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Occupy Extended Play

Tra le cose per cui internet e i social si sono fatti volere bene nella mia vita è l’avermi fatto conoscere alcune belle persone. Una di queste è Felson, blogger musicale di lungo corso che da qualche tempo ha deciso di fondare una webzine chiamata Extended Play. L’obbiettivo della rivista è parlare di musica in maniera approfondita, prendendosi i propri tempi e cercando di dare al lettore materiale in controtendenza rispetto a tanti dei media attuali, soprattutto online.
Cito dal loro disclaimer:

Extended Play è una webzine indipendente nata nel 2021. Raccontiamo la musica da una prospettiva diversa, senza banner pubblicitari, clickbait e sensazionalismi.
EP è rivolta ai curiosi, a chi ha voglia di approfondire, a chi sa che per comprendere un tema non ci si può fermare al titolo, agli ascoltatori appassionati.
EP non è rivolta a chi chiude la pagina se l’articolo è lungo, ai professionisti delle polemiche prive di argomentazioni, a chi pensa che la musica sia solo un sottofondo o un passatempo.

La domanda, spontanea, sarebbe: “Ok, ma te cosa c’entri con un progetto del genere?”
Niente, lo so.
Felson però in un paio di occasioni mi ha chiesto se avessi voglia di mandar loro qualcosa di mio e così, qualche settimana fa, ho pensato che potesse essere un’idea scrivere qualche riga sulla fine che ha fatto l’emo post MTV.
Ho proposto il tema e mi hanno detto di provarci, quindi ci ho provato.

Mi era già capitato in passato di mandare cose scritte da me a siti/pagine altrui, ma si trattava sempre di persone a cui inviavo il materiale in prima stesura e che lo utilizzavano o così com’era, oppure modificandolo loro stessi. Precisiamo: nulla di male con un processo del genere, anzi, però questo giro è stato diverso.
Questa volta ho avuto modo di confrontarmi con un vero e proprio “editore”, che mi ha dato input costanti per rendere il testo più fruibile o scorrevole, così come spunti per approfondire le parti del discorso che risultavano meno accessibili da fuori.
Per me, che il più delle volte butto fuori i post senza nemmeno rileggere, è stata un’esperienza formativa molto interessante, che rifarei volentieri qualora ce ne fosse l’occasione. Perchè è bello avere un posto come questo, dove scrivere quello che mi pare senza porsi troppo il problema di come venga recepito da fuori (salvo poi restarci male quelle tre o quattro volte in cui mi sono preso il tempo per provare a mettere giù approfondimenti veri senza ricevere mezzo riscontro), ma è anche bello trovare qualcuno che ti aiuta a rendere una tua cosa “migliore possibile”.
E niente, qui sotto metto il riferimento al post per chi volesse leggerlo, anche se l’ho ormai spammato ovunque e questo blog è l’antitesi della visibilità, ma il punto centrale di questo post è annotare l’esperienza.


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Quella cosa dell’ad di Tommy spiegata bene

Succede che sto scrollando il feed di Facebook e mi appare questo ad di Tommy Hilfiger che, come credo nell’intenzione di chi l’ha pensato, mi fa bestemmiare.
Così apro wordpress e inizio a mettere insieme i pensieri al fine di argomentare la mia bestemmia, solo che ad una certa penso: “E se, invece, la buttassi in vacca?”. Mi capita spessissimo di pensarlo, ma direi che da qualche anno a questa parte 9 volte su 10 desisto, inseguendo il miraggio del mio quieto vivere. ‘Sta volta no.
Questa volta chiudo wordpress, apro i social e me ne esco con questa cosa qui:

Detesto essere quello che spiega le barzellette, anche quando non fanno ridere, ma tocca provarci: credo sia evidente il patriarcato sia ancora esattamente dov’era quando Tommy nelle pubblicitá ci metteva Gigi Hadid. Non sono peró neanche qui a darmi il tono di quello che “era un esperimento sociale”, “era solo una provocazione” o, peggio, “mi avete frainteso”.
Sono davvero convinto che la scelta di modellǝ distanti dai canoni comuni di bellezza (e, precisiamolo, non é tanto/solo questione di taglia) sia una stupidata e adesso elencheró le mie ragioni per punti.

1) Mi dá profondamente fastidio l’ipocrisia di base. Non dei brand peró, delle persone. Di quelli che se Volkswagen pubblicizza ormai solo modelli ibridi o elettrici é greenwashing, mentre Tommy fuckin’ Hilfiger che piazza una ragazza selezionata appositamente per non risultare bella a nessuno (perché se non é trasversale, la campagna non funziona) sia da applaudire. O cavalcare certe lotte per ritorno commerciale é sbagliato sempre, o non é sbagliato mai. Solo i Sith vivono di assoluti, ma Yoda diceva: “do or do not, there is no try” quindi mollatemi, che anche in questo caso mi pare si stiano usando due pesi e due misure sulla base del tifo.
Dei brand che si appropriano di valori non necessariamente loro per vendere avevo parlato qui tempo fa, quindi non sto a ripetermi e vado avanti.
2) Smantellare i canoni di bellezza é una chimera del cazzo. Mi sembra assurdo doverlo stare a dire, ma in una societá in cui siamo costantemente esposti a dei modelli, chi sceglie questi modelli ci plasma sulla base del costruire in noi delle aspirazioni a cui omologarci, possibilmente acquistando ció che serve. Nel momento in cui ci andiamo tutti meravigliosamente bene cosí come siamo, finisce che non ci serve piú niente e, da dove la sto guardando io (AD 2023) non siamo destinati, come specie, all’assenza di necessitá.
Appurato questo, io credo che il problema non sia mai nel tipo di modello a cui ci chiedono di tendere, ma nella nostra capacitá di accettare il nostro esserne distanti, ma qui andiamo a dove bestemmio piú forte, ovvero il punto
3) L’EDUCAZIONE NON LA FA LA PUBBLICITA’. Non é e non sará mai il suo ruolo e, anzi, sarebbe dannosissimo delegarle quella funzione. Ci servono gli strumenti per comprendere il ruolo della pubblicitá e per costruirci la self confidence necessaria a guardare un poster con Cristiano Ronaldo o Jennifer Lawrence senza sentirci dei falliti. E lo strumento non é convincersi che su quel poster potremmo/dovremmo starci anche noi. Perché?
4) Perché ci saranno sempre ambiti in cui ognuno di noi funziona meglio o peggio. Stare in mutande su un cartellone ha un’unica valenza ed é estetica. Non c’é merito nell’avere quella dote come non c’é merito nell’essere alti due metri o avere una mente piú brillante della media. Sono fortune, che volendo richiedono anche un certo impegno/sacrificio per non essere vanificate, ma che di fatto apriranno alcune porte con piú facilitá. Di nuovo, lo scopo dovrebbe essere avere porte per tutti ed essere capaci di scegliere le proprie, non pretendere di passare tutti dalle stesse.
5) Dovremmo anche smetterla di raccontarci che la bellezza abbia qualcosa a che vedere con il patriarcato. Il patriarcato ha a che vedere solo col potere.
Questa cosa la spiega benissimo il porno, che é (anche giustamente) accusato di essere uno dei fattori che contribuiscono a radicare un certo tipo di mentalitá negli uomini. Nel porno ci sono categorie di ogni tipo, per fantasie di ogni tipo. Il porno é maschilista perché fallocentrico e costruito attorno al piacere maschile, quando lo si accusa perché “alimenta fantasie verso standard di bellezza stereotipati” si manca clamorosamente il bersaglio. Anche fosse, peró…
6) Dovremmo assolutamente smetterla di criminalizzare la fantasia o, peggio, costruire una societá che per evitare delusioni ci forzi a sognare in piccolo. Vaffanculo. La fantasia é un paradiso che esiste davvero, a comando, per compensare qui ed ora un’esistenza non sempre all’altezza di essere l’unica che avremo a disposizione. 

Per questi motivi, quando vedo quel tipo di ad, mi monta il nervoso. Sono tutti punti ampiamente dibattibili e non condivisibili, ci mancherebbe. Senza togliere che l’uscita con cui ho provato a esplicitare il dissenso possa essere considerata “infelice”. La cosa che, come sempre, mi fa un po’ sbarellare é la reazione social a questo tipo di uscite.
Su FB, dove di massima conosco le persone che vedono quel che scrivo, c’é un po’ piú di propensione al dubbio e meno tendenza al giudizio tranchant. In tanti avranno letto quel post pensando “che cazzata”, ma se qualcuno pensa che io sia un coglione non lo pensa (solo) per via di questo post cosí come non sará un post a fargli cambiare idea domani. Conoscendomi, qualcuno di quelli che ha pensato fosse una cazzata si é premurato di dirmelo, anche solo per incasellarla nell’idea che ha di me.
Su twitter la cosa é ovviamente diversa, ma io sono un cretino e penso che non lo sia.
Penso che chi mi segue un po’ mi conosca e che quindi non mi giudichi ogni volta da zero, ad ogni tweet, sfanculandomi alla prima uscita “non conforme all’atteso”, eppure so benissimo che non é cosí che funziona da quelle parti. Mi ostino a cercare in quel posto interazioni/relazioni che non sono nella natura del contesto (salvo eccezioni che peró rientrano nel tipo di persone simili al profilo che ho descritto per FB).
E quindi finisco sempre nello stesso loop, a ragionare di come si possa avere aspettative cosí alte nei confronti di chi ci sta intorno, responsabile di dover dire sempre e solo cose condivisibili.
Boh, io non ce la faccio.


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Occupy il basso sfasciato

Il basso sfasciato è un account instagram molto figo, che racconta momenti rilevanti della musica tramite immagini. L’account lo cura Francesco, che è anche il principale responsabile di quel che era BASTONATE, forse il mio posto preferito online per leggere di musica che, nove su dieci, mi fa cagare.
Se vi interessa la musica anche per le storie che le gravitano attorno, dovreste seguire il basso sfasciato. Ci sono racconti pazzeschi scritti benissimo. Di norma.

L’altro giorno cazzeggiavo su facebook come capita sempre più raramente e mi è saltata fuori una pagina che ripostava un vecchio video dei Blink 182. Non saprei dire perchè, ho pensato che la storia dietro quel video potesse essere interessante e forse non conosciutissima, quindi ho scritto a Francesco per chiedergli se gli interessasse raccontarla. Non gli interessava.
Però mi ha chiesto se volessi raccontarla io e ho pensato di accettare, non solo per infilare i Blink in un contesto in cui non sarebbero probabilmente mai finiti, ma anche per provare a fornire un’inquadratura diversa rispetto alla narrazione che è sempre girata intorno al gruppo.
Ne è venuto fuori il post che trovate qui sotto, uscito su Il basso sfasciato 25 anni esatti dopo quella performance televisiva.

La mia personale storia col disco da cui è venuta fuori la canzone del video sta in un post uscito ormai sei anni fa che si chiama I vent’anni del disco dei miei vent’anni e credo sia una delle cose che mi sono uscite meglio da quando butto il tempo a scribacchiare su internet.


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One twenty two

È uscito un pezzo nuovo dei Botch dopo vent’anni tondi.
Si potrebbero dire molte cose, ma l’unica che viene a me è che non c’è mai stato un momento in cui si sentisse più il bisogno di un nuovo pezzo dei Botch.
Che, per inciso, è una mina.

I vent’anni di un (altro) disco

Scrivere del ventennale dei dischi è una roba che non mi risulta si faccia più. Probabilmente il motivo è che quelli bravi, quelli che hanno incominciato a farlo, hanno esaurito i ventennali che gli interessavano ormai diversi anni orsono.
Vecchi di merda.
Io invece di dischi della vita che fanno vent’anni nel presente ne ho ancora tantissimi.
Un paio di mesi fa è stato il turno di Tell all your friends e avevo anche messo giù 3/4 di pezzo con l’idea di mandarlo a Spento, ma prima che lo finissi Marco mi ha scoopato, come si dice in gergo, e ho desistito dal finire la mia lagna da X-mila battute.
Tempo dopo è stato il turno del S/T dei Box Car Racer. Anche lì avevo pensato di mettermici e dire due robe, ma poi non lo avevo fatto, neanche ricordo perché. Probabilmente sarebbe stato un post con la centomilionesima versione sempre uguale del mio rapporto con Tom Delonge, quindi a conti fatti meglio così. Per tutti.

Due giorni fa però ho scoperto da Twitter essere il ventennale di un altro disco e questa volta non è proprio cosa lasciar correre, per me.
Il disco è questo qui:

Ai The Used io ci sono arrivato da Munnezza, una webzine/forum che ho citato mille volte qui sopra. Erano i primi anni di internet, per me, di conseguenza i primi tempi in cui riuscissi ad uscire dalla mia bolla provinciale per aprirmi ad ascolti nuovi, non necessariamente buoni. Allora avevo l’approccio al mezzo che i boomer hanno avuto negli anni ’80 con la TV e che oggi hanno con Facebook: se è scritto in una recensione online, deve essere vero. Also: chi scrive una recensione online deve essere un* che ne capisce. Solo anni dopo ho realizzato che probabilmente su quella webzine, come su tante altre, scrivessero più che altro ragazzini come me, al massimo più convinti di essere ‘sto cazzo (ma neanche sempre), però sto tergiversando.
Quando ho iniziato a bazzicare quel sito dei The Used si faceva un gran parlare. Era appena uscito il loro secondo disco e il mood generale era che la stagione di tutta quella roba lì fosse ormai finita. Dopo aver tessuto lodi sperticate per grossomodo qualsiasi cosa uscita tra il 2002 e il 2004, nel 2005 era diventato tutto una merda. Il nuovo avanzava, toccava girare pagina.
Io, però, ero come sempre in ritardo.
Andando a memoria, sul sito non c’erano le recensioni dei dischi considerati buoni di questa ondata nu-emocore di inizio millennio, venivano solo citate le band come riferimento in recensioni più recenti e spesso negative. Idem sul forum, dove chiedere dettagli su questa roba era il viatico preferenziale al ricevere insulti.
Alla fine quindi avevo scaricato un po’ di cose e, come probabilmente è giusto che sia, mi ero messo sotto a fare una cernita da solo. Si trattava di scavare in una montagna fumante di letame, lo riconosco, però mentirei se dicessi di non averci cavato un ragno dal buco. Anzi. Chiaramente non ci si poteva aspettare la qualità dei Q and not U, non so bene perché feticcio di moltissimi capiscers dell’epoca, ma se c’è una cosa su cui sono arrivato in anticipo rispetto a Boris e ai successivi meme è che la qualità ha rotto il cazzo, quindi bene così.
Tutto questo per dire che era il 2005, io stavo prendendo il “sole” sdraiato su una “spiaggia” irlandese con alcuni amici ed ero in uno stato di dormiveglia. Avevo probabilmente sentito tutto The Used senza farci un gran caso, mezzo rincoglionito, e di massima era quella situazione in cui il disco viaggia sulla strada buona per farsi dimenticare. Non so se vi capiti mai.
Ci sono dischi che ascolti fin dalla prima volta con attenzione, interessato a farti un’opinione corretta, e altri che invece piazzi in cuffia solo per riempire il silenzio e vedere se ce la fanno a farsi notare, a sconfiggere la nostra indifferenza mista a mancanza di aspettative.
The Used, con me, ce l’ha fatta in zona cesarini.
Pieces Mended è l’ultima traccia del disco e ricordo come fosse ieri che riuscì a destarmi da quel torpore vacanziero e scazzato e farmi di colpo tornare presente all’ascolto del disco. E poi farmelo rimettere da capo.
Negli anni credo di aver ascoltato tanti dischi il cui fulcro sta nella sofferenza, sia questa reale o posticcia, ma ancora oggi il senso di angoscia e disagio che mi trasmette Berth su Poetic Tragedy non ha pari. Non ho idea di cosa parli il pezzo, non mi è mai interessato approfondire. Per me è e rimarrà il lamento di uno che non se la passa bene, da ascoltare quando anche io non me la passo bene. Perché alla fine di questo si parla: emozioni. Stati d’animo che la musica crea in noi, ma anche in cui noi vogliamo immergerci tramite la musica. Almeno per quel che mi riguarda.
Il disco è tutto bellissimo, lo ascolto ancora spesso senza necessità di urlare GUILTY PLEASURE sui social e sentirmi una persona meglio. Ogni volta che parte Say Days Ago testo la capacità dell’impianto/supporto con cui lo sto ascoltando e dei miei timpani, di conseguenza.
Sui social frequento un paio di gruppi revisionisti/revival in cui l’apprezzamento per certa roba è ormai sdoganato e si vive un clima bello di sincerità e non curanza che dovrebbe sempre stare alla base del dibattito musicale. Chi scriveva su Munnezza oggi probabilmente si divide tra il darsi una posa su twitter (no link needed, you know who you are) e bazzicare gli stessi gruppi che bazzico io, ma in incognito. Buon per loro, c’è sempre da venire a patti con la propria autostima e se questo è il modo, bene così.
Io, di mio, ho fatto pace coi miei gusti troppo tempo fa per star dietro alla scena.

Ho cambiato servizio di streaming per la musica

La cosa di avere un blog funziona se poi ci si scrive sopra, di massima.
Non è che non lo sappia eh, solo non ho tutta questa impellenza di raccontare cose, ultimamente, e se proprio mi è capitato di avere qualcosa da dire sono finito per scriverla da altre parti.
In questi giorni però c’è stata una piccola rivoluzione della mia vita domestica ed è qualcosa che magari può interessare altri, quindi eccomi qui.
Ho cambiato servizio di streaming musicale.
Dopo anni di utilizzo, ho disdetto il mio account Spotify Premium per approdare a Tidal e l’ho fatto sulla base di due principali ragioni, che adesso vado a spiegare nel dettaglio.

LA QUALITA’
Non ho mai dato troppo peso alla qualità del suono, quando si tratta di ascoltare musica. Non sono uno di quei fissati dell’impiantino a valvole, quelli del suono caldo del vinile. Ho sempre speso più del necessario per l’impianto audio della macchina, ma l’obbiettivo di massima era che suonasse forte, più che bene. La mia scarsa propensione alla qualità credo derivi essenzialmente dall’ascoltare musica la cui pulizia si piazza tra il rumore dei vicini che tassellano il muro la domenica alle 8:30 e il latrato dei cani, ma anche dall’essermi formato musicalmente ai tempi del walkmen e delle cassette duplicate ad oltranza, in cui il fruscio assurgeva a cifra stilistica. Non sono propriamente uno dall’orecchio fino ed esigente, quindi.
E infatti, a riprova, anni di .mp3 e streaming di qualità infima sono riusciti a farmi sprofondare in una palude di suoni brutti e impastati, che per qualche ragione ho iniziato a considerare come standard anche per dischi che avevo consumato prima della rivoluzione digitale, ma che non ho più avuto modo di ascoltare se non in forma compressa. Questo perchè io sono anche quello che colleziona CD, ma che è stato per anni senza uno strumento capace di farli suonare, per dire. Presa coscienza che la playstation non supportasse più il formato ho comprato un lettore CD per casa, ma lo uso pochissimo, preferendo sempre la comodità dello streaming anche su un dispositivo acquistato all’unico scopo di riprodurre il supporto fisico. Stavo bene così, non avevo letteralmente percezione del problema.
Poi tempo fa ho comprato un disco dei Deafheaven, l’ho messo in auto dopo giorni passati ad ascoltare la sua versione streaming e mi si è aperto un mondo. Ho sempre impostato la qualità dello streaming Spotify al massimo delle sue potenzialità, ma effettivamente anche così resta lontanissima dalla qualità audio del supporto fisico digitale. Quando lo realizzi, è come vedere i fili in un trucco di magia, non riesci a tornare indietro tanto facilmente.
Tidal, nel suo pacchetto base, offre la qualità CD senza compressioni e perdita di dati. Con l’ormai accessibilissima possibilità di connessione 4G a consumo illimitato, non ha davvero senso accontentarsi di qualcosa di meno, visto che la differenza la sento pure io. (ref.)

L’ETICA
Lo dico subito, non mi sono messo a boicottare Spotify per via delle cose che ospita, come fossi un Neil Young qualsiasi. Volendo anzi dire due parole sull’argomento, io sono tra quelli che è felice certa roba esecrabile stia in bella vista su Spotify, per una serie di ragioni che vado ad elencare:
1) Non sono del parere che Hitler abbia diritto di fare un podcast, ma trovo molto importante sapere che se Hitler facesse un podcast lo ascolterebbero X milioni di persone. Ho questa idea che nel 2022 sia utopico sperare che chi ha idee dannose non trovi un modo ed un posto per portarle all’attenzione del prossimo, quindi meglio sia una piattaforma nota a farlo, così che si possa avere anche un quadro della portata del problema. Qualsiasi idiozia trova un buon numero di supporter se esposta al mondo intero, ma quantificare quel buon numero è fondamentale per avere una percezione chiara del mondo in cui viviamo ed evitare di farci fuorviare dalle bolle in cui ci nascondiamo ogni giorno.
2) Una piattaforma come Spotify può offrire alternative al podcast di Hitler, metterlo in competizione con altri contenuti ed evitare che chi ci finisce dentro per curiosità ci resti per assenza di metro valutativo. So benissimo che in questa dinamica pesano le scelte che Spotify fa in termini di “spinta” a questo o quel prodotto, che non è un contenitore neutro, ma è (credo) sbagliato pensare queste scelte arrivino su base ideologica e non economica. Spotify spinge quel che fa ascolti, non quel che sposa a livello contenutistico. Di conseguenza, l’idea dovrebbe essere fare una roba opposta a quella di Hitler e farla meglio di Hitler, muovendo gli ascolti di quelli a cui non va tanto bene la linea di Hitler, in modo da invogliare la piattaforma a puntarci sopra. Hitler non sarà l’unico in grado di fare un podcast con numeri grossi, no? Se lo fosse, direi che il problema andrebbe ampiamente oltre Spotify. Non so, posta l’ineluttabilità del libero mercato che definisce il campo da gioco, secondo me conviene che anche i buoni si mettano a giocare invece di lasciare la partita ai cattivi. 
Mi è scivolato un pistolotto non necessario, sorry.
Tornando al punto di partenza, la ragione etica per cui ho preferito lasciare Spotify è la retribuzione degli artisti. C’è tutta una polemica intorno al fatto che i servizi di streaming non paghino a sufficienza chi fa musica, una polemica in cui fatico ad entrare e su cui ho posizioni probabilmente troppo superficiali (eh, invece di solito…). Quel che conta è che nel momento in cui decido di spendere 10 euro al mese per ascoltare musica online, preferisco farlo abbonandomi a chi paga di più gli artisti. Tidal in questo è largamente meglio di Spotify, già con l’abbonamento “base” paga tre volte meglio, fino ad avere una politica imparagonabile ai competitor quando si sceglie l’abbonamento plus. (ref. e ref.)

Sulla base di queste due ragioni, non nego anche spinto da un influencer, ho fatto il salto.
Il costo del mio abbonamento rimane il medesimo, 9,99 euro/mese, e permette di collegare all’account fino a 5 dispositivi.

E QUINDI COM’E’ STO TIDAL?
Se della qualità ho già detto, il secondo punto nodale che ho valutato prima di cambiare è ovviamente relativo al catalogo. 
Al primo impatto, mi è sembrato che su Tidal mancasse un sacco della musica che ascolto e questo mi aveva frenato dall’approfondire. Smanettandoci invece è venuto fuori che c’è grossomodo tutto quello che avevo su Spotify, solo è molto più complesso da trovare a causa di una ricerca interna fatta con il culo. Spannometricamente, in un caso su 20 l’artista non mi è saltato fuori cercandolo per nome, neanche filtrando la ricerca per artista. In quei casi sono riuscito a rimediare cercando un disco specifico, magari qualcosa con un titolo non troppo ordinario, e arrivandoci da lì. In alcuni di questi casi, fallendo anche con il disco, ci sono arrivato da una canzone. Non è sempre necessario farsi tutto questo sbattimento, ovviamente, per trovare quel che si vuole sentire, però potrebbe esserlo, soprattutto nel caso di artisti non propriamente mainstream. Una cosa che si può fare tuttavia è marcare i musicisti che si ascoltano come preferiti, quindi una volta trovati è sufficiente ricercarli in quella sotto lista le volte successive, eliminando la difficoltà.
Altro problema che ho riscontrato è che a volte piccoli gruppi poco conosciuti hanno degli omonimi e ci si ritrova quindi per le mani una discografia mista, fatta di album di gruppi diversi che per Tidal sono invece lo stesso. Non è particolarmente noioso, a meno che si abbia attiva l’opzione per cui al termine di un disco viene riprodotto in automatico quello seguente. Per quanto concerne il mio catalogo di ascolti, si tratta anche in questo caso di una percentuale minima, ma è giusto segnalare la cosa.
Al momento, l’unica roba che mi pare proprio non ci sia e che mi piacerebbe ci fosse è “Amateurs & Professionals” dei Penfold, che invece era presente su Spotify. Si tratta di un disco introvabile anche in formato fisico, di una band emocore durata pochissimo e conosciuta meno, quindi non mi stupisce troppo la mancanza. Per il resto invece, quel che per ragioni di etichetta/territorio/altro non è disponibile in Tidal non lo era neanche in Spotify.
La pecca che per me è davvero dura da digerire al momento, invece, è l’impossibilità di personalizzare la copertina delle playlist, che viene automaticamente assemblata dal software come collage delle copertine dei dischi di cui la playlist è composta. Da maniaco ossessivo, quando faccio una playlist ci butto davvero il sangue e mi piace gestirne ogni dettaglio, dalla selezione, alla scaletta ad appunto la copertina. Per me è una mancanza gigante, ma avendo questa recensione un target non per forza mentalmente disturbato come chi scrive, la riporto tra i “minor issues”.
Per il resto al momento la valutazione è largamente positiva: la app mi pare completamente analoga a quella di Spotify nell’utilizzo e nella navigazione, anche in auto. Mancano forse le finezze più social, ma non ne ho mai sentito l’esigenza neanche quando le avevo a disposizione. 
Consiglio quindi caldamente il cambio a chiunque paghi per ascoltare musica in streaming, ne vale a mio avviso la pena.

Per chiudere, provo ad incorporare un disco nel blog giusto per vedere l’effetto che fa e come si presenta a chi non ha l’abbonamento al servizio.
Uso un disco senza senso a cui sono finito completamente sotto negli ultimi giorni, ma di cui forse scriverò più avanti. Schiacciare play aiuta a farsi un’idea più centrata di quel che ho definito “musica la cui pulizia si piazza tra il rumore dei vicini che tassellano il muro la domenica alle 8:30 e il latrato dei cani” qualche riga più su.

NBA All-Star Game 2022

Questo 2022 non è che sia iniziato benissimo.
Un po’ forse non sto apprezzando abbastanza che la terribile infezione intestinale che mi ha portato in ospedale sabato scorso e che mi costringe a letto fatto di antidolorifici ancora tre giorni dopo non sia COVID, un po’ credo sia per la difficoltà oggettiva nello scegliere i 10 candidati da mandare all’Allstar Game NBA in questo 2022.*
Votare è un casino quest’anno.
Forzare la scelta a 2 guardie e 3 ali già è discutibile, ma funziona se poi non metti un sacco di ali piccole come guardie. Il punto chiave però è che simpatia e antipatia vincolano molto le mie scelte e bisogna farle quadrare dentro il quadro generale restituito dalle statistiche dei singoli e dal rendimento delle franchigie, in una specie di equilibrio molto precario. 
La selezione forse bizzarra e forse no della foto qui sotto nasce da tutto questo. Oltre l’immagine parte la spiega.

WEST
Iniziamo con le scuse a Chris Paul. Mi spiace Chris. Fino a che calcherai il parquet sarai sempre il mio MVP, quindi perdonami se non finisci nella selezione. Toccava fare spazio. Come avrei potuto fare a non votare Curry, per esempio? GS si gioca il miglior record a ovest (ok, contro di te, hai ragione) con un roster partito a dir poco zoppo e ha appena infranto il record di triple ogni epoca. Impossibile non votarlo. Di fianco ci mettiamo Morant perchè, te lo dico, sarà colui che viene dopo di te, possibilmente vincendo qualcosina in più. Memphis è quarta a ovest con un record solido e Ja sta giocando ad un livello pazzesco, oltre ad essere una specie di effetto speciale in carne ed ossa. Scusa Chris, ma non ho altri posti.
Se mi ero ripromesso una cosa quest’anno era di non chiamare LeBron tra i lunghi, ma come si fa? Ok che i lakers stanno giocando malissimo e sono stati costruiti malissimo (da lui), ma se non hanno ancora buttato all’aria la stagione è solo perchè LBJ si è messo a giocare da 5 facendo numeri che, per me, sono inspiegabili. Quindi niente, tocca tenerlo dentro. Poi portiamo Jokic, mancherebbe altro, e Ayton per quel fatto che i Suns sono primi ad Ovest e il poveraccio, dopo aver contribuito largamente a portarli in finale lo scorso anno, si sia visto rifiutare un contratto che forse non era esattamente al suo livello attuale, ma che vista la combo di risultati ed età tutto sommato avrebbe anche meritato di firmare.
E’ stato difficile? Sì, ma più semplice che scegliere per quelli ad est.

EST
Lo so, manca LaMelo, che è assurdo in assoluto, ma che diventa tipo escludere Ronaldinho da una partita di beneficienza dove da fermi e senza difesa la sua fantasia diventa un fattore di spettacolo unico: una bestemmia, in pratica. Avessi potuto mettere DeRozan ala piccola lo avrei portato di sicuro, ma non si può. E non si può neanche lasciare a casa questo DeRozan, direi, capitano coraggioso di questi Bulls per cui è difficile non fare il tifo. Avrei potuto portare Ball al posto di Vanvleet, certo, ma qualcuno avrebbe dovuto spiegarmi cosa ci fanno i Raptors in corsa playoff con un roster da dopolavoro o poco più. Manco mi piace Vanvleet, causa Dunkest mi sta pure un po’ sul cazzo, ma oh, i fatti lo cosano (cit.).
Reparto lunghi quindi lo apriamo con Miles “Mille Cuori di Manq” Bridges, il giocatore degli Hornets che mi sta più simpatico in assoluto. La stagione sta andando altalenante, come da aspettative, e onestamente a questo punto mi aspettavo di essere messo un filo meglio come record ad est, soprattutto alla luce del fatto che non abbiamo avuto troppe defezioni, ma tocca sempre ricordarsi che 3/5 del quintetto titolare sono Rozier, Oubre e Plumlee. Però dai, Bridges ha fatto un salto di qualità pazzesco, se non si merita il MIP, si merita questa chiamata. Insieme a Miles chiamo Allen dei cavs. Magari avessimo noi un Allen, invece di Plumlee, forse faremmo noi la stagione super sorprendente che sta facendo Cleveland. Fine, no? Manca qualcuno?
Ah sì. Porto anche Durant. Ti odio KD, sei il giocatore che mi sta più sul cazzo di tutta la lega e spero tu non vinca mai più niente. Però oh, sei bravino.


* se queste due cose per voi non sono sufficienti per definire “non benissimo” questo inizio di 2022 vi faccio presente che è l’11 gennaio.

Prossimi concerti: una chiacchierata con Valeria

Oggi, 10 Ottobre 2021 per chi leggesse in differita, è il giorno della riapertura dei concerti. Sono passati infatti ormai quasi due anni da quando il Covid19 ha ribaltato le vite e la società in cui viviamo e una delle vittime più martoriate è stata la musica dal vivo.
Da qualche settimana rimugino sull’argomento in vari modi, ma alla fine ho pensato che il prodotto della mia tastiera sarebbe al più potuta essere una spataffiata livorosa e inutile che avrebbe tirato in mezzo gli stadi e i comizi di Conte, ma che di fatto avrebbe aggiunto zero al dibattito poichè farina del sacco di uno che ai concerti, al massimo, ci va quando riesce a piazzare i figli da qualche parte. Ho quindi pensato fosse più interessante fare qualche domanda a chi coi concerti ci lavora e nella musica dal vivo ci sbatte tutto il proprio sangue, così ho scritto alla Vale facendole un paio di domande.
Valeria, per chi non la conoscesse, lavora per il Bloom e scrive per Bossy e per Awand. Da sempre dentro al mondo di chi mette la musica su un palco con delle persone davanti, ora è una delle teste dietro a Tutto il nostro sangue, una roba bellissima che dovreste supportare tutti e che mi ha permesso qualche riga fa di fare quella gag oscena.
Come sempre su questo blog, io faccio domande farcite di illazioni e chi mi risponde mi spiega con pazienza come stiano davvero le cose, resistendo alla necessità di mandarmi a cagare.
Nello specifico, la parte interessante è quella in cui lei risponde in corsivo.
Buona lettura.

Iniziamo dalla fine, dall’ultimo concerto. Il mio è stato nel 2019 e a memoria potresti averlo organizzato tu. In questi quasi due anni ho pagato per vedere roba in streaming, ma non sono riuscito più a vedere qualcuno su un palco, prima perchè non mi ci sentivo al sicuro e ora perchè i concerti seduti vanno oltre la mia comprensione. A marzo 2020 invece c’è stato l’#UltimoConcerto, quello con l’hashtag, l’iniziativa messa insieme da un numero consistente di addetti ai lavori e che si poneva lo scopo di dare un segnale a tutti riguardo al momento terribile che la musica live sta(va) passando nel nostro Paese. L’iniziativa fu recepita in modo divisivo e io stesso non ero del tutto convinto si fosse scelta la strada giusta, sempre che una strada giusta esista. Sto solo facendo un mini riassunto, non voglio tornare sulla polemica che ne era scaturita, ma se vuoi commentare quella fai pure. Quello da cui mi interessa partire è che dopo quell’#UltimoConcerto si è parlato del #ProssimoConcerto, con interpellanze parlamentari, DDL mirati e comunicati ministeriali che sembravano indicare qualcosa si fosse mosso davvero, che con quell’iniziativa aveste in qualche modo dato una spallata alla questione. Sei mesi dopo, la prima domanda non può che essere: come procede? Si è davvero mosso qualcosa, diradato il polverone di marzo?

Dietro a quella che è stata un’iniziativa plateale, vista, seguita, giudicata, c’è una macchina che anche a camere spente si è mossa e ha continuato a muoversi perché le cose cambiassero, e cambino, non solo nell’ambito pandemia, ma più in generale perché il settore spettacolo trovi un riconoscimento e una tutela fino ad oggi mancanti.
Ultimo concerto non era una festa, non era pensato per esserlo e già il titolo dell’iniziativa a mio avviso parla da sé. Mi sconcerta il livore che ha scatenato, come non sia affatto chiaro cosa ci sia dietro ai ‘’nostri artisti che ci fanno tanto divertire e appassionare”, e di come le provocazioni, le rotture e le proteste le capiamo e abbracciamo solo quando ci piacciono (o ci fa comodo?). Comunque ha centrato l’obiettivo, smuovere.
Come mi sconcerta chi non vuole suonare davanti alle persone sedute o non vuole andare ai concerti con le sedie. Tutto condivisibile, per carità, ma ci sta un punto: se non si supportano i posti che sono in ginocchio e se sono sopravvissuti hanno perseguito la loro missione di centro culturale rispettando le regole e stando alle capienze imposte, questi posti poi chiudono, non stanno in piedi.

Se i primi a non supportare, a non turarsi il naso per le modalità non proprio entusiasmanti (in primis per gli organizzatori, neh) in cui si sono potuti realizzare i concerti sono quelli che hanno per mesi hanno hashtaggato #mimanchicomeunconcerto, di cosa stiamo parlando?
Da lunedì si torna capienza 100%, non sembra vero, dopo tutto questo tempo, ma lo è.

Il discorso che fai ci sta tutto, supportare è la base ed è normale sensibilizzare tutti a fare la propria parte. Ho però l’impressione che da dentro si viva la musica e il mondo che le gira intorno con una consapevolezza ed un’etica che spesso è ingenuo attribuire anche al “consumatore”. Probabilmente, in tantissimi casi, chi va ad un concerto non ha idea di quel che ci sia dietro e non sono convinto stia lì il problema di fondo. Un po’ come posso sensibilizzare al consumo equo e solidale, ma nei fatti la politica che determina le condizioni del lavoro vola ad un’altezza diversa rispetto alla superficialità di chi compra il caffè senza stare troppo a ragionare se il prezzo dello scaffale permetta o meno a chi lo coltiva una condizione lavorativa umana. Un conto è far passare la consapevolezza al consumatore, un conto e dargli dello stronzo.
Ad ogni modo, la bella notizia è che si torni a capienza piena ed è davvero una vittoria a questo punto.
La domanda che ti faccio quindi è: quanto è compromessa la situazione? L’impressione che mi sono fatto da fuori è che le vittime sono state tante e che anche il futuro sarà complicato, con tanti tour internazionali che salteranno l’Italia forse (dimmelo tu) anche a causa dell’averci messo troppo a dare garanzie su quel che si potrà fare qui da noi questo autunno e nel prossimo anno. Tu come lo vedi il prossimo futuro dei concerti in Italia?

Assolutamente, chi non conosce una minima di dinamiche del settore fa fatica a considerare la musica come un lavoro e tutto quanto sta dietro a una band che suona sul palco, e di conseguenza giustamente come funzionano le cose. Però, anche vero, che a tutti i livelli, in questi due anni di pandemia tramite social non sono mancate/i addette/i ai lavori che hanno cercato di spiegare il problema per propria voce o tramite organizzazioni di settore. Lungi da chiunque dare dello stronzo a chi non conosce/non comprende le dinamiche o semplicemente non gliene frega nulla, è una considerazione diversa, più che incattivata, estremamente sconsolata: mesi su mesi di lockdown a leggere #mimanchicomeunconcerto, condivisioni di post nostalgici alla vita di prima, alle cose non si potevano fare, alla musica dal vivo mancante, commiati per i locali che hanno chiuso… e poi, quando si può riprendere, in una condizione preclusiva e penalizzante sia per chi va a vedere, ma anche per chi mette a disposizione il concertame, ci si tira indietro, storcendo il naso. Quindi non è che #mimanchicomeunconcerto, è #mimanchicomeunconcertovistoegodutocomevoglioaltrimentinientedaiaccendonetflixestosedutomasuldivano.
Quello del 10 Ottobre è un piccolo passo, sicuramente bello, ma ribadisco piccolo: tenendo i posti seduti come parrebbe ad oggi (10/10/21), per il settore è ancora tosta, non è un ritorno alla “normalità”. Che il settore musica dal vivo non stesse bene già si sapeva, anche prima del covid-19 che però ha sicuramente inflitto un’ulteriore batosta. E’ anche vero che credo ci si stia proiettando, seppur lentamente, ad un ritorno alle modalità di fruizione della musica dal vivo nelle modalità che conosciamo. La speranza è che si possa nei prossimi mesi tornare a vedere i concerti in piedi e che non saltino più date che già sono a volte al secondo rischedule.

Leggendo la tua risposta deduco si riapra al 100%, ma coi posti a sedere e questa mi pare l’ennesima presa in giro, quindi volevo chiudere con l’ultima domanda. Uscendo dalla questione riaperture, mi pare che le misure di sostegno al settore negli ultimi due anni siano state poche e del tutto insufficienti. Puoi dirmi cosa è stato fatto (se è stato fatto qualcosa) nel concreto per provare a dare una mano al mondo della musica dal vivo da parte delle istituzioni?

Sì, lo Stato qualcosa ha stanziato, non abbastanza, non tutti ne hanno goduto allo stesso modo e altrove – es. in Germania – è stato fatto certamente di meglio.
Parallelamente bisogna ricordare che le venue non sono rimaste con le mani in mano ad aspettare le misure governative, alcune hanno avviato campagne fondi, tante si sono inventate e reinventate per garantirsi il sostentamento e sono state attivate iniziative come scena unita, ideate per rispondere alla situazione emergenziale.
Consiglio vivamente, per informarsi non solo sui numeri specifici dei soldi stanziati e delle misure adottate nel corso del tempo e in modo preciso, ma anche per approfondire tutto quello che è successo in questi ormai due anni in termini di azioni governative e di richieste per la tutela, la ripartenza e la possibilità di garantire per il futuro maggiori riconoscimenti per il settore, di consultare la sezione Iniziative e News | KeepOn Live, il sito dell’associazione di categoria live club e festival italiani.

Canzoni che amo di gruppi che odio

Qui è essenzialmente dove butto mezzo pomeriggio in cui dovrei assolutamente lavorare, incasinandomi con ogni probabilità il weekend, per scrivere un post e fare una playlist.
I dettagli però li vediamo dopo, adesso è necessario vi leggiate questa cosa qui.

La musica nella mia vita è sempre stata l’elemento di autodeterminazione principale, quello attraverso cui tiravo le righe dei confini che via via ho utilizzato per definire me stesso e il resto. A quarant’anni non ne farei proprio una questione di Bene e Male, ma mentirei se dicessi che è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui la musica era questione di appartenenza non tanto ad una scena o a qualche struttura sociale (dieci anni abbondanti ad andare a concerti a cui presenziavano sempre le stesse cento facce, ma senza mai nemmeno provare a parlare con qualcuno non sono decisamente il CV di uno che vive la scena), ma più all’immaginario di quello che avrei voluto essere, o sembrare di. In un processo di questo tipo, l’odio è lo strumento principale che un ragazzino può usare per delimitare i confini, perchè senza un antagonismo sincero verso ciò che sta fuori dal proprio recinto, quel recinto diventa sfumato e si finisce per non avere più idea di chi si è e di chi non si voglia diventare.
Probabilmente la musica non è l’unico strumento che permette questo processo di crescita, ma io non ne ho avuti altri e forse per questo quando sento ragazzini vestiti tutti uguale passare con noncuranza da un pezzo trap ai Maneskin al grido di “mi piace tutta la musica”, mi prende una paura fottuta e sento la necessità di abbracciare i miei figli e dire loro che andrà tutto bene. “Ok boomer” è una possibile risposta a questa mia spataffiata, ma è una risposta sbagliata.
Alla fine però, per quanto solida sia l’armatura che ci siamo incollati addosso, se si è quel tipo di persona che può stare in una macchina mentre gira un disco che non ha scelto lui senza per forza doverlo coprire con le parole o che spaccherebbe il dito dell’amic* che schiaccia skip a metà di un pezzo nonostante il pezzo in questione sia una merda inqualificabile, allora c’è e ci sarà sempre un tallone d’Achille. Un minuscolo spazio indifeso in cui le canzoni belle si insinuano e si fanno spazio fino al cervello, arroccandocisi dentro per non uscirne mai più. Nella mia vita ho odiato tantissimi gruppi, alcuni da subito, alcuni in corso d’opera. Difficilmente ne ho riqualificati dopo averli odiati, magari pensandoci qualcosa in mente mi verrebbe anche, ma diciamo che non farebbe statistica. Il marchio dell’infamia è una strada a senso unico. La maggior parte di questi gruppi ai miei occhi ha prodotto solo merda e, anche se è indubbio che potrei approfondire e verificare se sia vero anche oggi, non mi sento particolarmente in difetto nel dire: “Anche no” e tenermi la mia opinione. Eppure ci sono pochi infamissimi elementi che quel varco l’hanno trovato e sono riusciti ad infilarci un pezzo, maledetti loro.
Questo post e questa playlist parlano di loro.

Ci sono tante ragioni per odiare un gruppo e radicalizzare il proprio gusto musicale e nel fare questa playlist credo di aver elencato una dozzina di gruppi che odio per ragioni molto diverse tra loro. La cosa più difficile da ammettere è quanto suoni bene questa oretta di musica.
Fa quasi incazzare.
Ora devo resistere alla tentazione di fare il Nolan delle playlist, quindi chiudo il post senza andare nel didascalico e spiegare le ragioni delle scelte, anche se l’idea che qualcuno possa chiedersi cos’ho mai contro, che cazzo ne so, i Black Eyed Peas mi dilania dentro. Nel caso remoto qualcuno fosse arrivato fin qui a leggere e avesse il dubbio, per favore, me lo dica.