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38 Minuti

2:11 p.m.
Il magazzino è piccolo e abbastanza incasinato.
Pacchi di vecchie brochure e rimasugli di chissà quali attività promozionali si contendono lo spazio sugli scaffali arrugginiti. I cartoni riportano scritte in diversi colori e diverse calligrafie, che a conti fatti sono l’unico indizio che permetta di risalire a quando sono stati abbandonati qui. Molte appartengono a persone che hanno lasciato l’azienda.
Non ci sono finestre. Oltre alla porta blindata da cui si accede al locale c’è solo un piccolo lucernario 30×80 cm, in alto sulla parete di sinistra. Il vetro è sporco ed incrostato ed è impossibile capire se affacci all’esterno o su una qualche intercapedine tra le fondamenta del palazzo. L’unica cosa sicura è che da lì non filtra alcuna luce, l’illuminazione è tutta a carico di una lampada alogena che pende dal centro del soffitto.
In azienda chiamano questo posto ARCHIVIO con la stessa serietà con cui definiscono “Food & Beverage Manager” il ragazzo che rifornisce i distributori automatici. È probabile che alle risorse umane abbiano fatto uno studio per identificare la denominazione che allontanasse maggiormente dalla testa del dipendente l’idea di muffa alle pareti.
Nella stanza però c’è odore di umido. Entrandoci per qualche minuto ad “archiviare” l’ennesimo pacco di carta sprecata non ci si farebbe caso, eppure c’è ed è piuttosto pesante.
Quattro minuti fa la radio ha troncato di netto un pezzo di Dua Lipa per trasmettere il messaggio di una voce metallica che recitava più o meno così:

“LA CITTÀ È BERSAGLIO DI UN IMMINENTE ATTACCO MISSILISTICO. METTETEVI AL RIPARO. QUESTA NON E UN’ESERCITAZIONE.”

Ci sono voluti duecentoquaranta secondi perché Meg uscisse dall’ufficio, facesse tre piani di scale e si infilasse dentro al magazzino. Ci ha trovato Nic.
Lui è rannicchiato in un angolo. Sta piangendo. Trema.
Lei è seduta a pochi centimetri dalla porta, con la schiena appoggiata ad uno scaffale e le gambe stese di fronte a lei. In questo momento, non riesce a pensare ad altro che a questo terribile puzzo di umido.

2:17 p.m.
– Sarà passata?
– E io cosa cazzo ne so…
Nic ha appena alzato la testa dalle gambe. È riuscito a calmare un pochino i nervi perché, in cuor suo, se qualcosa sarebbe dovuto succedere sarebbe già successo. Quanto può impiegare un missile ad arrivare al bersaglio? Ormai sono in archivio da un’infinità e non gli sembra di aver sentito nulla che potesse far pensare all’impatto. Nessun botto, nessuna scossa. Nel tentativo di razionalizzare si è trovato a mettere insieme nella testa tutte le possibili nozioni sulle armi nucleari di cui è a conoscenza, ma la cosa più che calmarlo lo stava gettando nuovamente nel panico, così ha deciso di staccare la fronte dalle ginocchia e parlare con Meg. Una semplice domanda. Un’implicita richiesta di conferma per distendere i nervi. Perché doveva essere sempre così stronza?
– Intendo che ormai sarà passata. Siamo qui da un sacco di tempo.
– Siamo qui da neanche dieci minuti.
– Solo?
– Solo.
Nic sa di aver lasciato l’iPhone sulla scrivania, ma ha l’orologio. Non è più abituato ad usarlo per controllare l’ora e quindi fino a quel momento non ci aveva pensato. Adesso però lo guarda.
– Quanto dici che ci vorrà?
– Perché non esci a controllare?
Maledetta stronza.

2:19 p.m.
Meg ha con sé il suo cellulare e guarda il display. L’indicatore dice che lì sotto non c’è segnale e lei ha smesso di provare a smentirlo. Quando la radio ha passato il messaggio l’unica cosa che ricorda di aver fatto è chiamare casa. Non sa come sia uscita dall’ufficio né come sia arrivata in magazzino. Ricorda solo il maledetto “bip” della chiamata che cade. Una, cinque, dieci volte. Le bestemmie a denti stretti, il groppo in gola e quel continuo “bip”. Nel momento in cui tutta la città stava telefonando, prendere la linea sarebbe stato meno probabile che vincere la lotteria, eppure non riusciva a smettere di provarci, ancora e ancora.
Sua figlia oggi non aveva lezione. Abitano fuori città, seppur non di molto, e in teoria dovrebbe essere al sicuro. Il missile che sta arrivando però potrebbe essere farcito con chissà quale soluzione all’avanguardia per la distruzione di massa. Magari è una bomba atomica, magari un’arma chimica o batteriologica.
Meg si ritrova a sperare sia una cosa che li ammazzi sul colpo. Più ci pensa e più capisce che la chiamata che ha tanto desiderato di poter fare non era per mettere in guardia la sua bambina, né per assicurarsi fosse al sicuro.
Meg capisce di non voler morire senza sentire la sua voce un’ultima volta.

2:27 p.m.
Nic ora gira per il magazzino e rovista tra gli scatoloni. Non sa cosa sta cercando, ma farlo lo aiuta a tenere impegnata la testa. Trova un sacco di vecchio materiale pubblicitario destinato a fiere e convegni, risme di carta intestata con indirizzi di sedi precedenti, buste, faldoni con ricevute di acquisti fatti prima del millennium bug.
L’azienda tiene uno storico di tutto – pensa Nic –  ed è una buona cosa, ma forse il modo in cui il materiale viene accumulato si potrebbe ripensare. Un archivio dovrebbe avere una catalogazione più precisa e dettagliata, dei rimandi univoci, sigle ed etichette ben leggibili.
Nic saprebbe come fare a gestire il tutto, è una persona precisa e meticolosa e ha le competenze gestionali per poterlo fare. La job description a cui sta pensando è “Records & File Manager” ed è un mezzo sorriso quello che si apre sul suo volto prima che il cervello collochi questa sua aspirazione dove dovrebbe stare: nel futuro.
Nic ricorda che potrebbe non avere un futuro.
Sta per sfogare la nuova ondata di panico in un grido quando Meg gli parla.
– Si può sapere cosa stai cercando?
– Ricordi quella fiera di tre anni fa a Londra?
– Sì, perché?
– Forse è rimasto qualche gadget. Avevamo fatto brandizzare
– LE RADIO! Cazzo, aspetta che ti aiuto.

2:33 p.m.
Scatoloni, borse di plastica, persino qualche sacco nero di quelli usati per il pattume. Su quegli scaffali c’è un mondo, reperti attraverso cui gli archeologi potrebbero ricostruire la storia dell’azienda anche tra migliaia di anni. Meg però non vede alcun motivo per cui, tra mille anni, a qualcuno dovrebbe fregare qualcosa dell’azienda.
Lei e Nic si sono divisi le pareti, in modo da lavorare in maniera indipendente. Una sua idea, ovviamente. Ora Meg ha coperto circa metà della sua area di competenza senza trovare nulla di utile. Con il passare degli scatoloni, la spinta data dall’euforia iniziale si è via via affievolita lasciando spazio al dubbio di stare sprecando del tempo. Posto che sia rimasta qualcuna di quelle orrende radioline verdastre e posto che loro riescano a trovarle, inizia a credere non se ne faranno un bel nulla dentro una stanza in cui non prendono nemmeno i cellulari.
– Mi dici perché mi odi tanto?
Meg si volta a guardare Nic e lo trova concentrato nella ricerca. E’ probabile le abbia fatto quella domanda senza neanche voltarsi a guardarla in faccia. Cristo, se chiedi a qualcuno perché ti odia, il minimo è guardarlo negli occhi. Devi essere pronto alla risposta, poterla sostenere. L’istinto le ha già portato alle labbra l’ennesima replica tagliente, uno dei tanti vaffanculo che ogni mattina si infila in faretra prima di varcare la porta dell’ufficio. Eppure si ferma. Respira.
– Io non ti odio. Nemmeno ti conosco.
– Non mi saluti mai. La mattina mi capita di incrociarti per l’ufficio e dirti “buongiorno”, ma tu non rispondi. Nemmeno un cenno. Quest’anno ti ho persino inserita tra i miei SMART Goals
– Gesù… ora sì che ti odio.
– Scusa?
– Senti Nic, io non so nemmeno chi sei o in che reparto lavori. So come ti chiami per via del cartellino che porti appeso al taschino. Questo posto è diventato un andirivieni di volti, non esiste più un orario di lavoro, un proprio ufficio. Ognuno si presenta all’ora che vuole e fa il suo, sedendosi nella prima scrivania che trova libera. Comunichiamo tra noi tramite email, Cristo santo, e magari siamo a due sedie di distanza. Non ti saluto come non saluto le persone che incrocio in metropolitana per venire qui.
– Beh, nemmeno ci provi però.
– Non provo a fare cosa?
– Ad instaurare dei rapporti.
Meg si pente di non averlo mandato affanculo. Tra tutti gli idioti che popolano questo posto doveva capitarle proprio Mr. Spirito Aziendale per la convivenza forzata dei suoi ultimi momenti di vita. Uno che discute i propri obbiettivi personali con l’ufficio risorse umane, uno che fa amicizia perché glielo chiede il capo, o peggio, perché lo reputa parte delle sue mansioni.
Di colpo sente di essere sul punto di crollare, abbandonarsi alla disperazione le sembra l’unica cosa che resti da fare.
– ECCOLE!
Il grido di esultanza di Nic la trattiene sull’orlo del buco nero in cui la sua mente stava per precipitare. Meg si fionda da lui e senza rendersene nemmeno conto gli strappa di mano quella piccola radio. Allunga l’antenna, poi ruota la manopola del volume che fa anche da interruttore. Un click, seguito dal classico rumore bianco dell’assenza di segnale. Merda.
Brandendo la radio come farebbe un rabdomante inizia a girare per lo stanzino in cerca di una trasmissione, anche minima, anche distorta. La sua attenzione ad ogni percettibile variazione di suono è massima.
Ci vuole qualche secondo, forse qualche minuto, poi accade:

“BZZZ…SAGLIO DI UN IMMINENTE ATTACCO MISSILISTICO. METTETEVI AL RIPARO. QUESTA NON E UN’ESERCITAZIONE. ATTENZIONE!”

2:39 p.m.
La radio ripete ininterrottamente lo stesso messaggio, in loop.
Nic era convinto non avrebbe mai più sentito quell’allarme. Era sicuro che, se fossero riusciti ad intercettare una qualche trasmissione, sarebbe stata di buone notizie.
E’ per questo che ora sta di nuovo piangendo, rannicchiato in un angolo dell’archivio. A differenza di prima anche Meg ora è in lacrime, ma questo Nic non lo sa. Potrebbe essere solo o in mezzo a mille persone in questo momento, non farebbe alcuna differenza.

2:41 p.m.
La stanza sembra avvolta dal silenzio. La radio continua a sputare lo stesso avviso letto dalla stessa voce metallica, ma ormai è un sottofondo indistinto che il cervello di Meg non registra nemmeno più. Osserva Nic, ha lo sguardo fisso avanti a sé e si dondola leggermente avanti ed indietro con il busto. Gli occhi sono rossi, ma probabilmente le lacrime sono finite. Finiscono per tutti, ad un certo punto.
– Ehi Nic, scusa se ho fatto la stronza.
Nic non risponde.
– Andrà bene – insiste lei – Vedrai che andrà tutto bene.
– Sai a cosa stavo pensando?
– No.
– Mi capitava spesso di immaginare il mio funerale. Hai presente? Ti chiedi “come sarebbe se morissi domani?” e cominci a fantasticare. Inizi a proiettare le immagini nella testa, come se guardassi con gli occhi del tuo fantasma che assiste all’evento senza poter intervenire. Parti dalla musica che vorresti risuonasse lungo il corteo e arrivi alle persone che ci saranno, quelle che non ci saranno, quelle che verranno anche se di te non gli è mai importato…
– Cristo, ti ho detto che mi dispiace ok?
– No, aspetta. Lasciami finire, non dicevo per quello. Stavo pensando a quanto sia assurdo l’aver immaginato tantissime volte i dettagli del mio funerale e poi morire in questo modo, in un attacco nucleare che spazzerà via tutto. Niente superstiti a piangere per noi, nessuno rimasto a sentire la nostra mancanza. Nessun funerale.
– Nic piantala, porca puttana. Noi non moriremo!
Dio, quanto vorrebbe esserne sicura.

2:45 p.m.
Sono passati trentotto minuti da quando è stato dato l’allarme e questa volta è il messaggio della voce metallica ad essere troncato brutalmente.
Dalla radio esce un fischio.
Nic chiude gli occhi, si raggomitola ancora più stretto in terra ed inizia a pregare.
Anche Meg chiude gli occhi, nella testa l’unica immagine è il volto della figlia.
È una frazione di secondo, eterna, poi la voce metallica scandisce un nuovo messaggio:

“ATTENZIONE. NON C’È ALCUN ATTACCO MISSILISTICO IN CORSO. SI È TRATTATO DI UN ERRORE. RIPETO. NON C’È ALCUN ATTACCO MISSILISTICO IN CORSO.”

Nic abbraccia Meg con tutte le sue forze e Meg ricambia l’abbraccio con lo stesso vigore. Si tengono stretti per quello che ad entrambi sembra tanto, tantissimo tempo e tutti e due non fanno che pensare al fatto che non sia un problema.
Ora hanno tutto il tempo che vogliono.

2:46 p.m.
È Meg a staccarsi per prima. Indietreggia di un passo. Guarda Nic.
Odia l’azienda, odia il suo lavoro.
L’aveva vista piangere.
– Sei licenziato.


Questo racconto l’ho scritto ormai diversi mesi fa con l’idea di partecipare ad una bella iniziativa editoriale messa in piedi da Fabrizio.
L’iniziativa non ha avuto il successo che speravamo, quindi questo raccontino sarebbe stato destinato a restare nel cassetto. Lo metto qui nella speranza che a qualcuno vada di leggerlo e darmi un feedback.

NBA All-Star Game 2019

E’ iniziato il 2019!
Dopo diversi anni passati ad autoimpormi di fare il post conclusivo per l’anno, nel 2018 ho deciso che anche basta e così ho scollinato senza nemmeno un augurio.
Buon 2019, cari lettori!
Concluse le formalità è tempo di iniziare con il piede giusto una nuova stagione di pubblicazioni e quale potrà mai essere il modo migliore se non presentando la mia selezione per il prossimo NBA All Star Game?
Ecco i quintetti.

E ora, immancabile, la spiega.

WEST:
Davis: attualmente il mio giocatore preferito della lega. Devastante sotto ogni punto di vista, c’è solo da sperare che prima o poi finisca in un contesto che gli permetta di giocarsi qualcosa di serio. Possibilmente non a Golden State.
Doncic: che meraviglia.
Gallinari: con Danilo non c’è più l’amore che c’è stato anni fa. Ultimamente mi era entrato non poco in antipatia, vuoi per il pugno in nazionale, vuoi per le dichiarazioni dell’anno scorso o vuoi anche solo per la scelta di inseguire i soldi. Però come la ignori la stagione che sta facendo?
Rose: fosse possibile, lo voterei in tutte e cinque le posizioni. Deve andare all’ASG. Vederlo tornare rilevante è una delle più grandi soddisfazioni sportive che mi ha regalato il 2018.
Murray: volevo votare uno di Denver e non avevo più spazio tra i lunghi. Vale?

EST:
Embiid: altro giocatore che amo parecchio, in una franchigia che all’inizio mi stava simpatica e che invece adesso mi da un po’ in culo. Sta facendo una grandissima stagione direi, confermandosi uno dei centri dominanti della lega. Direi indiscutibile.
Antetokounmpo: tutti lo amano, io no, ma quest’anno sta giocando da MVP e non votarlo credo invalidi la scheda in automatico.
Leonard: anche qui, non certo un mostro di simpatia, ma dopo tutto il baillame con gli Spurs era molto in dubbio stessimo ancora parlando di un giocatore vero, invece è tornato e con la nuova canotta sta facendo più che bene. Lo voto più che altro perchè ha inguaiato San Antonio.
Walker: quota Charlotte, soprattutto visto che se lo gioca in casa. Che incidentalmente sia anche il miglior realizzatore ad est, oggi, non guasta.
Richardson: sorpresissima di quest’anno. Ovviamente ci sarebbero altri da votare prima di lui, ma mi stanno tutti sul cazzo.

Grandi esclusioni:
Direi nessuna. Però meriterebbero un voto sia Carter, che Wade, che Dirk per farsi l’ultima passerella. Dateglielo voi.

Bohemian Rhapsody

Ieri, davvero contro ogni previsione, sono andato a vedermi il film sui Queen.
Non credevo che alla fine lo avrei visto, certamente non al cinema: la storia dei Queen non mi sembrava avesse davvero nulla che valesse la pena raccontare e dal punto di vista musicale ho smesso di ritenere i Queen rilevanti grossomodo in terza media.
Come capita a volte però ho iniziato a chiacchierarne con alcuni amici su whatsapp, tra cui un fan piuttosto hardcore che se lo era già sparato due volte e che avrebbe fatto volentieri tripletta qualora mi fosse servito un accompagnatore, e mi sono fatto tirare in mezzo. Esistono cose peggiori di andare al cinema a vedere un film che non ti interessa, persino dell’andare a spararsi un film brutto.
L’unica curiosità vera che avevo nei confronti di questo Bohemian Rhapsody stava nel livello di adorazione per il Grande Artista che ci avrei trovato dentro.

Qui serve una nota che normalmente avrei messo in fondo usando un asterisco, ma che invece è necessario inserire subito a spaccare il discorso.
E’ il  2005, sono con lo stesso amico di cui sopra in un negozio di board game a Romano di Lombardia per acquistare i premi per i vincitori di un torneo di giochi di ruolo che avevamo messo in piedi. Nello stesso negozio c’è sto bergamasco che pare uscito da una gara di sosia di Freddie Mercury: stessi abiti, stessi baffi, stessi ray-ban a specchio. Non siamo ad un concerto dei Queen o di una cover band, non è carnevale, non è Halloween. E’ un cazzo di sabato mattina  qualsiasi di settembre e sto tizio è agghindato come Freddie Mercury in un negozio di giochi da tavolo. Il mio amico inizia a parlarci dei Queen, come se non fossimo al cospetto di un individuo di cui avere paura, e nel discorso il cantante è sempre e solo nominato con l’appellativo di Grande Artista.
Lo ricordo come fosse successo ieri.

I fan dei Queen sono una setta religiosa. Come in tutte le religioni ci sono delle sfumature nel credo di ciascuno, il fondamentalismo non è prassi, però a tutti gli adepti è comune l’approccio per cui l’argomento vada trattato con rigore, rispetto e senza mai mettere in discussione nemmeno per sbaglio il monoteismo su cui si radica. Non sono tantissimi i gruppi musicali che “godono” di una fanbase di questo tipo. I Queen sono la band del nerdismo musicale, dando a nerdismo l’accezione più dispregiativa possibile. Arrivando dai GdR so quello di cui parlo, non a caso moltissimi nerd hanno la fissa dei Queen.
Era quindi tutto sommato scontato trovarsi di fronte ad un’opera evangelica in cui il Grande Artista magari non moltiplica pani e pesci, ma scrive l’intro al piano di Bohemian Rhapsody di getto, in una posizione in cui pure Beethoven avrebbe qualche difficoltà e in piena euforia post coito.
Il mio amico non ha notato questa cosa, ma si è accorto che nel film mostrano il processo di scrittura di We Will Rock You con Freddie Mercury che ha i baffi, quando tutti sanno che i baffi sarebbero arrivati dopo. Voglio bene al mio amico eh, ma è sempre per darvi il quadro.
La verità però è che tutto sommato il livello di devozione e riverenza messo in campo non infastidisce più di tanto e permette al film di andare avanti tranquillo sui binari di qualsiasi altra favola del cinema, con lo stesso ritmo, gli stessi cambi di tono tra gli atti e le stesse dinamiche tra i personaggi. Che, se vogliamo, per un film sui Queen è una scelta quasi meta.
L’unico obbiettivo del film è portarti sul palco del Live Aid e farti montare la pelle d’oca quando attacca Hammer to Fall.
Ce la fa?
Sì, mannaggia al cazzo, ce la fa eccome.

Se sei nato negli anni ’80 credo sia illegale non aver avuto un passato in qualche modo segnato dai Queen. Io ce l’ho avuto alle medie, quando il Greatest Hits II era il mio disco del cuore insieme a Fronte del Palco di Vasco e Hanno Ucciso l’Uomo Ragno. 
I miei pezzi preferiti erano quelli più caciaroni: I Want It All, Invisible Man, One Vision, Hammer to Fall, Breakthru, le chitarre di Innuendo. Forse ci si poteva vedere già una certa propensione alla merda che avrei amato negli anni a seguire, non so. Killer Queen mi ha sempre e solo spaccato i coglioni, forse uno dei casi più eclatanti di titolo fuorviante della storia della musica.
Crescendo ho imparato ad allontanarmi dalla devozione che chi ascolta i Queen ha per i Queen e, tolta quella, non mi è rimasto poi molto tra le ragioni per andare avanti a metterli in cuffia, così l’ho piantata lì.
Questa mattina ho deciso di provare a riascoltare il Live @ Wembley dell’86 e, come pronosticabile, ho avuto seri problemi ad arrivare in fondo. L’accoppiata A Kind of Magic / Under Pressure non la tolleravo nemmeno a 10 anni, così come non ho mai sopportato il pubblico che canta drammaticamente fuori tempo Another One Bites the Dust. Dio, che fastidio. A Brighton Rock Solo ho spento tutto.
Non basta un film di propaganda ben fatto per farmeli rivalutare, ecco.

Forse però, se non avete due ore e passa da dedicare ad un gruppo di cosplayer che promuove il Verbo sul grande schermo, avete venticinque minuti per riguardarvi la loro performance al Live Aid del 1985.
Credo che, tutto sommato, ci siano modi peggiori anche di impiegare 25 minuti.

La polemichetta su Anastasio

Quest’anno non ho guardato X Factor.
Credo sia il primo anno da quando pago Sky, quindi dal lontano 2012, in cui non seguo il Sanremo della mia generazione. Fa strano perchè il mio abbonamento Sky ormai comprende solamente il pacchetto base, tenuto proprio per poter seguire gli show principali del canale satellitare: Masterchef e, appunto, X Factor.
Il primo lo abbiamo abbandonato l’anno scorso, il secondo quest’anno. Potrei quasi disdire il servizio, ma non divaghiamo.
Quest’anno non ho seguito X Factor essenzialmente per due motivi:
1) trovo ormai il format di una noia ciclopica, sia per le cento puntate che impiega ad arrivare ai live, sia per la struttura dei live stessi.
2) dopo aver visto la prima puntata non ho trovato nessuno dei concorrenti degno del mio tempo, che preciso valere davvero molto poco.
Come capita per Sanremo però, è impossibile vivere il mese della kermesse senza sapere cosa ci stia capitando dentro, quindi pur non avendoli sentiti suonare sono arrivato a ieri ampiamente a conoscenza di chi fossero i vari Anastasio, Naomi, Luna e compagnia cantante (ihihih). Normale amministrazione per chi vive in una società e non necessita di essere convertito da indomiti missionari.

Il banco me l’ha fatto saltare ieri Noisey, pubblicando un’incredibile inchiesta  (!!!) riguardo Anastasio, poche ore prima della sua incoronazione (SPOILER! Va scritto prima?). I temi centrali dell’articolo sono essenzialmente due: le simpatie del ragazzo per gente poco raccomandabile come Salvini, Trump e Casa Pound e quanto queste rendano possibile/plausibile il PERCORSO dello stesso sulla via del RAP. Uso il caps lock per certe parole perchè me lo ha insegnato AMARGINE.
In merito al primo argomento credo ci sia poco da dire. Non ho stima per quei personaggi, non ho stima per chi li segue o li supporta, nè per chi li vota. Diciamo che mi fa proprio schifo tutto quello che sta intorno a quel mondo lì. Che è merda senza appello nè possibilità di redenzione. Chiaro, spero.
Il secondo argomento invece è un po’ più sfaccettato, a mio avviso. Cito dal pezzo di Noisey:

[…]una serie di preferenze politiche piuttosto singolari per qualcuno che da grande vorrebbe essere un rapper.
[…]sicuramente una variabile da prendere in considerazione prima di decidere se ascoltare la sua musica e supportarlo nella sua carriera artistica.

Fino alla chiusa che, a a costo di sembrare troppo malizioso, suona come “magari non fatelo/facciamolo vincere”.

Io non lo so se un rapper non possa essere di destra/fascista.
Non ho ascoltato più di tanto rap nella mia vita, ultimamente forse qualcosa in più, ma certamente non abbastanza da parlarne in termini generali. Ho ascoltato, anche mio malgrado, un bel po’ del rap italiano però e, onestamente, non mi sono mai posto la domanda di cosa votassero Gue Pequeno, Marracash, Fabri Fibra o anche solo J-Ax ai tempi degli Articolo 31.
I testi non sono un parametro utilizzabile per farsi questo tipo di idea, ho imparato. Ci ho messo un po’ perchè nel mondo musicale da cui vengo io dei testi mi sono spesso curato pochissimo, ma quando proprio volevano avere una dimensione di denuncia sociale, tendevano a prendere una posizione piuttosto netta.
Col rap non è così, mi dicono. I testi del rap italiano hanno una portata diversa perchè spesso il rapper è un personaggio distinto dalla persona che vive fuori dai palchi e molte volte quello che finisce dentro al racconto è l’immagine cruda della società, descritta per quello che è senza necessariamente ci sia in chi la descrive una sorta di “approvazione” ai comportamenti di cui si parla. Una variante del concetto di “retweet is not endorsment”, se vogliamo. E’ contorto, lo so, però è una chiave di lettura che esiste a prescindere dalla mia capacità di comprenderla. Lo sbaglio di noi vecchi è cercare o peggio trovare messaggi dove non ce ne sono, in estrema sintesi.

Se non posso basarmi sui testi, non ho molto altro per farmi un’idea sulle preferenze politiche di un rapper, quindi a meno di voler pensare che nessuno dei cento miliardi di rappusi (cit.) che infestano il nostro Paese voti a destra, direi che c’è ampio margine per credere che si possa tranquillamente fare rap votando Salvini, Berlusconi, Casa Pound e pure Hitler, fosse ancora eleggibile.
Certo, come dice Salmo “qualcosa non torna”, ma Salmo è lo stesso che come primo punto della sua agenda politica ha la pace fiscale, quindi qualcosa non torna manco a me. Disco di Salmo clamoroso, by the way.
Conclusione 1: fare il rapper avendo simpatie di destra non è impossibile e non credo manco tanto singolare, checché ne dica Noisey.

La seconda parte del pezzo sarebbe dovuta essere sui parametri che secondo Noisey una persona dovrebbe valutare prima di ascoltare della musica o supportare un’artista. Siccome non credo di essermi mai annoiato così tanto a scrivere un pezzo come questa volta (non lo cestino solo perchè temo di non scriverne altri a dicembre e quindi di finire per bucare il mese), la faccio brevissima.
Se Anastasio sceglie di rendere pubblica la sua ideologia politica è giusto che chi ritiene quel parametro importante nella definizione del proprio gusto musicale agisca di conseguenza. Mi chiedo se queste persone si accertino delle preferenze politiche di ciascun cantante che ascoltano o se la regola sia “fino a che non me lo sbatti in faccia ti do il beneficio del dubbio”. In questo secondo caso, se lo chiedete a me, c’è un elefante nella stanza.

La terza parte del pezzo avrebbe dovuto fondere questa storia con la questione di Sfera Ebbasta e del dibattito che è scaturito dalla tragedia di Corinaldo. Anche qui, la faccio breve: una volta un tizio mi diceva che tanta musica ti spinge ad accendere il cervello anche solo per capire che ti vuoi dissociare da quel che stai sentendo. Ed è una roba importantissima.
Come è importante trovare nella musica una valvola di sfogo per il malessere che tutti vivono in adolescenza. Da vecchio quale sono posso solo sperare che i miei figli ascoltino roba che non capisco, roba violenta,  irrispettosa, truce, radicale, ignorante e vivadio BRUTTA IN CULO. Il momento di preoccuparsi è quando tuo figlio sembra vivere nella pubblicità dei biscotti, perchè quella roba lì non è che non c’è, è solo che non la vedi.

Pezzo più brutto e inutile del 2018? Direi di sì.

Una cosa divertente (che non farò mai più)

Intorno alla metà di Luglio @bidizeta ha scritto il tweet qui sotto:

A me è sembrata una bella idea, forse anche perchè ho immediatamente pensato al momento che avrei avuto voglia di raccontare, così ho iniziato a scrivere in giro e chiedere se qualcuno fosse interessato a fare, davvero, questa cosa. Molti “sì” e qualche “forse” nei mesi si sono trasformati in molti “forse” e altrettanti “no”, ma alla fine della fiera qualcuno che ce l’ha fatta a mandarmi un raccontino c’è stato e così li ho messi insieme in una raccolta .pdf di una sessantina di pagine.
Non sono un editore, non ho mai lavorato nell’ambito nemmeno di striscio, quindi probabilmente ho commesso una serie infinita di errori nel definire le scadenze e nel modo in cui ho provato a farle rispettare. E’ possibile che, se fossi andato avanti ad aspettare, avrei raccolto qualche pagina in più, ma mi sembrava poco rispettoso nei confronti di quelle persone che invece per arrivare entro i termini ci si sono sbattute. Si tratta di una cosa fatta unicamente per divertimento, quindi immaginavo dal principio che qualcuno alla fine non ce l’avrebbe fatta a starci dentro, spero solo nessuno se la sia presa per la mia decisione di non aspettare oltre. 

La raccolta contiene dodici raccontini più l’immagine di copertina, che è un’ulteriore storia che abbiamo provato a raccontare.
Hanno partecipato, in rigoroso ordine di apparizione: Gozer Vision, Steven Senegal, Roberto Gennari, Isidoro Meli, Michele Borgogni, Andrea Giunchi, Enzo Baruffaldi, Nanni Cobretti, vali, Luca Doldi, Claudia e Pietro “Pier” Lofrano.
Li ringrazio tutti per l’ennesima volta.

Tra i raccontini ce n’è ovviamente anche uno mio, racconta un avvenimento di cui avevo già scritto qui sopra a caldo, ma credo messo giù meglio.
Non sono tante le volte in cui sono soddisfatto di quello che scrivo, soprattutto perchè non sono tante le volte in cui mi prendo il tempo di scrivere con calma, senza pubblicazione immediata, potendo rileggere e rivedere il testo diverse volte, modificandolo in più riprese.
L’ho fatto leggere in anteprima a tre persone, prima di definirlo “finito”, e tutte e tre me lo hanno mezzo stroncato, con motivazioni diverse e a volte divergenti. Questo anche per dare un metro del mio essere soddisfatto di me.

Cliccando sulla copertina qui sotto vi scaricate la raccolta.

Honestly, I’m a mess

Il disco dei Sorority Noise con gli underscore nel titolo è uno di quei dischi che mi destabilizzano emotivamente, forse l’unico uscito negli anni in cui non ho più tempo, voglia o attitudine a farmi cambiare l’umore da delle canzoni. Lo ascolto e mi viene voglia di piangere, urlare, vomitare fuori emozioni che ormai sono abituato a relegare in un non meglio precisato contenitore a tenuta stagna che credo stia da qualche parte tra le mie budella.
Quando dicono che la vita alla fine ti piega penso sempre ad un discorso di omologazione, ma è probabile sia più una roba legata alla capacità di provare emozioni senza doverle per forza di cose controllare. Alla base c’é la stessa necessità del quarantenne che si lancia col paracadute o che si imbuca alle feste universitarie: trovare il maledetto contenitore, farci un buco e lasciar filtrare fuori qualcosa.
Non so se ci sia altro in grado di definirci vivi se non il provare qualcosa di inspiegabile che monta dalla pancia e ti sale su per la colonna vertebrale senza che tu riesca a capirne il motivo, senza che tu possa razionalizzare.
Chiamatela crisi di mezza età, se volete, nel mio personale caso credo sia tutto legato al fatto che meno mi sento vivo e meno penso al fatto che non lo sarò per sempre e, sarà banale, ma dopo anni di insonnia e attacchi di panico va gran bene così.
Per questo odio questo maledetto disco.
E per lo stesso fottuto motivo continuo ad ascoltarlo.

All in for D-Rose

Questa notte Derrick Rose ha giocato una partita incredibile segnando 50 punti.
Se avete anche una vaga idea della storia di questo giocatore, non potete rimanere indifferenti.
Io, per dire, mi sono commosso.

Ora vedremo se sarà davvero il nuovo inizio in cui nessuno tranne lui credeva più o solo un fuoco di paglia.
In ogni caso è stato un momento incredibile, di sport e di vita.
Daje Derrick, spacca tutto!

Gay bride

Da qualche tempo seguo Giuditta Pini su FB.
In quel marasma che è l’attuale PD, tra il voto favorevole in Senato per la legittima difesa e il ritorno sotto falso nome di un’iniziativa vecchia di almeno tre anni e comunque fallimentare (giusto a citare le ultime due cazzate che ho letto a tema Partito Democratico), mi sembra una ragazza con qualcosa da dire. Non sono sempre allineato, come ovvio che sia, ma la seguo volentieri. 
Oggi sul suo profilo spingeva questo evento.

Io non capisco.
In cosa dovrebbe essere diverso un matrimonio gay da un matrimonio etero, se non per i gusti sessuali della coppia coinvolta? Non mi risulta i gay necessitino di fornitori specializzati in termini di abiti, non mi risulta esistano servano catering specializzati in cibo omosessuale, non credo i gay necessitino di servizi dedicati per la scelta della location dove sposarsi o degli addobbi da utilizzare.*
Perchè una coppia gay non dovrebbe andare al canonicissimo salone wedding? Ha davvero bisogno che tutti i presenti siano gay o che gli espositori sappiano che stanno trattando con dei gay?
Sono sincero eh, chiedo perchè magari una spiegazione sensata esiste e sono solo io che non la vedo.

Quello che vedo, magari sbagliando, è un’operazione di marketing.
Per carità, niente di male in principio, non fosse che gioca con un concetto che trovo spiacevole: ghettizzare.
Lo so, anzi no, posso immaginare sia difficile dover costantemente combattere per ottenere cose che ad altri sono garantite. Capisco che ad un certo punto sia legittimo pensare “vaffanculo” e crearsi la propria nicchia dove poter essere se stessi senza dover chiedere permesso o scusa. L’obbiettivo però dovrebbe restare il condividere gli spazi senza sentirsi fuori posto, no?
Parlandone su twitter sono venute fuori alcune possibilità che in qualche modo giustificherebbero l’esistenza di questa cosa fuori da un mero concetto di marketing:
1) I gay non possono accedere alle fiere per sposi tradizionali. Mi pare davvero assurda, come ipotesi. Ricordo quando andai a Berlino e mi misi in coda con la mia morosa dell’epoca per entrare in un gay club di cui avevamo letto molto bene in termini di proposta musicale. Ricordo la coda infinita e sto buttafuori che ci si avvicina e ci dice che non possiamo entrare “perchè etero”. I due ragazzi in fila dietro di noi, gay, trovarono la cosa insopportabile. Ricordo che uno dei due chiese se avesse dovuto in qualche modo dimostrare di essere gay per accedere al locale. Follia, appunto. Non ci voglio nemmeno pensare a questa ipotesi, sarebbe davvero una roba ultra violenta, anche per i tempi che corrono.
2) Nelle fiere tradizionali non possono esporre aziende gay oriented. Questo è possibile, nel senso, immagino che qualche associazione cattofascista del cazzo possa aver protestato all’idea che nel CENTRO SPOSI si favorisse il peccato. Di nuovo però, perchè mai dovrebbero esistere aziende espositrici DEDICATE ai matrimoni gay? Un matrimonio è un matrimonio. Quando ho preso l’abito per sposarmi mica mi hanno chiesto se sposavo una donna. 
A meno che mi diciate che le aziende espositrici tradizionali si rifiutano di offrire servizio alle coppie gay. In quel caso servono aziende dedicate. Ora, il mondo è bello perchè è vario**, quindi che possa esistere qualche azienda che si rifiuta di incassare soldi omosessuali unicamente su base ideologica posso anche crederlo. Spero fallisca, ma posso credere esista. Il punto è: possono davvero essere tutte così? Non è legittimo pensare che la stragrande maggioranza delle realtà che offrono servizi ai matrimoni, accettino di guadagnare su qual si voglia coppia?

Non so, davvero, più ci penso e più iniziative così mi sembrano un passo indietro invece che avanti.
Poi magari la risposta è banale: crei situazioni del genere per sbattere in faccia la realtà a chi ancora non la vuol vedere, per gridare al mondo la tua esistenza. Ecco, forse questo potrei capirlo.
Mi resta il dubbio sia questo il caso però. Resta che se togli GAY e ci metti una qualunque altra minoranza, vuoi etnica, vuoi religiosa, l’iniziativa continua a sembrarmi impresentabile.

* se, caro il mio omofobo, stai ridacchiando sotto i baffi perchè immagini un matrimonio gay come una sorta di carnevale di Rio, mi preme provare a farti riflettere sul fatto che i matrimoni etero non sono affatto garanzia di sobrietà ed eleganza. Quindi, anche volendo immaginare che un matrimonio gay debba forzatamente essere esagerato/estremo (cosa che ovviamente non è), non sarebbe nulla di nuovo per chi organizza matrimoni etero. Basta guardare quattro matrimoni.

** è una merda per lo stesso motivo.

L’amatriciana GIUSTA

Ci sono essenzialmente tre motivi per cui mi arrogo il diritto di scrivere la ricetta dell’amatriciana GIUSTA pur non essendo di Amatrice e avendoci anzi messo 2/3 abbondanti della vita a realizzare che non si chiamasse “pasta alla matriciana”:
1) Ho il giusto livello di ODIO verso le rivisitazioni gourmet.
2) Ho fatto un corso dedicato alle paste alla romana.
3) Se Enzo al 29 avesse una tessera frequent eater, la mia sarebbe d’oro.

Perchè l’amatriciana? Perchè dei sughi alla romana è l’unico che sono capace di fare. Pur essendo semplicissimi e composti da un numero minimo di ingredienti, infatti, i primi piatti laziali nascondono una miriade di insidie e realizzarli nel modo GIUSTO è una sfida che non è facile superare.
Prendiamo la carbonara, per esempio. 
In casa mia, da anni, sono abituato a mangiare spaghetti con la frittata. Li faceva mia madre e li fa anche la Polly. Mi piacciono eh, tanto anche. Però non posso non riconoscere siano una variante sbagliata perchè la ricetta esige l’uovo fluido, crudo e cremoso. Questo è addirittura un problema, per me, perchè io l’uovo crudo lo odio e ho sempre il terrore di ordinare una carbonara fuori casa proprio perchè, se viene fatta male, l’uovo crudo mi risulta mille volte meno sopportabile dell’uovo troppo cotto.
Quando però la mangi GIUSTA, capisci realmente cosa sia la carbonara e non puoi più fingere chiamando così anche la versione casalinga.
In giro si trovano ricette super complesse per arrivare al risultato, tipo questa, ma non credo che una carbonara GIUSTA valga tutto quel lavoro, soprattutto se posso farmi la mia pasta con frittata e apprezzarla comunque parecchio. La carbonara GIUSTA quindi io me la mangio al ristorante e morta lì.
Idem Cacio&Pepe. Non ho la minima voglia di impazzire per non far stracciare la cremina di formaggio, quindi quando la faccio a casa scolo la pasta e ci rovescio sopra due quintali di pecorino e pepe nero macinati, senza che faccia creme e generando una roba sbagliatissima, che però ha comunque il suo gusto.
Il messaggio è: la cucina GIUSTA esiste, ma sbagliare non è certo un dramma, basta farlo in modo consapevole.

Arriviamo quindi all’amatriciana.
Esiste un disciplinare per questo sugo, delle regole ferree per quanto concerne origine e dosaggio degli ingredienti, tipo di pasta e via dicendo. Questa ricetta se ne batte allegramente il cazzo, ma vi farà portare a casa la miglior amatriciana che abbiate mai preparato con le vostre mani. Pronti?

INGREDIENTI:
– Guanciale, una fetta spessa mezzo centimetro. 
– Passata di pomodori datterini Mutti
– Pecorino romano
– Pasta (su quale ci scanniamo dopo)
– Olio, sale e pepe nero macinato
– NON SERVE UN CAZZO D’ALTRO, mettete via quel peperoncino. Dai. Veloci.

PROCEDIMENTO:
Partiamo dal guanciale. Prendete la vostra fetta, pulitela dalla cotenna, e tagliatela a listarelle. Diciamo che dei parallelepipedi 0.5×0.5×2 cm funzionano, ma non dovete mettervi lì col righello. Basta non tritarlo e stare più regolari possibile per cuocerli in modo omogeneo.
Scaldate un bel po’ di olio in una padella e quando è caldo ci buttate il guanciale. “Eh, ma minchia pure l’olio, c’è già il grasso del guanc…” ZITTI. L’olio aiuta a rosolare il guanciale, è fondamentale, ma poi mica finisce nel sugo. Quando il vostro guanciale è super croccante lo togliete dalla padella e buttate tutto il grasso che rimane nella stessa. A questo punto avrete una ciotolina con i vostri pezzettini di guanciale croccanti, che devono avere la consistenza di un cracker e scrocchiare sotto i denti, e una padella senza grassi dentro, ma con quei residui marroncini appiccicati sopra che definiamo “fondo di cottura”. Ok?

Bene, ora è tempo di mettere a bollire l’acqua salata per la pasta. Ma che pasta?
Pare ovvio, i bucatini. E invece no. Non perchè non siano buoni, ma perchè dopo un po’ di tentativi ho realizzato che la pasta migliore per questo sugo, in termini di resa, sono i gran fusilli Voiello. Non prendo soldi eh, non sono marchette le mie. E’ proprio che se li fate con quella pasta lì il rapporto sugo:pasta in bocca è perfetto.

Prepariamo il sugo. 
La pentola è quella di prima, con le sue belle crosticine marroni. La rimettiamo sul fuoco e ci rovesciamo la passata di datterini Mutti. Perchè questa? Perchè è dolce. Il trucco infatti è non salare il sugo e usare una salsa dolce, visto che il pecorino romano è salatissimo. Idem come sopra, non è una marchetta, non sono un influencer. Sono solo goloso.
La salsa, liquida, vi aiuterà a deglassare il fondo del guanciale, basta passare un cucchiaio di legno e staccarlo, per mandarlo ad amalgamarsi al pomodoro. Fiamma bassa, lasciamo sobbollire fino a che la pasta è pronta. Al dente.

Ora abbiamo tutto quel che serve, basta mettere insieme i pezzi.
Scoliamo la pasta e la rovesciamo nella pentola del sugo, che togliamo dal fuoco. Aggiungiamo il guanciale croccante e mantechiamo tutto con il pecorino romano grattugiato, abbondante. Mantecare vuol dire mescolare fuori dal fuoco, ma lo sapete perchè ormai i programmi di cucina in TV occupano il 75% dei palinsesti.

Fine, l’amatriciana è pronta, potete al massimo aggiustarla di pepe se vi piace spinta. Io lo faccio, per dire, ma va a gusti. L’importante è realizzare che non state facendo un’arrabbiata o una puttanesca.
Una volta che capite questa cosa, avete svoltato.


Questo è il millesimo post di questo blog. MILLE.
Per un momento ho pensato che usarlo per la ricetta dell’amatriciana fosse uno spreco mondiale, ma alcuni sedicenti lettori mi hanno suggerito che difficilmente avrei potuto produrre niente di più rilevante e quindi eccoci qui.
A me un po’ di emozione però questa cosa la suscita, scusate, quindi mi prendo una postilla per ringraziare tutti quelli che, almeno una di queste mille volte, si son fermati a leggere quel che avevo da dire.
Grazie a tutti. <3

Sto sul cazzo (anche) a Makkox

La lista delle personalità illustri (?) che non vogliono avere a che fare con me online annovera un nuovo iscritto.
Da un paio di giorni, infatti, ho realizzato di essere stato bloccato su twitter anche da Makkox, quello dei fumetti di satira politica. E’ andata così*:

Giuro, non c’è altro, quindi da qui in poi son solo io che sbrocco, sappiatelo.
La prima cosa che mi fa incazzare è il modo. Io rispondo ad un tweet in maniera direi civile, lui mi fa la paternale lanciandosi in psicoanalisi di stocazzo e quando gli spiego che, molto più semplicemente, non ha capito quel che ha letto si incazza e mi blocca.
Come lo scopro? Così:

Un altro tipo torna sull’argomento e mi rendo conto di non poter leggere nulla del pregresso perchè, appunto, sono stato bloccato.
Senza una spiegazione.
Io lo so che una persona “famosa” ha probabilmente migliaia di hater da bloccare e che non può prendersi la briga di spiegare a ognuno il perchè, tuttavia non sentendomi affatto parte della categoria e avendo questa visione distorta della rete come di un’appendice della vita reale dove valgono le regole della vita reale, trovo questi atteggiamenti isterici davvero insopportabili.
Tipo quando scazzi con una persona e questa invece di dirti che s’è presa male o anche solo mandarti affanculo, smette di parlarti. La trovo la cosa più infantile e ridicola che esista.

La seconda cosa che mi fa incazzare è il pulpito.
Makkox è uno che di lavoro prende per il culo la gente. Fa satira politica (molto buona, va detto), esprime dissenso. Non è Gasparri, mannaggia i preti, è uno che ti immagini sia aperto alle opinioni altrui. Ma come cazzo devi stare a vivere di satira e non tollerare chi dissente da quel che dici? Che cazzo di disturbi della personalità puoi mai avere se hai bisogno di mettere a tacere, bloccare, silenziare chi ti contraddice quando di lavoro contraddici gli altri?
Solo a me pare ridicola la cosa?
Magari sì eh, ma GIURO che se qualcuno venisse a dirmi che quel che ho scritto non ha il minimo senso tutto farei fuorché metterlo forzatamente a tacere, fingendo che non esista. Tutto per continuare a campare nel mio piccolo ambientino creato ad hoc, in cui tutti mi fanno i pompini per quanto sono bravo e intelligente e acuto, tutti la pensano uguale e poi il 5 marzo si interrogano all’unisono su come abbia fatto il M5S a vincere le elezioni quando il WEB era tutto dalla parte opposta. 

La terza cosa che mi scogliona, probabilmente quella che mi infastidisce di più, è la presunzione.
Come dico spesso, la roba figa di twitter o dei social in generale è l’essere orizzontali. Si può interagire con chiunque e dire la propria su tutto** avendo la certezza che il messaggio arrivi a chi di dovere. Magari non verrà letto, magari non verrà commentato o non si riceverà risposta, ma se si ha il bisogno di far arrivare un concetto, con i social si può almeno fare un tentativo. E’ una bella rivoluzione. 
A differenza di quanto può pensare un grillino, questo non vuol per niente dire che “uno vale uno”, perchè sui social vigono esattamente le stesse regole di potere che regolano la vita reale. Io non sono nessuno, online come IRL, ho un seguito che vola intorno alle 300 persone, 200 delle quali sono probabilmente amici e BOT. Se di follower ne avessi avuti, che ne so, 300K, quello che è successo qui sopra avrebbe avuto un esito diverso perchè, banalmente, 300K persone si sarebbero poi sciroppate la mia versione dei fatti, ovvero un pippone su quanto Makkox sia puerile e presuntuoso, e lo avrebbero ricondiviso ad altre X mila persone. Questo non vuol dire che lo scambio di opinioni non ci sarebbe stato, avremmo comunque avuto idee diverse, ma non sarei stato liquidato come un coglione fastidioso da mettere a tacere. 
Invece è facile cancellare me dai radar, fare finta io non esista, perchè effettivamente non esisto. Ho scritto di sta storia su twitter e ho alzato una decina di like e forse un RT (che è poi quel che conta davvero, coi like che ci faccio?). Ora ci butto giù un post non tanto perchè penso possa avere esito diverso, ma perchè ho il cazzo girato e mi va di sfogarmi. Certo, lo condividerò, ma non succederà un bel niente.

Chiudo con una postilla. 
I peggio non sono i VIP che si offendono come i bambini o che rispondono piccati senza porsi il dubbio dell’aver capito quel che era stato detto loro. Per quanto illustri sono persone e fanno gli stessi errori che fanno tutti, io per primo (e spessissimo, oltretutto).
I peggiori sono quelli che in uno scambio di opinioni stanno a prescindere dalla parte del più forte, quelli che mettono il like senza porsi nemmeno il dubbio che il loro beniamino possa aver scritto una cazzata o non aver capito il punto. Gente priva di spirito critico, disabituata ad usare il cervello, che si ammassa dove c’è più consenso, ingigantendo la piaga e nutrendo ego già ipertrofici di loro.

Internet è l’apocalisse Zombi.
Fateci caso. 

* riesco a risalire agli screen delle conversazioni anche dopo essere stato bloccato perchè in realtà sono un hacker potentissimo. Don’t try this at home.

** vabbeh, la cosa bella IN LINEA TEORICA.