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Concerti

Esperienza totale

Prendete una spiaggia.
Sì, lo so, non ho mai scritto un post rivolgendomi direttamente a chi legge, però questa sera va così quindi non fate i pignoli e fate quel che dico.
Prendete una spiaggia di notte con un bel falò acceso e le stelle che brillano in cielo.
Mettete duecento, trecento amici intorno a quel fuoco. Chissenefrega se non avete abbastanza amici, fate conto di averceli e metteteli tutti intorno al fuoco con una birra in mano. A questo punto prendete tre chitarre e datele a tre di questi vostri amici d’infanzia che, fortuna vuole, sono anche musicisti che in qualche modo hanno segnato la vostra vita e dite loro di suonare i pezzi più significativi della vostra gioventù in modo che tutti si possa cantare insieme.
Ok, riuscite ad immaginare una situazione di questo tipo?
Io sì, perchè l’ho vissuta questa sera.
Niente spiaggia, purtoppo, ma un freddo localino imboscato nel quartiere di Colonia dove vivo. Roba che ci ho messo una buona mezzoretta a trovarlo, il posto, ma alla fine l’ho reputato veramente carino. Prendete uno di quei bar americani con le freccette, il biliardo, il casino e la cappa di fumo. Metteteci poster di band alle pareti ed una porta che da su uno stanzino con un palco in cui possono entrare per l’appunto circa trecento persone. Ecco, l’Underground di Colonia è così. Una roba che a Milano ce la sognamo e non solo per il divieto di fumo nei locali pubblici.
Ad ogni modo in questo piccolo locale questa sera è avvenuto qualcosa di magico perchè, non scherzo, sembrava veramente di essere in mezzo a gente che si conosce da sempre. Sarà che ero da solo e ho conosciuto più gente che in una vita di concerti “single palyer” in Italia, sarà che l’età media era esattamente la mia, sarà che per tutti i presenti andava in scena a grandi linee la colonna sonora della propria vita, ma non mi ero mai sentito così parte di un qualcosa ad un concerto.
Lo so, fa ridere, ma è così.
Mi rendo conto di non aver ancora precisato quale concerto ho visto sta sera.
Si trattava di Jon Snodgrass + Tony Sly + Joey Cape, tutti in versione rigorosamente acustica.
Non sapendo bene come funzionano le cose da queste parti ed essendo io senza biglietto, ho deciso di recarmi in loco con largo anticipo. Arrivato sul posto nel locale non c’è nessuno, tranne i tre showman impegnati nel soundcheck, così entro e mi sento un paio di pezzi in anteprima prima che Joey Cape venga da me a fare due chiacchiere e chiedermi poi dov’è il bagno. Quando realizza che non sono dello staff ride molto. Rido anche io, e ride anche il tipo al mixer che però poi mi chiede di uscire.
Il set vero e proprio inizia dieci minuti dopo le otto e sul palco ci sono tutti e tre gli artisti per suonare insieme i primi tre pezzi, uno dal repertorio di ciascuno. In realtà Joey Cape ne suonerà due perchè durante “Fatal Flu” Jon rompe una corda, la prima di una lunga serie, ma come appare chiaro si tratta di un fuori programma. Anche di questi ultimi sarà costellata la serata. In ogni caso avvio col botto, tra battute e dialoghi col pubblico che definire esilaranti è poco.
Personalmente non conoscevo Jon Snodgrass, nè gli Armchair Martian nè tantomeno i Drag the River (ok, shame on me). Tuttavia il suo set è fantastico. I pezzi voce e chitarra emozionano davvero e lui è un personaggio geniale, ma geniale sul serio. Esegue praticamente solo canzoni a richiesta, almeno finchè le richieste arrivano, ed alla fine cede il posto a Tony Sly. Non che se ne vada, smette semplicemente di suonare per dedicarsi a fare filmati con la sua compatta digitale. La gente apprezza e anche Tony Sly: “Jon is always great. In his set and even in mine.”
La scaletta del leader dei No Use for a Name non la commento neanche, perchè si parla di uno che ha nel plettro più singoli di Vasco e che quindi da dove pesca pesca sicuro. Il clima è fantastico, roba che ad un certo punto TS chiede ad uno del pubblico di aprirgli una birra, per capirci. Esegue anche tre di pezzi dall’album in uscita, quello da solista in acustico che è in giro a presentare. Il primo è molto simile a qualcosa dell’ultimo album NUFAN, il secondo è bellissimo ed il terzo serve a richiamare sul palco Joey Cape che nel disco canta metà della canzone. Questa sera però JC pare proprio non ricordare di cosa si tratti e così, dope due tentativi a vuoto tra le risate generali, Tony Sly lascia il palco.
A differenza del predecessore, il frontman di Lagwagon e Bad Astronaut decide di proporre diversi pezzi della sua carriera da solista, molti dei quali dedicati all’amico scomparso Derrik Plourde. L’atmosfera è carica di emozione e porta Joey ariflettere su come non sia facile essere allegri quando la maggior parte dei propri pezzi parla di suicidio. Per ri-alleggerire l’ambiente decide così di suonare “Beard of shame”, fermandosi nel ponte strumentale per ammettere di non avere mai avuto la necessità di imparare a suonare quella parte. Ormai il tutto procede da due ore abbondanti ed è quindi il caso di portare al termine la serata.
Sul palco tornano i due colleghi per suonare gli ultimi pezzi, ancora una volta pescandone uno per ognuno. La conclusione del tutto è affidata alla cover di “Linoleum” ed è l’apice di una serata spettacolare.
Almeno, vivendolo credevo fosse l’apice.
Poi è successo che i tre se ne sono andati e che la folla li ha osannati per diversi minuti buoni, fino a farli rientrare per un bis che sembrava del tutto imprevisto.
Scelgono un’altra cover: “Boxcar” dei Jawbreaker.
Jon vorrebbe suonare, ma anche filmare con la sua compattina e quindi chiede a uno del pubblico se può riprendere al posto suo. Questo accetta ed il pezzo parte a coronare il reale apice della serata.
Probabilmente questo racconto è orfano di diversi aneddoti che varrebbe la pena ricordare, ma ora sono un po’ stanco e quindi va bene così.
Esperienza totale.
Senza scherzi, credo sia stato il più bel concerto della mia vita.

Inconsuetudine

Il primo concerto dell’anno è stato una piacevolissima sorpresa.
Fine Before You Came + Minnie’s @ Bloom di Mezzago.
In una parola: figo.
Usandone di più ho scritto un report.
Qui, di conseguenza, non mi dilungo.
Bello il posto, bella la gente, bella la compagnia, bello lo show.
Disgustosa la birra, ma come ho avuto modo di comprendere ieri sera non va mai “tutto” bene.

Nota: aggiornata la sezione musica.

Il 2009 di Manq

Fine anno, tempo di classifiche.
Come di consueto cercherò di prodigarmi nel tentativo vano di selezionare il meglio ed il peggio che quest’anno che sta per chiudersi ha offerto, circoscrivendo la cosa a quei due o tre ambiti che mi preme e soprattutto che posso permettermi di trattare.
Va detto che mai ho avuto tante difficoltà nell’assegnare le posizioni, sia per la presenza di molte opere meritevoli, sia per il fatto che negli ultimi dodici mesi ho veramente visto/sentito/letto molte cose.
Quello che si avvia alla conclusione è stato anche un anno notevole a livello personale, ricco di avvenimenti che in un modo o nell’altro segneranno per sempre la mia vita, ma come al solito riassumere quanto ho vissuto in una pagina del mio diario, che ciò che vivo lo racconta “in diretta”, è un’operazione che ai miei occhi non spicca per utilità. Ecco perchè non lo farò.
Partirò subito con le classifiche invece, che per la prima volta saranno seguite da una breve “spiega” volta a motivare le mie scelte.

Miglior disco
1° Thrice – Beggars
2° Biffy Clyro – Only revolutions
3° Minnie’s – L’esercizio delle distanze
spiega: premio “Beggars” perchè è il disco che non ti aspetti e quindi che apprezzi ancora di più. Questo non toglie che sia anche un capolavoro, ma a mio avviso lo è pure il nuovo Biffy Clyro, quindi per il primato serviva qualcosa in più. Più o meno per le stesse ragioni sego i Brend New, perchè mi aspettavo un capolavoro che non è arrivato. In onestà “Daisy” sarebbe probabilmente nella mia top 3 se fosse stato scritto da altri. Al posto suo ci finiscono i Minnie’s che, semplicemente, una volta ascoltati non ho più tolto dall’auto. Era Maggio. E se dopo aver ascoltato “Milano è peggio” qualcuno avesse ancora da ridire, beh, s’inculi.

Peggior disco
1° Nofx – Coaster
2° 30 Seconds to Mars – This is war
3° Taking Back Sunday – New Again
spiega: primo posto indiscusso per i Nofx che commento citando le pagelle di Giorgio Terruzzi ai tempi di Grand Prix: “Un campione del mondo non si comporta così”. Il disco dei 30StM è ovviamente gran peggio di “Coaster”, tuttavia non ero nemmeno certo di volerlo inserire in classifica. Non avrei proprio dovuto ascoltarlo, inutile lamentarsi dopo. Preciso che, nonostante i fiumi di parole ingiuriose da me spesi su questo blog, “Artwork” dei The Used non è tra i peggiori dischi perchè, pur essendo una maxi cagata, io lo adoro. Letteralmente.

Miglior concerto
1° Biffy Clyro @ Tunnel (Milano)
2° The Get Up Kids @ Estragon (Bologna)
3° All-American Rejects @ Musicdrome (Milano)
spiega: le prime due posizioni hanno una duplice spiegazione. La prima è che i GuK non potevano sperare di vincere non suonando “Forgive & Forget” dopo che mi sono sparato 200km per sentirla. La seconda è che mi sentivo di aver già parzialmente derubato i Biffy Clyro nella sezione dischi. Però anche solo il fatto di essere tornato al Tunnel dopo secoli vale la scelta. Ho segato il set dei Thursday di Bologna perchè, pur essendo ancora convinto abbiano fatto il live perfetto, rivisti a Milano mesi dopo non hanno ripetuto l’opera, anzi, hanno deluso. Se i GuK nonostante lo smacco sono finiti in classifica, non mostro alcuna pietà per Kris Roe. Invece di “Broken Promise Ring” hai suonato “Boys of Summer”. Vergongati!

Peggior concerto
1° Alkaline Trio @ Rolling Stone (Milano)
2° Green Day @ Datch Forum (Milano)
3° Escape the fate @ Estragon (Bologna)
spiega: la prima posizione va da se, trattandosi di una band incapace di suonare dal vivo. Per quel che riguarda i Green Day il giudizio è sulla prova on stage, perchè non si discute sia stata una delle serate più belle e divertenti di questo 2009. In merito agli Escape the Fate dico solo che sono stati in ballottaggio con i Lost e che hanno vinto perchè: 1- i Lost li ho mollati dopo tre canzoni 2- gli EtF se la menavano di più.

Miglior film
1° Inglorious basterds
2° Gran Torino
3° Watchmen
spiega: onestamente credo ci sia poco da spiegare. Watchmen appartiene ad una categoria di film che solitamente non apprezzo e, oltretutto, è lento da morire. Però non premiare una pellicola con una colonna sonora del genere, con una trama del genere ed una realizzazione del genere secondo me sarebbe stato a dir poco ingiusto.

Peggior film
1° New moon
2° Transformer 2
3° Outlander – L’ultimo vichingo
spiega: in condizioni normali District 9 avrebbe vinto a mani basse, ma di fronte ai fuoriclasse bisogna saper chinare il capo.

Miglior Libro
1° Il Mercante in Fiera – L. Scarpetta
2° Herry Potter (saga) – J.K. Rowling
3° L’assassino che è in me – J. Thompson
spiega: sento di dover precisare solo l’inserimento della saga del maghetto di Hogwarts in classifica perchè sui sette libri sono più le pagine discutibili di quelle buone. Molte di più. Però alla fine mi è piaciuto parecchio e quindi chi se ne incula. Ora sto leggendo “Il Potere del Cane” di D. Winslow e non avendolo ancora finito ho dovuto estrometterlo dalla classifica. Al momento però, con 500 pagine lette su 700, caga in testa a tutti e tre i premiati. La spiega più grezza dedicata al capitolo letteratura mi riempie di orgoglio.

Peggior libro
1° Uomini che odiano le donne – S. Larsson
2° La mano sinistra di Dio – J. Lindsay
3° La solitudine dei numeri primi – P. Giordano
spiega: il primo è un polpettone infinito privo del benchè minimo mordente. Il secondo è una cagata colossale da cui, inspiegabilmente, hanno tratto un telefilm favoloso. Il terzo è il libro con i personaggi più odiosi della storia. Direi che ho motivato a sufficienza.

Miglior serie TV
Scrubs – VIII serie
spiega: decisione ultrasofferta. Quest’anno infatti ho scoperto Boris e Californication, per fare due nomi che potrebbero ampiamente meritare il premio. Ho votato col cuore.

Peggior serie TV
Dexter – II serie
spiega: sottotitolo del Manq al cofanetto: “Come gettare in merda una roba figa.”

Miglior concerto dell’anno?

Mentre il Milan perde a Zurigo, provo a raccontare il concerto che ho visto ieri sera.
Che Biffy Clyro dal vivo fosse l’evento che aspettavo per questo 2009 credo non ci siano sorprese per nessuno. Ho rotto il cazzo a chiunque nell’idea di promuovere la cosa ed il motivo è uno solo: ero sicuro che fossero dei fighi.
Non mi sbagliavo.
Hanno suonato più di un’ora filata, senza pause, senza fronzoli, con una potenza inaudita. Veramente inaudita. Tipo che cambiavano una chitarra a pezzo, credo più che altro perchè alla fine sarebbe stata da riaccordare da capo. Parafrasando Checco: “Erano in tre e sembrava suonassero in trenta”.
Impressionanti.
Il concerto è stato spostato al Tunnel all’ultimo momento, causa chiusura improvvisa del Musicdrome, e la cosa ha portato innumerevoli vantaggi. Acustica meravigliosa, posto che sembra costruito per contenere esattamente la gente che ha deciso di presenziare e palco minuscolo che da l’impressione di avere i gruppi che ti suonino in braccio. Tutto esageratamente anni novanta, esattamente come l’audience.
Come sarebbe stato l’andazzo lo si capisce subito, da quando attaccano con “The golden rule” e siamo tutti investiti da un muro di chitarra di puro granito. Lui sale già a torso nudo, come dichiarazione di intenti, e suona tanto preciso nel pulito quanto sporco nel distorto, ricreando in una maniera totalmente nuova le stesse suggestioni che si trovano su disco.
“Justboy” dal vivo è qualcosa che va oltre il bello.
Alla fine, quando io non avrei avuto più nulla da chiedere alla scaletta se non una a dir poco improbabile “Christopher’s River”, dicono che devono smettere perchè il locale vuole chiudere. Aggiungono che avrebbero suonato volentieri anche più a lungo, ma che proprio non è possibile. Ed è per quello che fanno tutto il concerto di filato, senza quasi una parola, senza la classica pausa ed i conseguenti bis. Tutto ottimizzato per suonare più pezzi possibile. Anche solo per questo si dimostrano idoli assoluti, con un sonoro vaffanculo alla solita deprecabile gestione dei concerti da parte dei locali di Milano.
Suonano 21 pezzi, che riporto in rigoroso ordine sparso: Justboy, 57, Glitter and Trauma, There’s no such Thing as a Jaggy Snake, Living is a Problem Because Everything Dies, Who’s Got a Match, A Whole Child Ago, Now I’m Everyone, Semi-mental, Love has a Diameter, Get Fucked Stud, 9/15th, Machines, The Captein, The Golden Rule, Bubbles, God & Satan, Born on a Horse, Mountains, Many of Horror e Cloud of Stink.
Tanta roba, veramente tanta roba.
A fronte di tutto questo è doveroso riflettere su molti dei concerti a cui si assiste.
Tempo fa si parlava di attitudine, di ciò che rende grande un gruppo. Beh, suonare per la gente e non per i soldi secondo me è la cosa che sta in cima alla lista e quello che hanno fatto i Biffy Clyro ieri sera è proprio quello.
Si sono fatti il culo e nel farlo hanno spaccato i culi altrui.
Punto.
Tutti a casa.
Sull’onda del pareggio del Milan, ma sopratutto del terzo gol del Bayern a Torino spendo due parole per il gruppo spalla.
Si tratta dei People in Planes, dal Galles.
Suonano solo cinque pezzi perchè il tempo stringe, ma sono pezzi di ottima fattura.
Ero indeciso se comprare o meno il loro disco e alla fine ho lasciato perdere, ma oggi me lo sono procurato col mulo.
Vanno valutati e solitamente non mi sottraggo mai a questo tipo di dovere.
Vedremo.
Chiudo qui, ribadendo un concetto ormai tragicamente ricorrente: a Milano stanno uccidendo la musica.

I am hoping, through the dark clouds, light shall break and bring a bright sky…

Avere trent’anni

La Polly ci teneva proprio a vedere i Green Day dal vivo. Io sono un moroso come si deve e quindi ce l’ho portata, sfruttando ancora una volta le mie conoscenze altolocate. Ci ho portato anche Ciccio, perchè so che a queste cose ci tiene e già che c’ero ho tirato in mezzo anche Marco e Carlo che quando c’è da essere anni novanta son sempre presenti.
Si parte per il forum dopo il lavoro, Ciccio arriva in giacca e cravatta (una Ferragamo coi cuoricini di cui si bullerà per tutta la sera), parcheggiamo nel parcheggio a pagamento e nessuno di noi tre (Marco, Carlo e i loro amici li abbiamo incontrati dentro) ha mai sentito il nuovo disco. Viene quindi facile il totale perpendicolarsimo (my own personal contrario di parallelismo) con il concerto anni novanta.
All’interno del forum ci sono proprio tutti, dai ragazzini con i genitori, ai meno giovani nostalgici fino agli anziani. Ci sono anche diversi VIPs come il cantante dei Lost e Ringo, il DJ di Virgin Radio, da cui vengo inviato affanculo dopo una gag molto divertente che tuttavia perde molto del suo fascino se raccontata per iscritto.
Aprono il set i Prima Donna, gruppo abominevole riguardo al quale non spenderò ulteriori parole.
Io e Ciccio decidiamo di approcciare l’evento con l’attitudine punk di un tempo e così, dopo una salamella ed un rustichella, io perdo in fretta il conto delle birre. Entrambi sappiamo che le nostre speranze di sentire “Haushinka” e “Church on Sunday” verranno frustrate ancora una volta, però Ciccio si sente particolarmente parte della scena e non mi consente di esprimere qualsivoglia dubbio sulla tenuta artistica della band.
Il concerto vero inizia alle 20.38.
La scenografia è eclatante, il palco è immenso e ci sono pure i fuochi artificiali. Attaccano con pezzi dal nuovo album e sul palco ci sono altre due chitarre, una in vista ed una nascosta, più una tastiera. Billy Joe ha la chitarra, ma probabilmente non la suona. Io e ciccio, sempre più punk, decidiamo di riutilizzare uno scontrino che non ci è stato ritirato e prendere altre birre.
A fare i primi tre pezzi ci impiegano 25 minuti. Non essendo i Dream Theater è chiaro che qualcosa non va, ma alla gente sembra piacere particolarmente il momento “Ehhhhhh-Ohhhhhh” e quindi intorno a noi è puro visibilio.
A quasi un’ora dall’inizio Billy Joe attacca con le prime cover, buttate lì a piccoli assaggi per infoiare la gente. Nell’arco della serata ci sarà spazio per tutti, dai Nirvana agli AC/DC, dai Guns a David Bowie, dai Beatles fino agli Oasis, anche se credo che quest’ultimo caso non fosse voluto visto che l’intro di chitarra su cui abbiamo cantato “Wanderwall” era l’intro di “Boulevard of Broken Dreams”. Nel dubbio Ciccio dichiara che il pezzo è orribile e va a pisciare, tornando con una nuova birra. Io lo seguo a ruota.
A più di un’ora dal calcio d’inizio la ciurma inizia a manifestare disagio per via di una scaletta un po’ troppo new wave. I ragazzi sul palco se ne accorgono ed inizia il momento revival. Entra la storica chitarra con gli adesivi, la scenografia si fa minimal ed io inizio a sentire l’adrenalina salire, spinta probabilmente dall’alchol. Da qui i ricordi e le sensazioni si fanno un po’ confusi, ma spero di riuscire a renderli per benino.
Attaccano con “2000 Light Years Away”, che non è “Going to Pasalacqua”, ma che comunque accende gli spiriti. Io tiro a basso in un sorso ciò che resta dell’ennesima birra, per evitare di rovesciarla di li a poco. Nel parterre la gente smette di ballare e agitare le mani. Ciccio mi indica una tipa e grida: “AHAHAH, la figa ha smesso di ballare!!!”. Risate.
Segue “Hitchin a Ride”, il gruppo si compatta e avanza di qualche metro. L’atmosfera viene però distrutta da dieci minuti di “Ehhhhh-Ohhhhhh” e “I need only one, two, one, two, three, four!”. Io dichiaro che se fanno una roba del genere su un pezzo di quelli seri gli tiro le vans e torno a casa in calze.
All’improvviso, senza neanche chiudere il pezzo, parte “When I come Around”. Io perdo il cappellino per la prima volta. Si parte verso il palco, cantando come ragazzini. Si salta, qualcuno cade, nonostante non ci sia neanche l’ombra di quel che una volta era definito “pogo”. A fine pezzo ho il fiatone e ritorno dagli altri.
Parte “Welcome to Paradise” e si ritorna in mezzo, con più cattivria. Un piccolo pogo si crea e io e Ciccio ci buttiamo dentro ridendo come idioti. Dopo pochi scondi Ciccio mi guarda e dice: “Che pogo da froci”. Altre risate.
Sono quasi spaesato, le cose capitano intorno a me e io le subisco in preda a quella sensazione di benessere suscitata solo dai concerti d’una volta.
Durante “Brain Stew” è ormai delirio. Ciccio chiede in giro se c’è qualcuno che gli passa la versione di latino, io sostengo che “Brain Stew la suonavamo anche noi”, conscio del fatto che ciò che noi suonavamo avava solo la pretesa di essere quella canzone.
Parte “Jaded” ed io perdo il controllo del mio corpo.
Si tira di nuovo il fiato per “Longview”, aiutati dal fatto che vengano chiamati a cantare personaggi improponibili dal pubblico. Si canta tutti insieme, desiderando di uccidere la malcapitata ragazza sarda che si sta umiliando di fronte ad un pubblico non proprio ridotto. E’ una festa, con tanto di immancabili e tristissime pistole d’acqua per innaffiare un pubblico che forse un tempo ai concerti sudava, ma che oggi risulta più che altro seccato.
Il tutto pare essere vicino alla conclusione e per un attimo torno semi lucido, ma è un istante.
“Basket Case” è il degenero.
“She” è il colpo di grazia. Io vivo esperienze extracorporee e grido frasi senza senso, tra cui “Se ci sposiamo in chiesa voglio questa canzone” rivolto ad una Polly attonita. Ciccio è altrettanto adeso alla realtà e mi dice fiero di aver toccato le tette prima ad una ragazzina e poi a sua madre. Il momento è di quelli che ne vivi pochi.
Poi tutto torna pian piano alla realtà. Il concerto torna nella sua fase mainstream, l’alchol inizia ad abbandonare le mie sinapsi e l’effetto è quello di una piacevole dissolvenza fatta di botti, coreografie e coriandoli.
In questo stato passano gli ultimi pezzi e i bis, fino alla chiusura che tutti temono. Billy Joe afferra una chitarra acustica e prende il centro del palco. Ciccio mi dice che a quel punto o fa “Time of your Life” o fa “Albachiara”. Invece partono due ballatone presumibilmente estratte dagli ultimi dischi, la gente accende gli accendini, Ciccio accende una sigaretta ed io guardo l’orologio.
Siamo sulla soglia delle due ore e mezza di concerto ed io rifletto sul fatto che, si può dire quel che si vuole, ma va riconosciuto che a tirare in piedi uno show del genere partendo da tre accordi non sono stati in molti, nella storia.
Arriva il momento di “Time of your life” che non è più “Good Riddance” da almeno dieci anni e tutti sono contenti.
Le ragazzine piangono, i genitori pure.
Io ricordo la conclusione del concerto del 1997, ricordo che sono passati 12 anni e che vado per i trenta e a Billy Joe che mi dice “I hope you had the time of your life” rispondo: “I had, Billy. It was 1997”.

Nota: aggiornata la sezione “musica”.

Primo tentativo a vuoto

Ieri sera avrei dovuto intervistare i Poison the Well prima della data di Milano.
Non l’ho fatto.
In realtà non me l’hanno permesso, perchè non risultavo tra gli accreditati. La cosa oggi mi spiace più che altro per la possibilità sfumata di fare una cosa che sogno da sempre. Ieri invece ero seriamente incazzato perchè 1) per l’intervista sono arrivato sul posto alle 19 e siccome ero da solo starmene lì a far nulla fino all’inizio del live non è stato piacevole e 2) mi fa abbastanza girare il culo essere preso in giro. Nessuno costringe nessuno a rilasciare interviste. Io collaboro con una webzine per pura passione e, ovviamente, non me ne viene in tasca nulla. Non scrivo per Alternative Press, non paghiamo per le interviste e non faccio questo di lavoro. Per arrivare puntuale all’appuntamento ieri ho iniziato a lavorare un’ora prima per poter uscire per tempo ed arrivare all’orario stabilito e mi sono sparato un’ora di coda per raggiungere un locale in zona S.Siro la sera di Milan-Real. Arrivato in loco ho pagato il biglietto. Una persona che è disposta a fare tutto questo per la passione che coltiva non merita di essere presa per il culo da quale che sia agente/manager/cazzaro di quale che sia etichetta. E’ questione di rispetto.
Nonostante questo piccolo inconveniente il concerto me lo sono goduto. Un resoconto dettagliato della cosa lo scriverò per Groovebox nei prossimi giorni, quindi non mi ci dilungo sopra anche qui. Dico solo che i Poison the well dal vivo sono un’esperienza da fare.
“Nerdy” dal vivo è un’esperienza da fare.
Buoni anche i Thursday, sebbene non ai livelli di Bologna.
I Rise Against li ho saltati a piedi pari. Già visti, mi è bastato.
E poi io da giovane ho visto l’originale.

Something to write on blog about (plagio inconsapevole).

La mia nuova avventura di giornalista musicale al momento mi sta dando alcune soddisfazioni.
In settimana è infatti uscito su Groovebox il mio report sul live dei Get Up Kids @ Estragon.
Scrivere per una webzine tuttavia sta un po’ togliendo spazio a questo blog, perchè stendere due volte un pezzo che parla dello stesso evento è decisamente poco motivante. In un report scritto perchè qualcuno lo legga e non allo scopo di immortalare dei ricordi personali non trovo però giusto lasciare troppo spazio alle mie percezioni e quindi tento di attenermi al dovere di cronaca.
Il dilemma di conseguenza è che se scrivessi qui sopra del concerto, con tutta probabilità non ne uscirebbe una pagina come quella linkata in alto. Su questa pagina ci sarebbe ampio spazio per la bella sensazione provata nell’andare a Bologna finalmente in compagnia. Ci sarebbero delle menzioni d’onore a Marco e Carlo che si sono sparati insieme a me la trasferta, ma anche al BU e a Dietnam incontrati sul posto. Ci sarebbe un ampia cronaca della cena argentina fatta prima del live approfittando dei vari stand multietnici della Festa dell’Unità bolognese (che, per inciso, è veramente figa). Parlerei a lungo di come non ci abbiano serviti per quaranta minuti abbondanti, per poi mettersi una mano sul cuore una volta saputo che saremmo dovuti andare ad un concerto che iniziava circa 20 minuti dopo facendoci ingurgitare paella e grigliata mista di carne praticamente con l’imbuto.
Menzionerei la delusione nel non aver trovato una maglietta decente al banchetto, cosa a cui tenevo parecchio perchè i Get Up Kids live sono un evento che merita un cimelio.
Parlerei più o meno nello stesso modo dei The Briggs, ma sicuramente aggiungerei molto della diatriba animata avuta col bell’uomo sul loro essere simili o dissimili ai Dropkick Murphys.
E poi scriverei della performance dei ragazzi del Kansas, ma senza dedicare troppe righe alle scalette o alla risposta del pubblico. Parlerei soprattutto della mia risposta, la risposta di uno che la speranza di vederli dal vivo l’aveva abbandonata tanto tempo fa.
La risposta di uno che li adora per “Something to write home about” e che del resto si è sempre curato poco.
Uno che su “Action & Action” ha perso probabilmente la voce.
Uno che si è commosso su “Valentine” e “Out of Reach”.
Insomma, uno come me.
Avrei scritto della voce incredibile di Matt Pryor e dello stile ipnotizzante di Ryan Pope alla batteria, ma quello forse l’ho scritto anche nel report.
Una cosa che però anche in un pezzo di cronaca sicuramente non mi sono sentito di omettere è stato il fantastico e al contempo tremendo salto negli anni novanta cui questo concerto mi ha sottoposto. E’ stato bello, per una volta, vedere gente della mia età sotto il palco e gente più vecchia di me sul palco. E’ stato bello essere contenti e fieri, a nostro modo, dell’essere parte di un’altra generazione. Perchè i Get Up Kids, a differenza di tutti i gruppi che continuo a seguire dai gloriosi anni novanta, sono rimasti fermi a dieci anni fa. Basta dischi (the guilt show non l’ho credo mai sentito), basta concerti, nessun tentativo di continuare a restare attuali. Ogni due anni vedo i Nofx su un palco e sembra che il tempo non sia trascorso. Loro sono si convincono e ci convincono di essere gli stessi e va bene così, perchè anche noi trentenni con gli shorts un po’ vogliamo credere di essere rimasti al liceo. E’ una sorta di tacito accordo che sta bene ad entrambe le parti.
Con i Get Up Kids però quest’illusione scompare di fronte ad una band visibilmente invecchiata, ad un audience visibilmente invecchiata e per nulla reinfoltita dalle nuove leve e ad una scaletta che, che tu lo voglia o meno, è lì per ricordarti che una decina d’anni fa eri giovane.
Forse anche per questo non mi sono sbattuto più di tanto nel tentativo di andare a vedere gli Offspring Mercoledì scorso.
Sarebbe stato troppo presto, troppo traumatico.
Alla fine è bello saper trovare la voglia ed il tempo per scrivere qualcosa di più di una semplice cronaca di un live.
Oltretutto pagine più intime mi permettono di sfogare il mio innato talento per i titoli osceni.

[NdM: ho realizzato solo ora che il BU ha intitolato un post sul suo blog praticamente nello stesso modo. In quel post oltretutto linka un terzo post in cui si gioca con lo stesso tema. Questo lascia spazio ad una considerazione: noi ex giovani abbiamo poca fantasia e tanto cattivo gusto. Ad ogni modo la correzione al titolo è dovuta a questo. Se penso che all’inizio avevo intitolato il post “I’m a journalist, Dottie. A reporter”…]

Comunicare

Quella di questa sera è stata una serata indubbiamente particolare.
Sarei dovuto andare a sentire i Seventy Times Seven a Vimercate ed invece, per varie ragioni, mi sono ritrovato a sentire i Lost a Carugate.
Sì, i Lost.
Ok, non ero lì per loro. Ero lì per i Minnie’s e perchè Bazzu mi ha chiesto di accompagnarlo a sentirli.
Bazzu, a dirla tutta, era convinto che i Lost suonassero di spalla ai Minnie’s e questo mix di genuinità e buonsenso mi ha subito conquistato. Ero curioso di rivedere i Minnie’s dopo il live semi-acustico di spalla a Kris Roe ed ero curioso di vederli con i pedalini accesi e i suoni distorti di conseguenza. Avrei voluto comprar loro il CD di “Un’estate al freddo”, ma ho scoperto che è andato esaurito. In compenso, dopo lo show, mi sono comprato il nuovo “Esercizio delle Distanze”. Questo perchè dopo averli brevemente conosciuti mi sono risultati simpatici e, soprattutto, perchè il loro set mi è piaciuto. Ora me lo sto ascoltando, mentre scrivo, e lo sto apprezzando. Di solito quando scrivo con un CD mai sentito in sottofondo, mi distraggo dall’ascolto e mi concentro sullo scrivere. In questo caso mi sta accadendo l’esatto opposto, segno sicuramente che il cantato in italiano coinvolge molto e che, soprattutto, il disco mi piace.
Dopo il set dei Minnie’s e l’acquisto del CD, io e Bazzu ci siamo concessi qualche pezzo dei Lost.
Abbastanza per dire che sono imbarazzanti.
Non che avessi dubbi, per carità, però vederli dal vivo è proprio rendersi conto che, parafrasando Bazzu, sono vuoti. Privi di qualsivoglia concetto da comunicare, oltre che della benchè minima voglia/capacità di suonare qualcosa di decoroso.
Penosi.
E penose le ragazzine che strillano. Non tanto perchè strillano ad una band, perchè quello è doveroso che le ragazzine lo facciano, ma perchè sono riusciti a far loro credere di essere diverse da quelle che strillano per Marco Carta.
E’ brutto quando ti privano di personalità convincendoti che nel farlo, in realtà, te ne stiano dando una.
Stop alle digressioni.
Stando a quanto ho scritto fino ad ora però, non c’è motivo perchè io definisca “particolare” questa serata.
Invece alla rotonda dell’Euromercato, tornando a casa, ci imbattiamo nel bassista dei Minnie’s che fa l’autostop.
Ovviamente lo raccattiamo.
Era incazzato.
Nel discutere del perchè lo fosse mi ha dato, personalmente, un grandissimo spunto di riflessione.
Era arrabbiato perchè la sua band, a suo dire, non aveva colto l’occasione di dire qualcosa alle ragazzine presenti, di far passare un messaggio. Il suo punto era che se decidi di suonare davanti a bambine che non sono lì per te, ma che sono il prodotto di una certa omologazione, E’ TUO DOVERE far passare un messaggio. Non farle contente, per quello ci sarà tempo quando arriverà la loro band del cuore, ma comunicare qualcosa. Questo perchè se anche solo poche di quelle ragazzine recepiscono ciò che stai dicendo, hai già cambiato un po’ le cose. Sempre parafrasando, secondo lui è facile far passare certi messaggi al Conchetta o al Leonkavallo, ma lì si sta solo facendo il proprio compitino, senza in realtà essere utili. Chi ti ascolta in quei contesti il tuo pensiero l’ha già recepito. E’ di fronte ad un pubblico come quello di sta sera, invece, che è importante far capire ciò che si è e ciò per cui si suona.
L’idea, ciò che differenzia una band che per suonare a Carugate prende 300 euro da una che ne prende 6000.
Altrimenti, tanto vale mettersi a suonare per i soldi.
Io non so bene cosa avrebbero potuto fare o dire di diverso, questa sera, per perseguire meglio questo proposito.
Ma, cazzo, questo ragionamento mi ha profondamente colpito.
E lo condivido al 1000%.
Ok, il CD è finito ed anche questo post.
Sicuramente i Minnie’s saranno sul mio “CD delle vacanze”.
Resta da decidere con che traccia.

Give it a name

Lo dico subito: per una volta, la prima volta forse, è valsa la pena di farsi lo sbattimento.
Alla luce dei fatti quindi posso smetterla di darmi del coglione poichè non è vero che un festival con diverse band di questo tipo debba forzatamente venire fuori una merda.
Un festival di questo tipo può anche venire bene, con dei buoni suoni e delle buone performance.
Questo inevitabilmente aggrava molto i giudizi (peraltro già non fantasmagorici) sulle manifestazioni precedenti, ma almeno mi dimostra che crederci e partire per un concerto alla distanza complessiva di 450 km non è una pirlata a priori.
Ok, questa pera di autoconvinzione era doverosa, ora posso commentare il concerto.
Give it a name II @ Estragon (Bologna).
Taking Back Sunday, Underøath, Thursday, Escape the Fate, Emery, InnerPartySystem e Your Hero.
30 sacchi di ingresso (senza prevendita), 23 di casello, 40 di benzina e 5 di piada del voncione con annessa acqua.
Ok, la riga qui sopra cozza un po’ col mio tentativo di smetterla di darmi del pirla, but who cares?
Sono partito da Milano alle 16 in punto sperando di evitare il traffico qui e possibilmente anche quello sulla tangenziale bolognese. Il piano può dirsi riuscito poichè anche a destinazione non ho praticamente mai fatto coda e così alle 17.50 ero già in fila alla biglietteria dell’Estragon.
Viaggiare da solo in macchina per qualche ora è sempre una bella esperienza. Musica in sottofondo, strada sgombra e tanto tempo per stare con sè stessi sono una situazione che, ogni tanto, mi concedo volentieri.
Giunto in loco ho incontrato Safebet ed un suo amico di cui non ricordo il nome, anche loro profughi da Milano, nonchè Uazza il geometra. Con loro tre ho passato poi l’intero live e si sono rivelati una gradevolissima compagnia.
La prima band ad esibirsi sono gli Your Hero, italiani (credo di Roma). Bravi, c’è da riconoscerlo, e nemmeno troppo musicalmente ruffiani visto il contesto in cui erano inseriti. Personalmente li ho apprezzati anche nella parentesi di cordoglio per le vittime del terremoto, mi è parso tutto genuino e quindi da applausi. Fossero stati a Domenica In forse avrei recepito in maniera diversa.
Forse però son solo pippe mentali mie.
I loro venti minuti procedono veloci, trascorrono bene e lasciano la voglia di sentire un altro paio di pezzi quando il set è concluso. Promossi.
I secondi sono gli InnerPartySystem e qui il giudizio cambia, si accorcia: una merda. Oltre ad essere inadatti al contesto mi son sembrati proprio scarsi. Potrei non dico apprezzarli, ma almeno non odiarli se li vedessi live una sera al Plastic, per dire, ma non ne sono nemmeno sicuro. In sostanza venti minuti che durano un’eternità. Bocciati.
Terzo giro, tocca agli Emery. Non li avevo mai visti dal vivo e non li ho mai cagati nemmeno su disco. Alla luce dei fatti non ne sono affatto rammaricato. Mi è parso il classico gruppo nu-emocore come ce ne sono tanti, con l’onestà di chi questa roba la fa più o meno da quando è nata, ma con anche l’aggravante di non lasciare nulla a chi ora, con un background che non sia proprio zero sull’argomento, li sente per la prima volta. So per certo che ai fan di vecchio corso, Safebet è uno di questi, non sono affatto dispiaciuti quindi probabilmente il set non è stato male. A me però non hanno detto niente. Ad essere onesti anzi li ho trovati un po’ vuoti di suono e di voce, ma non credo di avere materiale a sufficienza per valutarli. Senza voto.
E’ il turno degli Escape de Fate. Io li odio essenzialmente perchè la loro presenza ha reso l’intero festival una gigantesca puntata di TRL. Io non ho nulla contro le mode dei giovani, anzi, però trovo questa nuova ondata di ragazzini confezionati nei jeans aderenti onestamente inguardabile. Ecco, il gruppo in questione incarna in pieno il giudizio espresso sul suo pubblico. Prima ancora che iniziassero a suonare, già trovavo irrispettoso il fatto che loro, a metà della scaletta del festival, si permettessero di arredare il palco con scenografie da far impallidire gli Iron Maiden (che almeno queste tarrate se le fanno ai live dove sono headliner). Una roba imbarazzante, se si pensa ad un gruppo che si limita a fare peggio di altri un genere che ha iniziato a stufare già da diversi anni. Il fake metal modaiolo è già di suo un genere discutibile, persino quando a proporlo sono i gruppi che l’hanno inventato, figuriamoci se a suonarlo son quattro ragazzini. Oltretutto, musicalmente parlando, gli Escape the Fate sono veramente quattro (il cantante non lo considero nemmeno) incapaci. Suoni osceni, assoli fuori tempo e basso praticamente inesistente fusi in una performance che avrei ritenuto opinabile anche al concerto annuale delle scuole monzesi. La chicca però era il secondo chitarrista: un trentenne nascosto dietro la scenografia credo perchè non sufficientemente poser per essere ammesso di diritto nella band. Vabbè, il giudizio è scontato: bocciati, anzi espulsi proprio dalla scuola. Vederli dal vivo ha fatto poi sorgere in me una considerazione. Questi gruppi per teenagers in america vanno fortissimo e fino a qui nulla di nuovo. Vanno fortissimo anche in Italia, talmente forte da sdoganarsi come musica e come look perfino a MTV. Perchè allora i gruppi italiani che son voluti salire in corsa su questo treno si son presi solo il fattore estetico? Perchè i teen-emo-posers italiani, abbigliamento escluso, sono rimasti musicalmente inchiodati al pop anni sessanta? Perchè testi e arrangiamenti dei Lost, per fare un nome, potrebbero essere benissimo farina del sacco di Dodi Battaglia? Gli Escape the Fate almeno, pur risultando credibili quanto Krusty il Clown che recita Shakespeare, cercano di proporre la musica che oggi si rispecchia in quella moda. Mah, disgustorama.
Thursday. Standing ovation.
Devo ammettere che anche in questo caso la mia considerazione nei loro confronti è sempre stata pressochè nulla. Conscio si trattasse di uno tra i capistipiti della corrente musicale nu-emocore gli ho sempre preferito altre band per una mera questione di gusti. L’opportunità di vederli dal vivo però mi incuriosiva e devo ammettere che riponevo su di loro un bel po’ di aspettativa. Mi hanno impressionato. Una potenza di suono indescrivibile, una pulizia difficilmente eguagliabile, voci e cori sempre precisi e puntuali ed una presenza scenica non indifferente: semplicemente perfetti. Con ogni probabilità, la band del New Jersey a fine anno si collocherà tra i migliori live del 2009. Promossi a pieni voti e con la particolare lode di aver dimostrato all’audience cosa vuol dire suonare dal vivo, con buona pace dei ragazzini finto metallari di prima.
A questo punto mancano all’appello due band, quelle per cui mi sono fatto la trasferta.
I primi a presentarsi sul palco sono gli Underøath. 55 minuti di violenza, acustica e visiva, suonati tutti di fila e senza tregua alcuna per lo spettatore. Rispetto all’ultima volta in cui li ho visti, i suoni mi son sembrati più impastati all’interno del caos generale e meno definiti, tuttavia trattandosi di un certo tipo di suono la cosa non guasta. La title track dell’ultimo disco vista live è impressionante, così come “Writing on the walls”, ma nel complesso non c’è stato un solo minuto sottotono all’interno del set. Esattamente come me li ricordavo, esattamente come me li aspettavo: promossi.
Siamo alla fine e, pur dovendo ancora suonare il gruppo che più mi piace tra tutti i presenti, sono già molto soddisfatto.
I Taking Back Sunday si presentano sul palco a chiudere la serata, forti di un nuovo chitarrista (che sul momento mi è sembrato poter essere il buon vecchio Nolan, con conseguente mezzo infarto per la commozione, e che oggi invece ho appreso essere nuovo di pacca), di un nuovo disco in prossima uscita e di un precedente live all’Estragon difficilmente peggiorabile. Forse anche per questo mi sono piaciuti, perchè non mi aspettavo nulla di buono. Adam Lazzara è oggettivamente un incapace, tuttavia il nuovo chitarrista sopperisce bene ed il suono è decisamente vivo, rispetto alla mosceria della precedente occasione. Suonano anche loro un’oretta, proponendo una scaletta che pesca in pari proporzioni da tutti e quattro i dischi, se si conta anche il quarto in uscita. Promossi anche loro, quindi.
Così il concerto finisce e io me ne ritorno a Milano con la mia schiena capricciosa che inizia a dolorare, le orecchie che fischiano e “Una vita nuova” di Fabrizio Coppola che mi tiene compagnia lungo la strada, rilassandomi senza addormentarmi.
Sabato pensavo di aver fatto una stupidata a perdere il live di Joey Cape acustico a Parma, ma con il senno del poi è stato meglio così. Credo che infondo se ci fossi andato non avrei apprezzato appieno, come invece ho fatto ieri sera.
Soprattutto, se ci fossi andato, ieri sera con ogni probabilità sarei stato a casa.
Come sempre più persone mi dicono, sto decisamente invecchiando.