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Diario dall’isolamento

Diario dall’isolamento 2: day 30

Oggi ci abbiamo dato giù pesantissimo coi Lego, quindi mi prendo qualche riga per farvi la recensione di un set Lego Star Wars che abbiamo montato oggi.
Il Lego Star Wars è una merda.
Argomentiamo.
Il bello del Lego, da sempre, è ricostruire strutture reali o immaginarie coniugando semplicità ed efficiacia visiva. Vedi il set di un galeone e sembra un galeone in tutto e per tutto, ma è ipersemplificato per rendere godibile la realizzazione al target di riferimento, ovvero i bambini. Ci sono i dettagli, ma non vuole essere un modellino. La maestria dei progettisti Lego è in quello: elaboare modelli suggestivi, facili da costruire e con cui puoi giocare.
Ovviamente questa cosa con Guerre Stellari non puoi farla, perché il pubblico medio a cui punti è composto da nerd ritardati che comprano un set di costruzioni da 7+ anni, ma si aspettano e pretendono il dettaglio perfetto, la riproduzione in scala. Il risultato sono modelli ultracomplessi, composti da almeno il triplo dei pezzi che servirebbero per un set analogo non brandizzato SW, e incompatibili non solo con il gioco, ma soprattutto con l’idea di poterli ricostruire in un secondo momento, magari non partendo da sacchettini numerati e porzionati.
Qui serve un inciso.
Chi scrive non è una persona normale. Ho dei disturbi, evidenti. Una prova è che in casa nostra i Lego sono organizzati in box trasparenti e divisi per colore, in modo che sia più facile trovare i pezzi. Ci si può giocare, si possono ovviamente mischiare (lo scrivo per eventuali assistenti sociali interessati alla tutela dei minori), ma quando si smonta qualcosa i pezzi vanno rimessi via come si deve. Così se qualche volta ci viene voglia di seguire le istruzioni invece di volare con la fantasia, possiamo farlo senza diventare matti.
Ieri con questo metodo abbiamo ricostruito due modelli dei set realizzati in collaborazione con la NASA (stupendi entrambi), impiegandoci tutto sommato poco e quindi potendolo fare senza che Giorgio impazzisse di noia nella ricerca di pezzettini minuscoli utili a dettagliare un modello oltre la sua capacità di apprezzamento.
Oggi fare quella cazzo di navetta è stato un fottuto calvario, per lui e per me, nonostante costruire coi lego sia forse una delle attività più rilassanti che conosco.
Quindi boh, se avete il concetto di Lego di Lord Business forse questi set dedicati a Star Wars fanno al caso vostro, ma mi piace pensare siate dei nerd fastidiosi che col Lego non dovrebbero avere nulla a che spartire.

Diario dall’isolamento 2: day 29

Oggi attacco la bozza direttamente al mattino, così evito di dimenticarmi come ieri.
Forse. Magari. Speriamo.
Nel post di oggi vi riporto un bello sfogo che ho trovato su twitter e che vi copio sotto per questioni di comodità. Potete leggere l’originale qui

Piccolo sfogo. Avete rotto il cazzo [1]. Dovete esercitare l’empatia e riconoscere valore anche ai piccoli dolori, quelli quotidiani e insignificanti, quelli che non vanno in prima pagina, ma che sono inciampi per tutti e tutte.
Di fronte alla morte ed al dolore di questi mesi siamo tutti chiamati alla comprensione, all’esercizio del rispetto, alla cura dei comportamenti personali e collettivi. Ma questo non significa che io non possa essere dispiaciuto per altra cosa, meno importante. Invece no.
Ogni volta che qualcuno si dispiace per una situazione sicuramente marginale, ma comunque dolorosa, arriva sempre un “eh, ma i morti”. Avete rotto il cazzo [2]. Quel “eh, ma i morti” diluisce il dolore, minimizza tutto e tutti, avvilisce anche quei morti, quei lutti.
Se dico che mi dispiace che le scuole siano chiuse arriva puntuale un “eh ma i morti”. Che non significa nulla. Non esprimo valore sulla chiusura delle scuole, esprimo un mio sentimento. Che non minimizza il resto, ne rimane parallelo.
E come sentimento, il dispiacere personale bisogna accoglierlo, bisogna provare a capirlo, con una parola, con un gesto di vicinanza. Non bisogna ogni volta ridicolizzarlo, compararlo, renderlo minore in una gara del lutto più luttuoso. Avete rotto il cazzo [3].
Se qualcuno dice di essere dispiaciuto che non potrà vedere a Natale i propri cari, invece di rompere il cazzo [4] dovreste usare parole di comprensione. Perché quella persona pensa al dolore collettivo enorme che ci circonda, ma pensa anche al proprio minuscolo peso.
Siamo tutti colpiti e devastati dalle morti solitarie che incessantemente da 8 mesi affollano il quotidiano. Dei nostri cari e degli sconosciuti. E’ un pensiero costante, permeante, smisurato. Questa emergenza sanitaria ha riempito le nostre vite di un lutto costante.
Ne siamo tutti consapevoli, ne parliamo con rispetto, accogliamo tutte le misure che vengono prese (dobbiamo avere fiducia in chi decide), seguiamo le regole proprio per prenderci cura di tutti e tutte, usiamo il nostro comportamento come bandiera di solidarietà.
Ma a tutto questo si sovrappone la vita. Che non si ferma, va avanti con slanci e pause, con tutto il contorno degli errori, orrori e meraviglie. E con i nostri piccoli, minuscoli, insignificanti dispiaceri. Che esprimiamo come forma di cura personale, in parallelo al resto.
Non sapete che storie personali ci siano dietro un dispiacere, anche marginale. Quindi invece di rompere il cazzo [5] con il vostro “eh ma i morti” potete passare oltre. O se volete essere migliori potete accogliere anche i dolori minuscoli, farvene carico da esseri umani.
Altrimenti fate come quegli adulti che di fronte al dispiacere di un bambino o di un ragazzo usano frasi del cazzo [6] tipo “Fossero questi i problemi.”. Per quel bambino i problemi sono proprio quelli. E la vostra mancanza di empatia del cazzo [7] li moltiplica per cento.
Temo che non si sia capito cosa intendevo dire, ma sono un po’ stanco. Torno alla matematica che è rifugio ed esilio silenzioso.
(Mi scuso profondamente per aver usato in questo piccolo sfogo otto volte la parola cazzo [8], ma non sono riuscito a farne a meno.)

L’empatia è qualcosa di davvero difficile da trovare nel prossimo. 
La vedo sempre più spesso brandita stile manganello sui social, in favore di questa o quella causa (tutte lodevoli eh, sia chiaro), da persone che poi dimostrano di esserne privi quando si arriva al doverla impiegare “nel quotidiano”, verso qualcuno che non rientra in quelle micro o macro categorie per cui provare empatia è più un modo di mettersi al collo una medaglia che non offrire comprensione e supporto a chi ne ha bisogno.
Sarebbe bello fossimo meglio di così.

Diario dall’isolamento 2: day 28

Oggi completamente perso via, mi son ricordato del blog solo ora (2:44 am).
La notizia del giorno sarebbe il DPCM, ma facciamo che ne parliamo domani.
O magari mai più.
Che tanto son solo brutte notizie.

Diario dall’isolamento 2: day 27

Ha nevicato. 
Qui intorno praticamente tutti hanno già messo gli addobbi natalizi esterni e con la neve devo dire che a guardar fuori dalla finestra mi nasceva una sensazione di benessere.
Io adoro il Natale.
Vedo le lucine, sento il profumo del panettone e volo in un posto felice della mia testa. Spero davvero di poterlo festeggiare. 

Per il resto nulla di nuovo dal fronte. 
Mia figlia è in palla completa con Frozen e gira per casa urlando “LEDIGOOOOOO LEDIGOOOO” e facendo strani gesti di slancio con le mani. Giorgio è in fotta per le avventure di PK che gli sto leggendo e passa il tempo a costruire navicelle evroniane con i Lego.
Anche a loro piace il panettone.
Oliva lo vuole “senza olive”, Giorgio invece mangerebbe solo i canditi, ma alla fine se lo mangiano entrambi con molto gusto. Quest’anno abbiamo provato quello della pasticceria Riva e devo dire che è clamoroso.
Polly è in ferie, ha deciso di farsele anche se poi non siamo partiti perchè arriva da un periodo mortale al lavoro e ha bisogno di staccare, quindi oggi ha fatto i pizzoccheri. 
Se iniziamo a mangiare anche in settimana diventa davvero in salita.

Diario dall’isolamento 2: day 26

A Luglio, quando siamo rientrati dei soldi del viaggio negli USA che avremmo dovuto fare in estate, abbiamo deciso di darci un nuovo traguardo vacanziero, una meta a cui tendere per rendere più facile il cammino. Una roba tipo l’utopia di Galeano raccontata da Glauco.
Così ci siamo prenotati otto giorni di vacanza tropicale, questa volta però con tutte le assicurazioni del caso. Una roba tipo: non partiremo mai, quindi deve essere sicuro che si rientri dei soldi questa volta, ma se per puro caso ci dice bene tanti saluti a tutti.
Dicembre al caldo, esperienza da sempre sognata e mai provata che per una volta sarebbe potuta essere meno difficile da mettere in piedi, tra soldi risparmiati in questo anno di niente e disponibilità a prendere ferie grossomodo quando si vuole e senza che nessuno se ne lamenti.
Sole, mare e musica ska, possibilmente senza musica ska.
Quindi abbiamo prenotato un viaggio, che da pronostico è stato cancellato e rimborsato. Saremmo dovuti partire ieri sera e saremmo sbarcati a momenti, mentre scrivo.
Come detto, niente su cui recriminare.
Però questa mattina aprire le persiane e vedere il grigio e la pioggia è stato più doloroso di altre volte.

Siccome sono di coccio ho chiesto un nuovo preventivo per traslare a Febbraio 2021 il progetto “inverno in spiaggia”, ‘sto giro mi hanno direttamente suggerito di smetterla e rassegnarmi.
Give up your dreams.

Diario dall’isolamento 2: day 25

Oggi parliamo di patrimoniale, perchè ne parlano tutti e io sono una delle persone più ignoranti in termini di contabilità fiscale possiate immaginare, quindi scrivere di patrimoniale oltre a mettere qualche paletto ideologico potrebbe essere un modo per ragionare e spingere qualcuno che ne sa più di me (aka chiunque) a spiegarmi cose che non ho mai capito o correggermi relativamente a minchiate che penso di sapere e invece no.
Direi che facciamo un bel post per punti, che forse aiuta.

  1. Chi ha di più deve pagare di più.
    Una tassazione dei patrimoni, nei numeri di cui si è letto (0,2% dai 500K euro fino ad un massimo del 2% sopra i 50M ), per me è cosa buona e giusta. Lo so che la tassazione è già crescente in base ad aliquote, quindi che chi guadagna di più già paga di più, ma in un momento di crisi trovo corretto chiedere un sacrificio ulteriore a chi può permetterselo. Quindi per me patrimoniale: sì.
  2. Non comprendo del tutto l’idea di sostituire con la patrimoniale l’IMU sulle seconde case. Serve ad alleggerire la pressione su chi non ha un patrimonio enorme e magari ha solo ereditato una seconda casa? Ok, ma se l’obbiettivo è chiedere di più a chi ha di più, chi ha una seconda casa qualcosa in più credo debba e possa darlo. Non so, non ne faccio una battaglia, ma mi manca il razionale. Forse è anche perchè nel mio intorno per pagare l’IMU sulla seconda casa spesso di case devi averne tre o più, tra residenze creative e gabole varie.
  3. Ok eliminare l’imposta di bollo sui CC e deposito titoli, perchè è comunque roba che fa cumulo per il calcolo del patrimonio e quindi se poi scollini e paghi la patrimoniale in sostanza te li tassano comunque, se invece stai sotto non sei poi così ricco. Almeno così è come l’ho capita io. Questo varrebbe anche per le seconde case, pensandoci, quindi va beh, il punto 2 era inutile… o forse no?
  4. Tutto questo discorso si basa sull’assunto che lo Stato debba sapere qual è il tuo patrimonio per potertelo tassare, che in un Paese come il nostro credo sia tutt’altro che scontato, tra intestazioni creative, capitali esteri e probabilmente mille altre cazzabubbole che conoscerei se avessi tanti soldi. Il rischio che vedo io è che lo Stato, come spesso accade, vada a bussare a chi non si nasconde e non è una cosa bella da fare, se l’idea alla base è una tassazione più giusta. O meglio, va benissimo perchè abbiamo detto sopra che si parla di persone che possono dare qualcosa in più, ma forse come atto di rispetto nei loro confronti si dovrebbe simultaneamente fare qualcosa di concreto per accertarsi che tutti quelli che possono dare, diano. Non solo alcuni.
    Invece la sensazione è che il nostro Paese preferisca le soluzioni facili a quelle eque e quindi vada a pescare solo da chi non può o non vuole fare il furbo. 
    Patrimoniale sì, ma misure concrete e simultanee di verifica pure.
  5. Vorrei capire come questo patrimonio viene calcolato. Prendi due pensionati con casa di proprietà, magari ereditata a loro volta, e i risparmi di una vita da impiegati (TFR compreso). Se ci arrivano, forse, c’è qualcosa che stiamo sbagliando da qualche parte. Non nel chiedere loro un sacrificio, che magari possono permettersi davvero, ma certamente nel definirli come I RICCHI. Questo però credo sia un discorso più ampio, che pesca a piene mani da tutta la narrazione relativa ai boomer che intossica il dibattito contemporaneo della, mettiamoci tutte le virgolette possibili, “lotta di classe”. Ci si ricollega di nuovo al punto 4, ovvero alle persone a cui si dovrebbe per lo meno il rispetto di chi quel qualcosa in più, magari bestemmiando, comunque alla fine della fiera lo dà ogni santa volta che lo Stato arriva a bussare. 
  6. Chi non ha un patrimonio di 500K euro (o superiore) non ha alcun diritto nel sentirsi paladino della giustizia mentre sbraita quanto sia giusto e doveroso che altri paghino di più. Non ci vuole un cazzo a pretendere di togliere ad altri. Lo si può dire (lo sto facendo anche io), in molti casi è doveroso esigerlo e non è per niente facile ottenerlo. In nessun caso però possiamo sentirci “migliori” mentre chiediamo sacrifici (piccoli o grandi che siano) che non ci toccano (o da cui magari traiamo beneficio, come in questo caso). E’ un atteggiamento stronzo, anche se sta dalla parte del giusto.
    Ho quasi quarant’anni e persone che a venti/venticinque urlavano di quanto fosse ingiusto non tassare i ricchi oggi le vedo dire che “la patrimoniale è una porcheria perchè noi poveri risparmiatori…”. La ruota gira, il tempo passa e tutto diventa meno radicale quando i soldi da mettere sono i propri, quindi se non siete completamente sicuri di esserci, quando chiederanno a voi, beh, anche meno raga.

Diario dall’isolamento 2: day 24

Open my eyes
Open the fucking door
I can’t help but feel like
I’ve been here before
Or a million times
In one of a million lives
I can’t shake the feeling
That I’ve already lived mine
Maybe I’ve been living forever
Sure feels like I’m losing my mind
I’ve been alive as long as I can remember
Maybe I’ll come out better next time
Open my mind
Shed the skin of another life
Let me rest here another night
I may have learned something this time
Keep pushing forward
Without understanding
With no way of knowing
Which way I am going
Keep getting nowhere
Over and over
I know when I get there
I’ll be another day older
Maybe get a bit closer this time

Sono andato a trovate i miei.
Vaffanculo, arrestatemi.
Il testo qui sopra è di un pezzo degli Iron Chic, Don’t drive angry, preso da un disco molto bello che non si è inculato nessuno, uscito qualche anno fa.

Diario dall’isolamento 2: day 23

Se apro il mio profilo instagram ormai ci trovo solo robe da mangiare.
Credo sia l’anno in cui ho condiviso più foto, non è assurdo? Forse inconsciamente è un modo per rimarcare la sopravvivenza, l’essere ancora “vivi” non inteso come biologicamente attivi, ma cerebralmente vispi.
Che peso che sto diventando sul blog, madonna. Scusatemi.
Non lo faccio apposta, è che inizio a scrivere e se non ho argomenti vado a ruota libera. Abbiate pazienza (oppure cambiate aria, davvero lo capirei).
Tornando al discorso cibo: abbiamo tirato le pappardelle e ho messo a marinare il cinghiale. Domani vediamo come esce sto ragu.
Adesso birretta su zoom con i regaz.

Diario dall’isolamento 2: day 22

Il venerdì ha smesso di essere un giorno rilevante e io non ho molti argomenti per oggi. Manco uno in realtà.
Se ripercorro la mia giornata fino ad ora, oltre a lavorare, ho:
– litigato su twitter parlando di Mattia Feltri, che non credo riuscireri ad inserire in una classifica di motivazioni per cui discutere neanche se partissi ad elencare dalla posizione mille
– ascoltato Punk in Drublic
– Giocato un po’ a THPS1+2 in pausa pranzo, chiudendo un paio di combo.
– Chiacchierato di Xfactor e punk-rock con Ale su Skype (discussioni separate, nessun legame tra le due)
– Mangiato un pan gocciole

Tra poco esco a prendere i bimbi all’asilo e passo in macelleria a ritirare il cinghiale, che domenica voglio fare il ragù con le tagliatelle fatte in casa.
Poi chiamerò i miei, col solito cinema dei bambini che ne hanno pieno il cazzo delle videochiamate.
Alla fine leggeremo qualcosa, giocheremo un po’ e, una volta messi a letto, guarderò con la Polly Better Call Saul.
Domani però si svolta, c’è il big event: si va a fare l’anti-influenzale.
Evviva.

Diario dall’isolamento 2: day 21

Decomprimere.
Io credo che la roba di cui inizio a soffrire maggiormente sia l’incapacità di decomprimere, di avere un momento e uno spazio in cui poter aprire le valvole di sfogo. Qualcuno lo fa andando a correre, qualcuno alzando pesi. Mia moglie impasta.
Io questa roba l’ho sempre trovata nella musica.
Di solito in macchina, con lo stereo oltre i livelli che si addicono al guidare con prudenza e le persone sulle auto vicine alla mia, ferme in coda come me, a guardarmi chiedendosi perchè non sia rinchiuso in un centro specializzato per malati di mente.
L’occasione migliore però erano i concerti, quando si spengono le luci e sei da solo in mezzo a persone a cui di te non frega un cazzo e di cui a te non interessa un cazzo, che siano tuoi amici o perfetti sconosciuti. Tutti gli occhi sul palco, la musica copre tutto, avvolgendoti e proteggendoti, e allora canti i pezzi, li urli, senza che ti interessi come vengono fuori. Conta solo farlo più forte possibile e se non sai le parole va bene lo stesso. Da ragazzino l’energia da buttare fuori era anche fisica, si pogava e si saltava, oggi è più che altro mentale, ma l’esigenza di base è la stessa.
Occhi chiusi, dito alzato e fuori tutto.
Lo stress, le ansie, le paure, ma anche le gioie, tutte le emozioni che nella vita sei costretto in qualche modo a gestire e misurare per non uscire dai binari in cui ci hanno insegnato sia necessario veicolare la quotidianità.
Per quell’oretta scarsa ci si ripulisce da tutto, una sorta di lavanda gastrica emozionale, e all’accensione delle luci si è pronti a tornare con rinnovata o ritrovata pace alla propria vita che, bella o brutta che sia, certamente ha qualche motivo per andarci stretta.

Il primo concerto a cui sono andato è stato nel 1997.
Da allora non c’è stato anno in cui non abbia visto almeno una volta qualcuno suonare e anche se negli ultimi anni capitava meno che agli inizi, era comunque qualcosa che facevo spesso. Non mi sono fermato neanche quando gli amici hanno iniziato a non accompagnarmici più, quando andare a un concerto voleva dire farsi ore di macchina da solo per finire il martedì sera a Bologna e rientrare ad orari senza senso con la sveglia comunque puntata per la mattina di lavoro successiva.
A fermarmi è stato questo orribile 2020, il mio primo anno concert-free.
C’è qualcosa che è peggio del non vedere la fine del tunnel, però, peggio anche del prendere atto che per me (e quelli come me) la luce arriverà in ogni caso davvero alla fine, ultimi tra gli ultimi.
Questa cosa è doversi subire continue paternali su quanto ridicola sia questa rinuncia, su quanto i problemi siano altri, su come si possa tranquillamente fare a meno di cose così frivole e superficiali in un contesto di crisi globale e doverlo fare simultaneamente ingoiando le decine di bestemmie che siamo sì abituati a tenerci nello stomaco, ma senza più la facoltà di vomitarle altrove per evitare di intossicarci.
Quel viaggio in auto in cui un disco ti toglie di dosso le rotture di cazzo del lavoro e ti permette di affrontare i capricci dei figli una volta rientrato a casa con la pazienza che si meritano, quel concerto in cui puoi letteralmente urlare i vaffanculo accumulati e tornare a parlare con amici e parenti senza immaginarti come sarebbe dar loro una testata sul naso mentre li ascolti dare fiato alla bocca.
“Puoi andare a correre per sfogarti” is the new “Mangino brioches”.