Ho cambiato servizio di streaming musicale.
Dopo anni di utilizzo, ho disdetto il mio account Spotify Premium per approdare a Tidal e l’ho fatto sulla base di due principali ragioni, che adesso vado a spiegare nel dettaglio.

LA QUALITA’
Non ho mai dato troppo peso alla qualità del suono, quando si tratta di ascoltare musica. Non sono uno di quei fissati dell’impiantino a valvole, quelli del suono caldo del vinile. Ho sempre speso più del necessario per l’impianto audio della macchina, ma l’obbiettivo di massima era che suonasse forte, più che bene. La mia scarsa propensione alla qualità credo derivi essenzialmente dall’ascoltare musica la cui pulizia si piazza tra il rumore dei vicini che tassellano il muro la domenica alle 8:30 e il latrato dei cani, ma anche dall’essermi formato musicalmente ai tempi del walkmen e delle cassette duplicate ad oltranza, in cui il fruscio assurgeva a cifra stilistica. Non sono propriamente uno dall’orecchio fino ed esigente, quindi.
E infatti, a riprova, anni di .mp3 e streaming di qualità infima sono riusciti a farmi sprofondare in una palude di suoni brutti e impastati, che per qualche ragione ho iniziato a considerare come standard anche per dischi che avevo consumato prima della rivoluzione digitale, ma che non ho più avuto modo di ascoltare se non in forma compressa. Questo perchè io sono anche quello che colleziona CD, ma che è stato per anni senza uno strumento capace di farli suonare, per dire. Presa coscienza che la playstation non supportasse più il formato ho comprato un lettore CD per casa, ma lo uso pochissimo, preferendo sempre la comodità dello streaming anche su un dispositivo acquistato all’unico scopo di riprodurre il supporto fisico. Stavo bene così, non avevo letteralmente percezione del problema.
Poi tempo fa ho comprato un disco dei Deafheaven, l’ho messo in auto dopo giorni passati ad ascoltare la sua versione streaming e mi si è aperto un mondo. Ho sempre impostato la qualità dello streaming Spotify al massimo delle sue potenzialità, ma effettivamente anche così resta lontanissima dalla qualità audio del supporto fisico digitale. Quando lo realizzi, è come vedere i fili in un trucco di magia, non riesci a tornare indietro tanto facilmente.
Tidal, nel suo pacchetto base, offre la qualità CD senza compressioni e perdita di dati. Con l’ormai accessibilissima possibilità di connessione 4G a consumo illimitato, non ha davvero senso accontentarsi di qualcosa di meno, visto che la differenza la sento pure io. (ref.)

L’ETICA
Lo dico subito, non mi sono messo a boicottare Spotify per via delle cose che ospita, come fossi un Neil Young qualsiasi. Volendo anzi dire due parole sull’argomento, io sono tra quelli che è felice certa roba esecrabile stia in bella vista su Spotify, per una serie di ragioni che vado ad elencare:
1) Non sono del parere che Hitler abbia diritto di fare un podcast, ma trovo molto importante sapere che se Hitler facesse un podcast lo ascolterebbero X milioni di persone. Ho questa idea che nel 2022 sia utopico sperare che chi ha idee dannose non trovi un modo ed un posto per portarle all’attenzione del prossimo, quindi meglio sia una piattaforma nota a farlo, così che si possa avere anche un quadro della portata del problema. Qualsiasi idiozia trova un buon numero di supporter se esposta al mondo intero, ma quantificare quel buon numero è fondamentale per avere una percezione chiara del mondo in cui viviamo ed evitare di farci fuorviare dalle bolle in cui ci nascondiamo ogni giorno.
2) Una piattaforma come Spotify può offrire alternative al podcast di Hitler, metterlo in competizione con altri contenuti ed evitare che chi ci finisce dentro per curiosità ci resti per assenza di metro valutativo. So benissimo che in questa dinamica pesano le scelte che Spotify fa in termini di “spinta” a questo o quel prodotto, che non è un contenitore neutro, ma è (credo) sbagliato pensare queste scelte arrivino su base ideologica e non economica. Spotify spinge quel che fa ascolti, non quel che sposa a livello contenutistico. Di conseguenza, l’idea dovrebbe essere fare una roba opposta a quella di Hitler e farla meglio di Hitler, muovendo gli ascolti di quelli a cui non va tanto bene la linea di Hitler, in modo da invogliare la piattaforma a puntarci sopra. Hitler non sarà l’unico in grado di fare un podcast con numeri grossi, no? Se lo fosse, direi che il problema andrebbe ampiamente oltre Spotify. Non so, posta l’ineluttabilità del libero mercato che definisce il campo da gioco, secondo me conviene che anche i buoni si mettano a giocare invece di lasciare la partita ai cattivi. 
Mi è scivolato un pistolotto non necessario, sorry.
Tornando al punto di partenza, la ragione etica per cui ho preferito lasciare Spotify è la retribuzione degli artisti. C’è tutta una polemica intorno al fatto che i servizi di streaming non paghino a sufficienza chi fa musica, una polemica in cui fatico ad entrare e su cui ho posizioni probabilmente troppo superficiali (eh, invece di solito…). Quel che conta è che nel momento in cui decido di spendere 10 euro al mese per ascoltare musica online, preferisco farlo abbonandomi a chi paga di più gli artisti. Tidal in questo è largamente meglio di Spotify, già con l’abbonamento “base” paga tre volte meglio, fino ad avere una politica imparagonabile ai competitor quando si sceglie l’abbonamento plus. (ref. e ref.)

Sulla base di queste due ragioni, non nego anche spinto da un influencer, ho fatto il salto.
Il costo del mio abbonamento rimane il medesimo, 9,99 euro/mese, e permette di collegare all’account fino a 5 dispositivi.

E QUINDI COM’E’ STO TIDAL?
Se della qualità ho già detto, il secondo punto nodale che ho valutato prima di cambiare è ovviamente relativo al catalogo. 
Al primo impatto, mi è sembrato che su Tidal mancasse un sacco della musica che ascolto e questo mi aveva frenato dall’approfondire. Smanettandoci invece è venuto fuori che c’è grossomodo tutto quello che avevo su Spotify, solo è molto più complesso da trovare a causa di una ricerca interna fatta con il culo. Spannometricamente, in un caso su 20 l’artista non mi è saltato fuori cercandolo per nome, neanche filtrando la ricerca per artista. In quei casi sono riuscito a rimediare cercando un disco specifico, magari qualcosa con un titolo non troppo ordinario, e arrivandoci da lì. In alcuni di questi casi, fallendo anche con il disco, ci sono arrivato da una canzone. Non è sempre necessario farsi tutto questo sbattimento, ovviamente, per trovare quel che si vuole sentire, però potrebbe esserlo, soprattutto nel caso di artisti non propriamente mainstream. Una cosa che si può fare tuttavia è marcare i musicisti che si ascoltano come preferiti, quindi una volta trovati è sufficiente ricercarli in quella sotto lista le volte successive, eliminando la difficoltà.
Altro problema che ho riscontrato è che a volte piccoli gruppi poco conosciuti hanno degli omonimi e ci si ritrova quindi per le mani una discografia mista, fatta di album di gruppi diversi che per Tidal sono invece lo stesso. Non è particolarmente noioso, a meno che si abbia attiva l’opzione per cui al termine di un disco viene riprodotto in automatico quello seguente. Per quanto concerne il mio catalogo di ascolti, si tratta anche in questo caso di una percentuale minima, ma è giusto segnalare la cosa.
Al momento, l’unica roba che mi pare proprio non ci sia e che mi piacerebbe ci fosse è “Amateurs & Professionals” dei Penfold, che invece era presente su Spotify. Si tratta di un disco introvabile anche in formato fisico, di una band emocore durata pochissimo e conosciuta meno, quindi non mi stupisce troppo la mancanza. Per il resto invece, quel che per ragioni di etichetta/territorio/altro non è disponibile in Tidal non lo era neanche in Spotify.
La pecca che per me è davvero dura da digerire al momento, invece, è l’impossibilità di personalizzare la copertina delle playlist, che viene automaticamente assemblata dal software come collage delle copertine dei dischi di cui la playlist è composta. Da maniaco ossessivo, quando faccio una playlist ci butto davvero il sangue e mi piace gestirne ogni dettaglio, dalla selezione, alla scaletta ad appunto la copertina. Per me è una mancanza gigante, ma avendo questa recensione un target non per forza mentalmente disturbato come chi scrive, la riporto tra i “minor issues”.
Per il resto al momento la valutazione è largamente positiva: la app mi pare completamente analoga a quella di Spotify nell’utilizzo e nella navigazione, anche in auto. Mancano forse le finezze più social, ma non ne ho mai sentito l’esigenza neanche quando le avevo a disposizione. 
Consiglio quindi caldamente il cambio a chiunque paghi per ascoltare musica in streaming, ne vale a mio avviso la pena.

Per chiudere, provo ad incorporare un disco nel blog giusto per vedere l’effetto che fa e come si presenta a chi non ha l’abbonamento al servizio.
Uso un disco senza senso a cui sono finito completamente sotto negli ultimi giorni, ma di cui forse scriverò più avanti. Schiacciare play aiuta a farsi un’idea più centrata di quel che ho definito “musica la cui pulizia si piazza tra il rumore dei vicini che tassellano il muro la domenica alle 8:30 e il latrato dei cani” qualche riga più su.

Lo spaghetto alle cozze GIUSTO

Per quanto mi secchi dare ragione a chi me lo faceva notare, questa deriva di chiamare gli spaghetti al singolare nel nome dei piatti è abbastanza rappresentativa di tutto ciò che io per primo trovo sbagliato nella ristorazione attuale. Lo ammetto. Potrei dire che c’è differenza tra chi prova a dare al proprio menù una posa gourmet al fine di rincarare tutto del 30% e chi ci scrive al massimo il titolo di un articolo su un blog irrilevante, ma sarebbe una scusa. Il fatto è solo che ormai “lo spaghetto” è entrato nel mio slang e tocca venirci a patti. Anyway.
Come spesso accade quando questo blog attraversa un momento di stanca e non ho molto di cui mi vada di scrivere, finisco per tornarci all’unico scopo di regalare al mondo una ricetta GIUSTA e oggi non fa eccezione, quindi mettetevi comodi e preparatevi a conoscere l’unica via verso lo spaghetto con le cozze.
Ora, se la prima reazione che vi viene a leggere il piatto è: “Non sarebbe meglio farlo con le vongole?” siete messi peggio di quanto mi aspettassi e quindi mi tocca partire da

LE BASI:
Le cozze sono più buone delle vongole e costano meno. Non c’è proprio gara.
Adesso che siete sul pezzo, direi che possiamo partire con la ricetta che è davvero di un semplice che levati.

INGREDIENTI:
– Cozze
– Spaghetti o eventualmente linguine
– Due spicchi d’aglio
– Olio EVO
– Vino bianco (opzionale, poi spiego)
– Pepe nero macinato fresco
– Scorza di un limone grattuggiata

Non c’è scritto prezzemolo, ma soprattutto non c’è scritto peperoncino. 
Il motivo? Non stiamo facendo uno spaghetto con le vongole.

PROCEDIMENTO:
Una volta che si conoscono alcuni principi inderogabili, preparare una buona pasta con le cozze è davvero facile, veloce e regala una soddisfazione assurda. Vi invito a provare e poi farmi sapere.
Per prima cosa mettete l’acqua a bollire per la pasta, salata.
In una pentola bassa mettete a soffriggere abbondante olio con i due spicchi d’aglio. Io l’aglio lo taglio a metà per il lungo ed estraggo l’anima, che è quella specie di tronchetto interno che viene via da solo facendo leva con la punta del coltello. Lo faccio perchè mi dicono questo renda l’aglio più digeribile, ma tanto mia moglie non me lo fa mangiare uguale quindi a me cambia poco. Volete usare l’aglio in camicia (aka con la buccia) e poi toglierlo in cottura? Boh, non sono qui a giudicare nessuno, ma non ho grande opinione di voi.
Quando l’aglio inizia a prendere colore, buttate le cozze e mettete un coperchio, tenendo la fiamma bella viva.
Lo so, c’è un elefante nella stanza: come pulisci le cozze? 
Non ne ho idea. O meglio, so come andrebbe fatto, ma è uno sbattimento infinito che mi priva della gioia di poter cucinare una pasta buona in pochissimo tempo. E’ un po’ come vedere quelli che si mettono con il termometro a fare la fondutina di pecorino per fare la cacio e pepe, o che fanno lo zabaione di uovo pastorizzato per la carbonara: non discuto il metodo e neanche il risultato, ma per me è una roba completamente senza senso. Nerdismo della peggior specie.
Io quindi le cozze le prendo pulite e sotto vuoto al banco del pesce fresco. Vanno consumate subito, ma hanno il vantaggio di essere pronte a finire in padella, necessitano solo un piccolo check per verificare l’effettiva rimozione della barbetta da ogni bivalvia.
Altra questione importante: quanto le devo cuocere?
Qui la situazione è più delicata perchè qualsiasi ricetta o corso vi insegna che la chiave del successo, quando si cucinano i molluschi, è non stracuocerli. Spesso però l’adattamento casalingo di questo metodo porta noi spadellatori amatoriali a trovarci con l’ansia di toglierle dal fuoco prima possibile, che si traduce nel trovarsi poi metà buona dei gusci ancora chiusi. Secondo me è una pirlata. Se devo rischiare tra buttare 1/3 del pesce o servirlo oltre cottura per me non c’è neanche da pensarci, soprattutto perchè le cozze tendono meno a diventare dure e gommose rispetto ad altri molluschi. L’ideale quindi è usare un coperchio trasparente e monitorare costantemente lo stato di cottura/apertura delle cozze.
Quando sono aperte, è il momento di sfumare con il vino bianco.
ATTENZIONE.
Qui è dove secondo me si gioca la partita.
Il vino bianco usato per sfumare, di solito, è un vinaccio. Di conseguenza l’unico apporto che conferisce al piatto è acidità. Non fraintendetemi, la componente acida è necessaria in questo piatto, ma non deve per forza di cose arrivare dal vino. Se quindi siete soliti sfumare con il tavernello nel cartone (come faccio io 9/10), evitate questo passaggio. Se invece avete la possibilità di sfumare con un buon vino bianco, profondo e aromatico, che possa portare complessità di gusto al vostro sugo, allora usatelo. Io ho provato a sfumare con un buon bianco e la differenza si sente. Tanto. Però sono anche tra quelli che preferisce bersi il vino, piuttosto che metterlo nella pasta, quindi capisco chi non voglia sprecare un bicchiere di qualità. Davvero, I feel you, my alcoholic friend. Solo, in quel caso, suggerisco di non sfumare proprio. Fidatevi.
Ora possiamo spegnere le cozze, che dovrebbero essere in una brodaglia molto lenta (aka liquida), e buttare la pasta nell’acqua che bolle nella seconda pentola. Ci siamo detti che stiamo facendo uno spaghetto, ma può andare anche una linguina. Pasta lunga secca non all’uovo, abbastanza sottile. Niente capelli d’angelo, bucatini o tagliatelle perchè porcaccio il clero vi vengo a prendere a casa.
Il trick adesso è portare la pasta a metà cottura (aka leggere il numero scritto sulla confezione e puntare un timer con la metà di quei minuti), mentre sgusciamo una ad una tutte le nostre cozze, rituffando il mollusco nella brodaglia che c’è in padella e buttando i gusci, che nessuno vuole nel piatto. Mai. Never.
Quando è trascorso il tempo necessario a metà cottura, riaccendete la brodaglia delle cozze e buttateci la pasta mezza cruda dentro. Questo servirà a due scopi:
1) Restringere il brodetto delle cozze presentando alla fine una pasta “asciutta” e non brodosa.
2) Finire la cottura della pasta, che avrà ancora amido da regalare e che quindi addenserà di suo quello stesso brodetto, rendendolo più cremoso. 
Si potrebbe mettere la pasta nel brodetto delle cozze da cruda e fare tutto in un’unica padella? Sì, ma io ho standardizzato questo metodo che mi permette di accorciare i tempi e non stracuocere davvero le cozze oltre ogni logica. L’ho replicata diverse volte e non ho mai avuto bisogno di aggiungere acqua di cottura nella fase finale, il brodetto è di massima l’esatta quantità di liquido che mi serve a chiudere la cottura senza che asciughi troppo o resti troppo liquida. Io faccio così, ma non voglio tarparvi le ali, insomma.
Ora che il piatto è essenzialmente pronto va aggiustato con gli ultimi due ingredienti: pepe nero e scorza di limone.
Il pepe nero serve a rendere questa pasta vicina al piatto principe che ha la cozza come protagonista, ovvero l’impepata. Ce ne dovete mettere tanto e, quando vi sembra di aver esagerato, grattarne ancora. Discorso diverso per la scorza di limone, che deve essere presente e decisa, ma non deve sovrastare. Soprattutto, deve tenere conto del fatto che abbiate o meno sfumato con il vino. Se lo avete fatto, ce ne vorrà meno e avrà più lo scopo di profumare che non di conferire acidità, se invece non avete sfumato avrà questa duplice mansione. Assaggiate, per dio, e le quantità le capirete da soli.

Fine, nulla di più semplice.
Provatela e ditemi se non prende a calci in culo quell’aglio, olio e peperoncino mascherata che è la vostra fottuta pasta alle vongole.

It’s not interesting

Mi è capitato un sacco di volte di parlare con persone che misurano la loro passione per la musica con la capacità di associare una canzone ai momenti chiave della loro vita. Di solito rispondo: “Eh anche io sono così…”, ma se vogliamo essere onesti è una mezza cazzata.
Ho anche io avvenimenti o persone importanti che collego a questa o quella canzone, ma il più delle volte a me la musica inchioda in testa momenti onestamente insignificanti che diventano ricordi per via della musica e non viceversa.
Non conosco tante persone che ricordino il momento esatto in cui hanno sentito il loro disco preferito per la prima volta. Io sì. Ero su un treno, vagone cuccetta, e stavo andando in Sicilia per il matrimonio di un cugino che ho visto 4 volte in quarant’anni. Non ricordo nient’altro di quel viaggio in treno, ma il momento in cui mi sono sdraiato e l’ho fatto partire dal lettore MP3 è cristallino.
Oppure possiamo parlare della pandemia, due anni di vita che per me non sono esistiti. È una fortuna, probabilmente, visto che chi ha ricordi del biennio 2020-2021 è perché ha perso qualcuno. Io è come fossi stato in coma, forzato a rivivere 600 e passa giorni indistinguibili tra loro, ancora e ancora. Eppure, se ricorderò un singolo momento emblematico di questa parentesi per via della musica, non sarà quando è iniziata o quando è finita, né il momento in cui le persone a me care si sono vaccinate facendomi finalmente tirare il fiato. Non ricorderò neanche le estenuanti convivenze forzate.
Ripensando al COVID mi verrà in mente il momento in cui ho dovuto accostare perché Forever and a day suonava così forte e io urlavo così forte, che mi son ritrovato a piangere dietro al volante. Non so dire che giorno fosse o dove stessi andando, ma quel crollo emotivo è un’immagine indelebile, associata ad una canzone che avevo ascoltato chissà quante volte nei venticinque (!!) anni precedenti, ma che da quel momento ha tutto un altro peso, tanto che, ancora adesso, se la metto in cuffia mi monta il magone.
Esempi da fare ne avrei una camionata, da quella volta in cui è partita Don’t drive angry mentre ero compresso in metropolitana e per qualche minuto sono stato bene sentendomi una vagonata di gente addosso oppure quando mi sono ritrovato a cantarmi in testa Ridere di te mentre nuotavo in piscina, ininterrottamente, vasca dopo vasca. Ero in terza elementare e ce l’ho chiaro come fosse successo ieri, eppure era un giorno qualsiasi del corso di nuoto che ho fatto per, boh, sette anni due volte a settimana?
Pur sforzandomi di pensarci non saprei associare una canzone alla nascita dei miei figli, ma ricordo alla perfezione quella mattina di prima liceo in cui, sottissimo per Molly4Deejay, ho fatto sentire a Peich gli Stunned Guys.
Non credo di essere l’unico con questo tipi di mindset, ma non è qualcosa di cui la gente tende a vantarsi quando parla di sé, quindi boh.

Da un po’ di giorni sono finito dentro ai dischi degli Spanish Love Songs e mi ci sono impantanato. Scrivendone sui social dicevo che tutto sommato sono dischi non particolarmente interessanti, sul piano musicale. Non so perché io debba ancora stare dietro al giustificare i miei gusti, come se intorno a me gente titolatissima non passasse il tempo a spingere, legittimamente, la peggio merda o, soprattutto, come se davvero il fatto che io passi il tempo a spingere roba non ritenuta “universalmente” valida fosse in qualche misura un problema per l’universo che mi vive intorno.
Che poi non è che possa illudermi questo sia un approccio mentale che mi contraddistingue solo quando parlo di dischi.
Passo ampia parte delle mie giornate in un ambiente virtuale che tratta la verità come fosse un Rolex: sei contento di possederla, poterla ostentare ti fa sentire meglio degli altri e, tutto sommato, preferisci rimanga una cosa per pochi così da continuare a sentirti speciale nell’averla tu. Che poi andandoci a guardare in molti casi si rivelino dei grossi fake è irrilevante, tanto chi li sfoggia o lo sa e dissimula, oppure è talmente fiero del proprio status da non accorgersene neanche. Esattamente come succede coi Rolex.
Io invece tendo a giustificarmi sempre, sa il cazzo perché. Non sono davvero convinto sia necessario, probabilmente, eppure forse ho paura qualcuno possa prendere le robe che dico come io spesso prendo le robe dette da altri, per buone. Il mio problema non è realizzare di non contare un cazzo per nessuno fuori da quelle dieci persone mal contante per cui davvero farebbe differenza non avermi intorno (che poi di massima sono le persone che farebbe differenza per me non avere vicine), il mio problema è venire a patti con lo smettere di cercare nel resto della popolazione mondiale persone a mia immagine e somiglianza, fino a derubricare finalmente il prossimo come qualcosa di tutto sommato irrilevante.
Non lo so.
Forse il mio problema con le bolle non è solo il fatto che siano spesso degli agglomerati acritici fatti per fare gruppo/branco, ma che proprio per quello io non creda di poterne davvero avere una in cui sentirmi così e, di massima, nella mia bolla finisca col sentirmi ancora più solo.
Fa abbastanza ridere perché se chiedete ai miei amici probabilmente mi descriverebbero come una persona socievole e non è che siano stronzi loro, è che sono quarant’anni che lavoro per dare questa immagine di me.
Tempo fa twittavo questa cosa:

Oltre al fatto che ovviamente ricordo nel dettaglio il pezzo che avevo in cuffia in coda al Gigante mentre la scrivevo, è forse la roba più vera che possa dire di me stesso. Ci vuole un certo impegno ad essere quel tipo di persona e sbattersi 24/7 per una vita nel tentativo di non darlo troppo a vedere.
Ma sai cosa? Ho fatto un buon lavoro. Vaffanculo.
Ho solo bisogno di prendermi qualche momento in cui faccio il punto, in cui mi metto nelle orecchie qualcosa che mi aiuti. A volte a stare bene, altre volte a stare male, di massima a venirne fuori meglio di come ci sono entrato.

I’m trying to be fine
I swear I’m trying to be my best

Non so se ricorderò questo momento, non ho ancora capito come funzioni la mia testa sufficientemente bene da poterlo prevedere, ma se questo inizio di 2022 troverà uno spazio tra le mie sinapsi sarà probabilmente collegato alla musica degli Spanish Love Songs. Un gruppo per nulla rilevante che ha stampato il suo miglior disco solo in vinile, ma che nonostante questo mi ha aiutato a mettere un po’ tutto in prospettiva ancora una volta e fino alla prossima.
Il titolo del post è quello di un pezzo del disco, direi che ci sta.


Ultimamente mi è capitato di scrivere un paio di cose per Spento, un blog di musica figo in cui sono iper fiero di aver trovato un piccolo spazio (ref1, ref2). 
L’idea era di mandargli anche questo pezzo qui, ma prima di spedirlo mi son preso la briga di controllare e degli Spanish Love Song avevano già scritto ampiamente senza bisogno di me, come giusto che sia visto che si parla di roba uscita mille anni fa. C’è un pezzo su Brave faces, everyone e uno su Schmalz, che poi è il disco di cui credo di aver scritto io. 
Forse è meglio così, che mi sa che ho un filo sbragato ‘sto giro.

Salta al prossimo post, che non ne vale la pena

Non l’ho mai presa secca in casa da solo.
A vent’anni bevevo merda in giro con gli amici, quando la prendevo era perché qualcosa sballava l’equazione che avevo messo a punto introducendo variabili che non ero in grado di gestire real time. È il problema di tutti i giovani che la prendono, serve a fare esperienza.
Dai trenta* prenderla è diventata una sorta di gag, qualcosa che in un modo o nell’altro ti aspetti prima di uscire di casa. Non arrivo a dire “L’obbiettivo della serata”, ma di certo non siamo piú dalle parti dell’incidente di percorso. È un po’ come Joseph “Joe” Hallenbeck vede l’adulterio, di massima. Non esiste una versione colposa.
A quaranta pensi di averle viste tutte e invece ti ritrovi quasi per caso a fare mente locale e provare un’esperienza nuova: prenderla secca a casa, mentre con la mano destra lavori a delle slide che dovrai comunque rivedere domani e con la sinistra ti versi un whiskey giusto per mandare giù l’ennesima giornata complicata.
Ok, siamo d’accordo sul fatto che se l’avessi davvero presa secca non sarei qui a scrivere sul blog, ma cercate di vedere il mio bluff: prenderla secca oggi per me è più che altro bere più di quanto il contesto giustifichi, che poi di massima è quel che fanno le persone che hanno un problema con il bere. Credo.
Bersi una bottiglia di vino durante una cena da diverse portate con altre persone che hanno tutte bevuto la loro bottiglia di vino, per me, è safe. Bersi una birretta dissetante tornato a casa dal lavoro nel caldo di Luglio, anche. Bersi una bottiglia di vino per togliersi la sete prima di cena credo si possa definire “problematico”.
Io tendo a non bere fuori dagli “eventi”.
In casa mia apriamo bottiglie di vino solo se c’è gente o se nel fine settimana cuciniamo qualcosa che meriti di essere valorizzato, per dire. Sia io che mia moglie abbiamo un background da residenti in Germania, quindi se c’è birra in frigo tendiamo a berla: il nostro consumo a pasto va per il litro totale, 3 bottiglie da 33cl in due**, e non è ovviamente la routine (marzo 2020 a parte), in circostanze normali direi che si parla di un paio di volte a settimana.
Non è prenderla, spero siate d’accordo.
Ogni tanto poi nel post cena mi verso un superalcolico: whiskey o rhum. Un cocktail quando fa caldo e punto a dissetarmi. Una bottiglia buona di quella roba di norma mi dura un paio di anni e il grosso se lo tirano comunque le merde dei miei amici*** quando vengono a cena.
Il punto di sta premessa infinita quindi non è vendere un Manq clean and sober, ma dare un contesto definito dei miei standard e da lì spiegare perché questa sera sia successa una roba strana.
Vuoi l’essere grossomodo malato da inizio anno, vuoi il fatto che io e mia moglie si viva sull’orlo di una crisi di nervi, oppure vuoi per via dei sensi di colpa verso figli che si trovano di botto in un ambiente molto meno sereno di quello a cui li avevamo abituati (con conseguente cambiamento nel loro carattere), oggi sono finito a tirarmi tre whiskey chiacchierando con mia moglie****. O meglio, sfogandomi con lei come le persone equilibrate e intelligenti fanno con un analista.
Forse quello che stiamo vivendo è l’ultimo quadro del survival game che la nostra vita familiare è diventata da Wuhan in poi. Ci speriamo molto, ma più che altro credo ci sarebbe oltremodo complicato gestire nuovi livelli che al momento non ci aspettiamo esistano.
L’ho presa secca anche per quello, forse, oggi.
Per paura dell’ignoto.
Data astrale 15/2/22: l’ho presa secca a casa e spero davvero non ci sia ragione perché succeda di nuovo in futuro.


*cifra completamente random che vuole rappresentare la maturità consapevole

**se c’è una cosa, una singola cosa del mio rapporto matrimoniale che mi mette voglia di urlare è quando chiedo a Paola: “Ti va una birra?” e lei mi risponde: “Metà.”. Ci impazzisco.

***non giudicateli male, io faccio uguale a casa loro.

****quello che è stata capace di gestire mia moglie in questo inizio di 2022 tra lavoro, figli e gestione della casa/famiglia mentre non potevo darle una mano è inspiegabile. Non mi stupisce ne sia in grado, come sempre mi stupisce piuttosto la fortuna che ho nell’averla nella mia vita.

Il chili GIUSTO

Una delle cose belle dello smart working è che puoi fare il chili per il martedì a mezzogiorno. 
E’ una bella cosa perchè, senza falsa modestia, io faccio un chili eccellente. La ricetta è stata costruita negli anni a fronte di esperienza diretta, incontro con la cultura messicana e spunti di vario genere e provenienza. E’ importante sottolineare che il chili con carne è un piatto più texmex che tradizionale americano, quindi il grosso della mia ricerca è stato focalizzato al tentativo di avvicinarne il gusto alla tradizione centroamericana, fatta di sapori complessi e molto stratificati.
Quella che vi riporto quindi è una versione che io definisco GIUSTA perchè centra perfettamente l’obbiettivo e restituisce quelle sensazioni, più vicine al mole poblano che non a Taco Bell.
Puto yanqui.

La seconda premessa riguarda la diatriba sul tipo di carne da utilizzare. Se dico chili con carne è immediato immaginare una preparazione fatta con la carne macinata, eppure vi garantisco che la si può anche preparare a cubetti, come una sorta di spezzatino, ottenendo qualcosa di diverso, ma comunque GIUSTO. La domanda che dovete farvi è: voglio metterlo in una tortilla o mangiarlo con le posate e magari del riso? Io tendo ad essere #TeamTortilla, ma non mi spiace variare. Poi oh, non starò certo qui a negare di aver messo anche la versione a spezzatino dentro una tortilla, il limite è la vostra fantasia.
Nei due casi però la scelta del tipo di carne cambia. 
– Se volete farla con il macinato, la soluzione che preferisco è un trito misto maiale/manzo (1:4). Non suggerisco tagli particolari, io dico solo al macellaio di non usare pezzi troppo magri.
– Se volete provare la pezzettoni experience invece è fondamentale prendiate carne da spezzatino che non diventi troppo asciutta dopo la cottura. Il chili infatti cuoce con una dose minima di liquidi, questa è proprio la chiave del successo, deve venire fuori qualcosa di molto cremoso, ma asciutto. Se ci puoi pucciare il pane hai sbagliato qualcosa, se gocciola fuori dalla tortilla anche. Potete usare il classico cappello del prete, ma la carne migliore per me è quella degli ossi buchi fatta a tocchetti. Trust me. 

INGREDIENTI (4 porzioni):
– Burro
– 500 grammi di macinato / spezzatino
– 1 bicchiere di tequila (meglio se reposado)
– Olio EVO
– 1 cipolla bianca piccola
– 1 scalogno (se la cipolla vi uccide potete fare solo scalogno, se vi piace solo cipolla)
– 2 spicchi d’aglio
– peperoncino (vedi nel procedimento)
– 400 grammi di fagioli secchi neri o rossi, ammollati dalla sera prima in acqua.
– 1/2 cucchiaino di cumino secco
– 1/2 cucchiaino di coriandolo secco (il coriandolo fresco fa CA-GA-RE.)
– 1 cucchiaino di paprica dolce
– 1 cucchiaino di paprica affumicata (se ce l’avete, altrimenti raddoppiate la dolce)
– Timo, alloro e maggiorana secchi a piacimento (mezzo cucchiaino scarso per ognuna è sufficiente)
– 2 cucchiai abbondanti di triplo concentrato di pomodoro
– 1 cucchiaino pieno di cacao amaro in polvere
– 1 tazzina di caffè espresso o da moka, ma non solubile.
– 100g di panna da cucina non zuccherata
– 100g di yogurt greco
– il succo di mezzo lime o limone

INGREDIENTI CHE NON DOVETE USARE:
Carote, sedano, salsa di pomodoro, pomodori freschi (!), peperoni freschi (!!) e il fottuto mais (!!!).

PROCEDIMENTO:
Come per tutte le ricette, la base è apprendere l’arte delle cotture separate. Se si rosola la carne insieme alle verdure viene tutto male, dobbiamo rosolare entrambe le parti al meglio per avere un risultato vincente, facendo pochissima acqua.
Iniziamo dalle verdure, quindi. In una casseruola rosoliamo con olio extravergine la cipolla, lo scalogno, l’aglio e il peperoncino. E’ importante aggiungere il peperoncino subito nel soffritto perchè l’olio estrae il piccante, l’acqua molto meno, quindi va messo quando i liquidi ancora non ci sono. Ok, ma quale peperoncino usiamo? L’ideale è usare del peperoncino fresco tipo habanero, perchè ha una caratteristica di gusto perfetta che va oltre il piccante. Si può anche usare del peperoncino essiccato, sempre habanero (io faccio così, avendo la pianta). Non starò a dirvi che altri peperoncini non vanno bene perchè è una minchiata, anzi, se avete del peperoncino in polvere è più semplice dosarlo le volte successive per avere il piccante che preferite, mentre usandolo fresco è una specie di roulette russa. Unica cosa davvero importante è che il chili deve spingere, quindi ragionevolmente e in conformità al proprio palato cercate di andare un filo oltre quello che per voi è il piccante giusto, il motivo ve lo spiego dopo.
Quando la cipolla e lo scalogno iniziano ad appassire e l’aglio ad imbrunirsi, aggiungiamo i fagioli scolati (non buttate l’acqua!!!) e tostiamoli una minima, senza far bruciare il resto. A questo punto via dal fuoco e passiamo alla carne. 

Prendiamo una padella, meglio se di alluminio/ferro o comunque non antiaderente, e ci mettiamo una generosa noce di burro. Quello chiarificato rosola meglio, ma non sono qui a fare il fighetto di stocazzo quindi usate il burro che avete, che tanto va bene. Quando sfrigola, buttate la carne stando attenti a non ammassarla, ma distribuendola bene su tutta la superficie della pentola. Soprattutto con il macinato, procedere buttando piccoli fiocchetti è importante, altrimenti la carne farà acqua, l’acqua abbasserà la temperatura a 100° C e non si rosolerà più niente. Sono piccole cose, ma fondamentali. Non richiedono poi tutto questo lavoro in più, solo un po’ di accortezza., quindi fatele senza farmi bestemmiare.
Rosoliamo la carne fino a che fa una bella crosticina marrone scuro e se non ci sta tutta insieme andiamo per gradi: togliamo quella rosolata bene dalla pentola e aggiungiamo quella cruda, fino ad esaurimento. Non andate in para se la carne rosolata rimane fuori dal fuoco ad aspettare, non è un problema. Una volta rosolata tutta la carne, sul fondo della padella dovreste avere un bel fondo marroncino. Se non c’è non avete rosolato bene, se è nero avete bruciato la carne e vi suggerisco di fermarvi, buttare tutto e ordinarvi una pizza.
Il fondo marroncino lo dobbiamo deglassare (aka sfumare) con la tequila: fuoco alto, buttiamo la tequila e con un cucchiaio di legno scrostiamo il fondo della padella mentre facciamo evaporare l’alcol. La tequila reposado (quella color paglierino e non trasparente, per intenderci) ha tendenzialmente più aromi e quindi è meglio di quella bianca, mentre non ho mai provato ad utilizzare il mezcal. La birra no. Davvero, non fatelo. No.
Deglassato bene il fondo buttiamo il tutto nella casseruola delle verdure insieme alla carne rosolata, diamo una bella girata, saliamo, pepiamo (il pepe serve anche se c’è il peperoncino, ma senza esagerare) e aggiungiamo le spezie. In ultimo aggiungiamo il concentrato di pomodoro.

Qui parte la magia, ovvero la cottura, che va fatta col coperchio, a fuoco bassissimo e giocando sapientemente con i liquidi. Lo scopo infatti, come dicevo prima, è tenere il chili il più asciutto possibile ed è per quello che usiamo il concentrato di pomodoro e non la salsa/passata. Se però non stiamo all’occhio, tenendolo asciutto rischiamo di farlo bruciare ed attaccare al fondo della pentola, rovinando tutto il lavoro. Vuol dire che dobbiamo stare fissi a guardarlo cuocere per ore? No.
Se vi siete tenuti l’acqua di ammollo dei fagioli da parte, potete aggiungerne un paio di mestoli ogni mezz’oretta, direttamente a temperatura ambiente. Questo abbasserà la temperatura in pentola e allungherà i tempi di evaporazione, mantenendo la vostra preparazione umida, ma non liquida. Potete anche usare acqua normale, se non volete riciclare quella dei fagioli. Spreconi.
Il chili dovrà cuocere per circa due ore e mezza, ma non abbiamo ancora finito con l’aggiunta degli ingredienti: ora arrivano i due colpi di classe, quelli che indirizzano il piatto verso l’autenticità messicana. Dopo un’ora di cottura, quando il tutto è amalgamato bene (soprattutto il concentrato di pomodoro), aggiungete il cacao amaro e la tazzina di espresso*. 
SBAM. Avete svoltato.

Nell’ora e mezza che ci manca a concludere la cottura ci resta da preparare un’ultima cosa fondamentale, ovvero la panna acida. Non ci vuole chissà cosa, basta unire parti uguali di panna da cucina non zuccherata (non necessariamente fresca) e yogurt greco, irrorando il tutto con il succo di mezzo lime (o limone). Mescolate tutto insieme e lasciate riposare almeno un’oretta in frigo. 
La panna acida ha un doppio scopo: il primo è scomporre il sapore ultra complesso del chili rendendolo più facile da apprezzare nelle sue sfumature, il secondo è tagliare il piccante. Se però siete stati parchi con il peperoncino, rischiate che la panna acida ve lo copra del tutto e un chili non piccante è una sconfitta. Di massima la panna acida va usata come l’acqua nel whisky: dosi giuste amplificano il godimento e smorzano l’eccesso di alchol, se si esagera va tutto affanculo.

Al termine delle due ore e mezza di cottura spegnete il fuoco e lasciate riposare coperto per altri 30 minuti prima di servire, accompagnando con la panna acida e, se volete esagerare, un guacamole GIUSTO.
Non ve ne pentirete.

* Il caffè è l’ultima aggiunta che mi ha permesso di certificare questa ricetta come GIUSTA e per questo devo ringraziare Riccardo.

Sul greenwashing magari andiamo oltre Cosmo

Ieri sera sul palco più importante d’Italia Cosmo se n’è uscito con lo slogan “Stop greenwashing”, raccogliendo il puntuale abbraccio virtuale delle forze del bene in tutta la giornata di oggi.
La cosa facile per parlare della questione sarebbe scrivere un pezzo di quelli che scrive la Soncini (forse lo ha fatto davvero anche sull’argomento, non mi interessa verificare), che della crociata contro la sicumera di quelli che vengono definiti Social Justice Warriors ha fatto una professione. Nello specifico mi darebbe anche gusto, forse, ma è una roba che detesto e vorrei evitare. Voglio provare invece ad analizzare la situazione, perché la sto vivendo dall’interno e credo meriti un’analisi un filo più complessa di uno slogan.
Partiamo dal principio: cos’è il greenwashing? Di massima è il tentativo di sbandierare politiche green da parte di persone, politici e aziende che non ci credono davvero, ma che lo fanno come mossa di marketing per cavalcare una moda e il relativo consenso.
Una roba ipocrita, che spesso arriva da entità che hanno una responsabilità concreta sul piano dell’inquinamento e che quindi comprendo benissimo faccia incazzare, di pancia, ma le reazioni di pancia non sono note per essere le più centrate e certamente questa non fa eccezione.
Il punto chiave è che la società in cui viviamo è portata a selezionare il profitto sui valori e, spoiler allert, purtroppo non usciremo tanto in fretta da questo modello. Di conseguenza, ho paura che l’opzione migliore che ci rimanga sia quella di approfittare dei rari casi in cui i valori generano profitto e cavarci fuori il meglio, come il proverbiale sangue dalle rape.
Io lavoro per la filiale italiana di una multinazionale americana. Non mi interessa crediate al fatto che, da dentro, la reputi “il migliore degli inferni possibili” nel settore, se si parla di ecologia resta comunque una realtà con delle responsabilità.
Non mi interessa neanche vendervi un’idea di me come accanito sostenitore delle politiche green perché non lo sono.
Il punto però è che quest’anno sono riuscito a farmi approvare un investimento di alcune migliaia di euro per sostenere progetti di recupero delle foreste pluviali nel terzo mondo e il motivo per cui la mia azienda non mi ha mandato affanculo è che su questa cosa può fare comunicazione, marketing, e avere un ritorno di immagine. Questo non vuole necessariamente dire che io, il mio capo o il CEO global non si creda nel valore etico e sociale del progetto, così come ovviamente non basta per sostenere sia un’operazione genuina. Su quello ognuno può farsi l’opinione che crede*, ma certamente se anche tutti i citati fossero ultras della politica green non si sarebbe mosso un euro se questa iniziativa avesse potuto nuocere all’immagine dell’azienda o al suo fatturato.
Quello che conta, alla fin della fiera, è che quei soldi:
– io non avrei mai potuto devolverli all’ambiente di tasca mia.
– la mia azienda non era in alcun modo tenuta ad investirli nelle politiche verdi.
Eppure la donazione è stata fatta.
A volerla vedere come una sconfitta ci vuole parecchia malafede, secondo me. Mi tocca spiegarlo ad un cliente su tre però, quando mi spara la sua versione diplomatica del: “Lo fate solo per darvi una posa”.
Nel 2022 è complicato ricordarsi che la politica la fanno i governi e non le corporation, ma per il momento è ancora così. È la politica che dovrebbe lavorare per non relegare l’ecologia delle multinazionali al reparto marketing, fino a che questo non succederà** tutto ciò che questi colossi faranno in questa direzione è grasso che cola, che lo facciano per immagine, per vocazione o per detrarlo dalle tasse. Non è qualcosa che possiamo controllare.
La riflessione però non finisce qui.
Parlando su twitter con un paio di persone e leggendo i commenti di altri mi sono ritrovato a chiedermi cosa faccia davvero incazzare i sopracitati SJW del greenwashing e la risposta che mi sono dato è “la frustrazione”.
Come dicevo, è complicato credere in una causa che si ritiene giusta e rendersi conto di non contare grossomodo un cazzo nella determinazione dell’esito finale della battaglia. Spiego con un esempio: Lufthansa ha dichiarato di dover far volare 18K aerei vuoti quest’inverno essenzialmente per questioni risibili (ref.). Ogni ora, uno di questi aerei produce la CO2 che una persona produrrebbe in un anno, quindi diventa abbastanza semplice (se non si è lobotomizzati) mettere in scala il peso specifico del nostro sciampo solido e delle maledette cannucce di carta.
Il punto quindi diventa il fatto che chi combatte queste battaglie spesso (direi sempre, ma non mi va di essere assoluto nonostante ci sia di mezzo la natura biologica della nostra specie) lo fa anche per il piacere di tirare la riga tra i buoni ed i cattivi, posizionarsi tra i primi e antagonizzare i secondi. Noi crediamo nelle politiche ecologiche, le multinazionali sono la causa del problema. Easy peasy.
Se però quelle stesse multinazionali possono decidere di avere un impatto positivo sulla questione che io da privato cittadino non avrò mai la possibilità di esercitare, quella riga si sposta o comunque diventa meno netta. Siccome poi in uno scenario senza cattivi è complicato essere i buoni, nessuna redenzione ci sembra possibile, nessun aiuto dal nemico ci risulta ben accetto e trasformiamo il trend delle multinazionali che investono nel green in un ulteriore capo d’accusa sul loro conto.
È un comportamento umano che comprendo e da cui non sono esente, in altri ambiti (ad esempio l’inclusivismo coatto di hollywood, anche se credo siano analisi non sovrapponibili***), ma che razionalmente mi sembra figlio del nostro ego più di quanto sia delle cause per cui ci spendiamo.
Cause che, di massima, superata l’autogestione è difficile ridurre a slogan senza passare per superficiali.


* a margine ci si può fare l’opinione che si crede anche di uno che grida uno slogan sul palco, se si è proni a fare un processo alle intenzioni.

** vedo arrivare l’obbiezione: “Eh, ma le multinazionali controllano la politica, quindi non succederà mai! Da un lato lavorano per restare libere di fare come cazzo gli pare e dall’altro ci sbattono in faccia questo impegno d’accatto…”. Vero. O meglio, plausibilissimo. Se questa è la realtà peró, ha ancora meno senso rompere il cazzo su quel poco che fanno. È legittimo sentirsi presi per il culo e avercela a male, ma chiedergli di smetterla è remare nella direzione opposta.

*** grazie al cazzo, pensassi che è la stessa cosa non avrei opinioni opposte nei due frangenti.

Sanremo 2022

Mi sono accorto che ogni anno faccio il solito disclaimer: non seguo Sanremo in termini di show televisivo, che anzi mi dà abbastanza sui nervi, ma mi piace ascoltarmi i pezzi in gara e buttare giù un’opinione al primo ascolto per ognuno di loro.
Quest’anno non fa eccezione, se non per il fatto che:
1) C’è in gara Dargen D’Amico, che qui si ama abbastanza.
2) Sto giocando il Fantasanremo.
Per chi non avesse familiarità con il mio modo di approcciare la questione, per me Sanremo è La Canzone di Sanremo™ (da qui CdS™), archetipo che non ha senso di esistere mai, ma che in quel contesto trova la sua collocazione naturale. Potrei provare a spiegarvi in cosa consiste, ma sarebbe più noioso delle canzoni stesse, cosa davvero indicativa, quindi mi limito a puntare il dito quando lo riconosco in scaletta.
Vedo che quest’anno la playlist Spotify è di 25 pezzi e tiro un enorme sospiro di sollievo, dovrebbe essere più semplice del previsto.
Bando alle ciance quindi, iniziamo.

1) Brividi, di Mahmood e BLANCO
Minchia! Si parte subito con la CdS™ e la piazza il duetto che tanti danno tra i favoriti. Devo dire che mi sarei aspettato tutt’altro. Ovviamente, come vuole l’archetipo, è una palla al cazzo tremenda e il tentativo darle un sapore 2022 è davvero goffo e appena abbozzato. L’anno scorso Fedez e la Michielin ci avevano investito almeno mezzo neurone, per dire. Cmq oh, se vincesse non credo sorprenderebbe qualcuno. Nota a margine: si parte subito anche col CAPSLOCK, vero e sottostimato cancro della musica contemporanea.

2) O Forse Sei Tu, di Elisa
Va beh ma è meraviglioso, altra contender che si presenta con la CdS™! Quest’anno è gara vera e autentica. Non saprei dire se questa sia meglio della precedente, ma a me Elisa piaciucchia e credo ci si potesse aspettare qualcosa di meglio da lei.

3) Ciao Ciao, di La rappresentante di lista
Non fa ridere che questo didascalicissimo e derivativissimo utilizzo di suoni che hanno almeno 50 anni ci faccia però pensare: “Oh, finalmente qualcosa di attuale!”? A me sì. Poi oh, il pezzo è carino ed entra in testa subito, tutto sommato per me promossa.

4) INSUPERABILE, di Rkomi
Toddiocris, che monnezza. E’ tutto sbagliato, non saprei neanche da dove cominciare.

5) DOMENICA, di Achille Lauro
Boh, i giovani è evidente abbiano la tastiera incastrata sulle maiuscole. Ci sta, anche mio figlio di 6 anni quando scrive ai nonni lo fa in CAPSLOCK. Ma sto pezzo non l’ha già portato le edizioni scorse con un testo diverso? No dai, sono ingiusto. Diciamo che ha preso spunti dalle sue robe precedenti e le ha ulteriormente ripulite e ammosciate. Magari ‘sto giro riusciamo ad evitarci le sbrodolate su quanto è punk, ma visto che il paradigma di trasgressività ed eccesso nostrani sono i Maneskin non posso escludere nulla. Non fa cagarissimo, però.

6) Dove Si Balla, di Dargen D’Amico
LA CASSA DRITTA A SANREMO. Ti amo Dargen. “Ma vai a capire perchè si vive se non si balla” questo gioca un altro sport, testo perfetto per il contesto e sparato in faccia con un fucile che fa PAPARARA-PARARA-PA-PA. Fatelo vincere.

7) farfalle, di sangiovanni
Guarda che alternativo, questo non mette le maiuscole manco quando servono e per questo quasi quasi lo prendo in simpatia. Mi sbilancio e ci vedo la CdS™ travestita da ragazzino, un po’ come il meme di Steve Buscemi con lo skate. Fa cagare, ma almeno ha un suo senso logico.

8) Ti amo non lo so dire, di Noemi
Qui invece è CdS™ al 100% e quindi al momento per me la conta è 4/8. Se la media tiene, siamo tornati a livelli che non si vedevano da un po’. Sì, la statisticha è più interessante di quel che sto ascoltando. Sorry Noemi, ma è un po’ troppo anche per te ‘sta roba.

9) Perfetta Così, di Aka 7even
Io questo non ho idea di chi sia e fino al ritornello avrei detto: “ma sì dai, ci sta” invece poi diventa una monnezza. Amen. Ma senza Sanremo uscirebbero pezzi del genere? Seriamente dico.

10) Ovunque Sarai, di Irama
Forse LA CdS™ più CdS™ fino ad ora e questo non è e non sarà mai un pregio musicalmente parlando. Ci sta mettendo un po’ troppo ad aprirsi, però, e inizio ad avere paura che Irama stia soffrendo di un qualche dolore lancinante decisamente più fisico che emotivo. Forse con un brufen in corpo veniva meglio.

11) Inverno dei fiori, di Michele Bravi
Questo, poraccio, mi fa una tenerezza infinita. Qui piazza un anonimissima CdS™ che davvero non ha nessun motivo per farsi commentare o ricordare, ma non me la sento di accanirmi per quello che dicevo all’inizio, quindi approfitto per spingere l’unico pezzo di Michele Bravi che merita: I Puffi sanno con Cristina D’Avena.

12) Miele, di Giusy Ferreri
Per me sì, daje Giusy. Fiero di averti messa in squadra al fanta.

13) Ogni Volta E’ Così, di Emma
Scolliniamo nella seconda metà della scaletta. Altra testa di serie che gioca sul sicuro della CdS™ però non so come dire, mi sembra quella a cui calzi meglio in termini ti target e resa. E’ una lagna eh, mica lo nego.

14) CHIMICA, di Ditonellapiaga e Donatella Rettore
Altra cassa dritta, ennesimo tentativo di cavalcare il trend “scongeliamo una mummia e facciamoci un pezzo caciarone”. Boh, non è che sia tremendissima, ma nel suo campionato mi pare non tenga il passo. Il bridge è carino, ma lo hanno buttato al cesso con quel che viene dopo.

15) Duecentomila ore, di Anna Mena
Non è il Festivalbar zia. Almeno 3 mesi in anticipo per un pezzo con Cuba Libre nel testo, fa l’effetto delle luminarie di Natale a ottobre. Indifendibile.

16) Sei tu, di Fabrizio Moro
Altra CdS™. La migliore fin qui? Ma sì dai. Potrebbe essere una cover, quindi direi che è perfetta.

17) SESSO OCCASIONALE, di Tananai
Il TITOLO TRASGRESSIVO come selling point mi fa sempre effetto poverata. Il pezzo non saprei, è certamente roba che mai nella vita, ma forse è meno peggio di tanta roba che circola. Il testo mi fa un po’ effetto GAMBEdiBURRO, non me ne vogliano le stese. Forse non lo insulto per quello.

18) Virale, di Matteo Romano
Mi dicono che questo arriva da Tik Tok e ci sarà pure un motivo se non ho un account su Tik Tok e piuttosto che farmene uno mi farei mangiare dai cani. Non skippo a metà pezzo solo per senso del dovere.

19) Abbi cura di te, di Highsnob e Hu
Qui avevo una certa curiosità, lo ammetto. Mi sarei potuto aspettare qualunque cosa, ma un pezzo di Fedez da uno che è in causa con Fedez no. Poi ci mettono pure il carico della tipa che biascica, che se c’è un trend del rap/trap che mi sta sul cazzo è proprio la tipa che biascica e il gioco è fatto. Terribile.

20) Apri tutte le porte, di Gianni Morandi
E’ partita e per i primi 10, 15 secondi ho pensato: “Ma perchè mi parte la pubblicità che sono abbonato Spotify Premium?”. Ecco, diciamo che poi non migliora.

21) Tuo padre, mia madre, Lucia, di Giovanni Truppi
Questo me lo hanno spinto in tanti, lo approccio da iper ignorante. Sanremo meets IL CANTAUTORATO. Capisco perchè goda di credito, cioè no, non lo capisco, ma non voglio star qui a fare pistolotti a nessuno. Not my cup of tea può andare come commento? Dai, accendiamolo. Però il pezzo dovrebbe anche finire che, voglio dire, è durato pure troppo.

22) Tantissimo, di Le Vibrazioni
Sono volato su Marte. Davvero.

23) ORA E QUI, di Yuman
Non ho cazzi di verificare, ma sembrerebbe la prima CdS™ in CAPSLOCK. Al netto del valore musicale, questa cosa di Zarrillo di reinventarsi con un nuovo nickname, all’età che ha, andrebbe apprezzata.

24) Lettera di là del mare, di Massimo Ranieri
Sto ancora ascoltando Yuman, quindi cazzeggio un secondo sperando di distrarmi. Ma che cazzo vuol dire Lettera di là del mare? Va beh. Ecco che inizia, direi CdS™ anche questa. A me interessa solo se ad una certa attacca a gridare stile PERDERE l’AMORE, apice dello screamo italiano. ECCOLOOOH. Direi non un pezzo indimenticabile, ma meglio di metà buona della roba sentita fin qui.

23) Voglio amarti, di Iva Zanicchi
Iva la chiude con l’ultima CdS™ (NdM: il conto dice 11/25, sconfitta anche quest’anno), ma c’è qualcosa che non funziona. Boh. Mi pare che il suo stile di canto non c’entri nulla con la produzione della base, non so come dire, mi sembra un mashup. Uno strazio di mashup, ma non credo fosse lecito avere aspettative su Iva Zanicchi dai. L’ho presa al Fantasanremo, ma solo nella speranza di portare a casa il bonus IVA AL 22.