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2022

One twenty two

È uscito un pezzo nuovo dei Botch dopo vent’anni tondi.
Si potrebbero dire molte cose, ma l’unica che viene a me è che non c’è mai stato un momento in cui si sentisse più il bisogno di un nuovo pezzo dei Botch.
Che, per inciso, è una mina.

It’s all good, man

L’ultimo episodio di Better Call Saul me lo sono visto in un posto impronunciabile dell’Islanda del sud. Prima di partire avevo pensato di vederlo al rientro, con calma, ma non ce l’ho fatta. Non tanto per la paura degli spoiler, che ok, c’è sempre, ma che forse per una serie del genere è molto più di facciata che non reale (voglio dire, quello che succede pesa probabilmente il 30% nelle ragioni per cui guardare BCS), ma perché avevo davvero il bisogno della mia dose di Gilligan&Gould.
Quindi questa mattina, approfittando di una giornata piuttosto scarica dell’itinerario, ho deciso di guardarmi il gran finale dell’opera. Ho messo i bimbi di fronte ad un film (Paddington 2), mi sono piazzato sul letto con le mie belle cuffiette e… blocco.
Per quanta voglia avessi di vedere l’episodio, psicologicamente ero inibito dall’idea sarebbe stato l’ultimo. Per sempre.
La verità è che non sono affatto pronto a dire addio a quell’ambientazione, a quei personaggi e a quel modo unico di mettere in piedi uno show televisivo. Caratteristiche che fanno di Better Call Saul la più bella serie televisiva che io abbia mai visto. Certo, senza Breaking Bad non potrebbe essere così bella, ma avendo visto la serie madre ci si può godere tutti i multilivelli di questo prequel e apprezzarlo per il capolavoro che è.
Perché ovviamente ci sono cose visibili prendendola come opera a sé: livello di recitazione eclatante, fotografia e regia non solo magistrali, ma con un’identità talmente spiccata da diventare iconiche e musiche sempre centrate, ma l’elemento davvero impareggiabile della serie rimane la scrittura e per poter comprendere davvero quanto profonda e curata sia, aver visto tutto il pacchetto è, giustamente, fondamentale.
In questi giorni quel mentecatto di George R. R. Martin è tornato a blaterale delle serie correlate a GoT, così mi dà modo di usarlo come perfetta antitesi alla scrittura di Gilligan. Perché aprire mille filoni narrativi non è complicato, se si ha fantasia. Ciò che distingue un tipo fantasioso da uno scrittore è la capacità di chiudere gli intrecci, non solo coerentemente, ma senza lasciare sbavature o buchi. Una cosa che Martin non è evidentemente in grado di fare.
Digressioni da hater a parte, Better Call Saul chiude, probabilmente per sempre, la nostra finestra sul mondo di Breaking Bad e lo fa nella maniera più potente ed elegante possibile, sempre con quel gusto amaro tipico delle storie che parlano di personaggi diversamente buoni.
Si abusa del termine capolavoro, io per primo ne faccio un uso eccessivo, ma qui siamo al cospetto di un vero, letterale, Capolavoro, che resterà nella storia dell’intrattenimento seriale e che, nel complesso dell’opera, è probabilmente destinato a definirne l’apice.
Guardatevela, se vi manca.
Io ne sono già orfano inconsolabile.

Road to 25 Settembre

Quindi siamo in campagna elettorale.
Ci sta dai, con questo bel meteo pre-apocalittico e gli scenari della pandemia e della guerra ancora lì nella penombra, ne sentivo davvero il bisogno. Non bastasse, ci si arriva al culmine di una crisi di governo talmente noiosa che non sono nemmeno riuscito a sfruttarla per @emocrazia.
Se c’è una cosa vera però, è che lagnarsi riesce ad essere persino meno utile delle urne il 25 settembre prossimo venturo, quindi è il caso di prendere il toro per le corna e sfruttare la cosa, quantomeno per levare polvere e ragnatele da questo blog.
Campagna elettorale, dicevamo, e quindi non si può che partire dal simbolo di questa stagione politica: i sondaggi.

Partiamo dall’elefante nella stanza, ovvero il PD.
Giorni fa si ipotizzava come potesse forse essere una buona idea da parte di Letta mettere insieme una coalizione con Draghi a fare da frontman. Sarebbe stata probabilmente la prosecuzione più logica di tutta quella retorica de “L’Italia vuole Draghi” di cui si sono riempiti la bocca mentre si consumava la crisi di Governo. Da ignorante, poteva forse essere l’unica via per provare a mettere insieme i numeri che servono per governare. Una bella congregazione che chiameremo col nome fittizio di Democrazia Cristiana, pronta a raccattare esuli un po’ da ogni parte(1) con l’unico scopo di avere numeri sufficienti a contenere il botto della Meloni e provare a governare di nuovo. Perché nessuno mi toglie dalla testa che IoSonoGiorgia di salire al Colle non abbia la minima voglia, oggi. La prospettiva più concreta per lei è trovarsi nell’intorno del 20% abbondante: primo partito nazionale, ma costretta a governare con elementi che non aspettano altro che buttarglielo al culo (molto cristianamente). Io credo preferirebbe di gran lunga non avere i numeri in Parlamento e piazzarsi all’opposizione da primo partito, da vincitrice delle elezioni, blaterando di “democrazia soverchiata” e minchiate analoghe, mentre lavora alacremente per costruire una destra più solida attorno a lei e prendersi il Paese per davvero. Se invece si trovasse ad avere più di quel 20% (diciamo il 30%) dovrebbe governare, ma con una maggioranza che dubito reggerebbe a lungo.
Ambo i casi, una coalizione guidata dal PD per un Draghi Presidente legittimato dalle urne(2) avrebbe la chance di restare in carica e tirare la carretta.
Non so perché questa idea sia solo mia. Forse Marione ha paura di perdere le elezioni e veder frantumare la storia del più amato dagli italiani, forse non vuole fare la fine di Gesù con Barabba. Mi pare il tipo da sentirsi Gesù in effetti.
Forse invece è il PD che preferisce non ufficializzare il passaggio al lato oscuro appoggiando apertamente Draghi in una tornata elettorale. So che pare assurdo per un partito che ha raccattato Casini e che se tutto va bene si prepara ad assorbire la Gelmini, ma evidentemente non tutti tiriamo la riga del “Questo proprio no” nello stesso punto ed effettivamente per tanti candidare apertamente Draghi è meno accettabile che rimpolpare le proprie fila con personaggi anche “peggiori”, per una questione di peso del ruolo ricoperto. 
La mia percezione è che la politica dei programmi, se mai è esistita, sia morta e sepolta, sostituita dalla politica che come unico scopo ha le elezioni. Prendere voti come fine e non come mezzo.
In questo senso il PD cerca di prendere dove può e a furia di sentirsi dire che è un partito di destra da scassaminchia della sinistra TRVE che poi lo votano comunque(3), forse ha realizzato che siamo un Paese di destra e che rincorrere quei voti sia tendenzialmente più utile allo scopo. Voglio dire, assodata come irreversibile la condizione che lo vede stagnare al 20% e abbandonati i sogni di gloria che furono, forse è davvero l’idea più conservativa (ammicco ammicco). Tanto:
– chi si sente troppo di sinistra per votare PD (legittimamente, ben inteso) non lo ha mai votato e non inizierà certo nel 2022, qualunque cosa accada.
– chi si sente troppo di sinistra per votare PD, ma “tura il naso per il bene del Paese”, continuerà a turare il naso.(4)
Il market share da guadagnare è tutto dalla parte opposta, ovvero da chi non si sente abbastanza fascista da votare la Meloni o chi ancora sente la sabbia quando caga dopo aver votato M5S. Trovo molto strano ci sia da trent’anni una vasta maggioranza di sinistra che si ostinano tutti a non voler rappresentare.
Allora forse è solo questo il punto.
Siamo un Paese tendenzialmente di destra, non da oggi. Lo siamo perché, al netto di tutti i problemi, in media abbiamo più cose da perdere che da guadagnare(5) e questa è la posizione tipica di chi gioca per lo status quo.
Alcuni di noi hanno un’etica più ingombrante, ad altri piace sentirsi nel giusto, ma a conti fatti la sinistra può permettersi di non esistere (o stare allo zero virgola) solo se le persone che ne hanno davvero bisogno sono poche e/o non contano un cazzo, costrette ad affidarsi al buon cuore di chi mette una croce sulla scheda con lo stesso spirito con cui manda un SMS a Telethon (magari dal cellulare aziendale).
E allora mi dico che se ha ragione Twitter, se il PD è davvero il nuovo centrodestra, speriamo se ne accorgano anche quelli che il centrodestra lo hanno sempre votato, che anche loro ogni tanto tirino la riga del “Questo proprio no”. A sinistra ormai siamo abituati a urlare FASCISTI a grossomodo tutto e, un po’ come nella favola “Al lupo! Al lupo!”, ora che i fascisti sono arrivati davvero tocca sperare che qualcuno ci dia ancora retta e veda la differenza(6).
Se il PD è il centrodestra, anche da sinistra dovrebbe essere facile riconoscergli l’essere il miglior centrodestra possibile, quindi temo non ci resti che sperare vinca.(7).
Non col mio voto eh, intendiamoci.
Dico in generale.


(1) avete mai notato come la politica sia l’unico frangente in cui l’accoglienza è un caposaldo? Dovremmo prendere spunto.
(2) qualsiasi cosa voglia dire.
(3) questa è una categoria che mi fa particolarmente incazzare, un po’ come quelli che il giorno dopo le primarie democratiche USA fanno le pulci al candidato che viene fuori. Se tanto lo voti comunque, perché converti la mancanza di alternative in senso del dovere, a cosa stracazzo serve fare le punte al cazzo? Non dico in generale eh, dico nel contesto temporale della campagna elettorale, a giochi fatti.
C’è un tempo per il dibattito, che serv(irebb)e a pesare le correnti e costruire una linea ponderata sul consenso, ma alla fine tocca compattarsi. Chi è fuori è fuori, ma chi è dentro la smettesse di rompere i coglioni, visto che oltretutto 9/10 lo fa per lavarsi la coscienza e darsi la posa di quello che: “vi voto ma non sono d’accordo”, aka lancio il sasso e nascondo la mano.
Mi permetto tutta questa acredine perché penso di aver fatto parte della categoria.
(4) vedi (3)
(5) so cosa stai pensando: è una percezione. Hai ragione, ne sono convinto anche io, ma cambia poco in termini di risultato.
(6) l’idea che debba essere la destra a salvarci dalla deriva fascista per me è l’unico vero take home message di questo pezzo. Lo preciso perché dubito traspaia.
(7) so cosa stai pensando anche questa volta, o almeno spero. “Con questo atteggiamento continuiamo a tendere a destra”. Eh, hai di nuovo ragione. Io penso però che il problema vero sia la diaspora continua a SX, un meccanismo che non ha mai portato ad altro che alla sopravvivenza politica di individui che evidentemente non ascoltano i Taking Back Sunday.
Paradossalmente, se ad ogni fiato di vento qualcuno se ne va col pallone portandosi via un pezzettino di consenso, al PD non resta che recuperarlo altrove. E altrove c’è gente brutta. Non so, forse se questa cosa de “La Meloni non deve vincere” la sentissero quanto noi, qualcuno ci proverebbe a ricucire gli strappi e far rientrare chi se n’è andato, invece credo che vada a tutti bene così, con la colpa al popolo che come sempre verrà accusato di aver sbagliato a votare.
Poi ci stupiamo se un ragazzino diversamente abile sale su un palco convinto che la responsabilità di divertirsi ad un concerto sia del pubblico.

I vent’anni di un (altro) disco

Scrivere del ventennale dei dischi è una roba che non mi risulta si faccia più. Probabilmente il motivo è che quelli bravi, quelli che hanno incominciato a farlo, hanno esaurito i ventennali che gli interessavano ormai diversi anni orsono.
Vecchi di merda.
Io invece di dischi della vita che fanno vent’anni nel presente ne ho ancora tantissimi.
Un paio di mesi fa è stato il turno di Tell all your friends e avevo anche messo giù 3/4 di pezzo con l’idea di mandarlo a Spento, ma prima che lo finissi Marco mi ha scoopato, come si dice in gergo, e ho desistito dal finire la mia lagna da X-mila battute.
Tempo dopo è stato il turno del S/T dei Box Car Racer. Anche lì avevo pensato di mettermici e dire due robe, ma poi non lo avevo fatto, neanche ricordo perché. Probabilmente sarebbe stato un post con la centomilionesima versione sempre uguale del mio rapporto con Tom Delonge, quindi a conti fatti meglio così. Per tutti.

Due giorni fa però ho scoperto da Twitter essere il ventennale di un altro disco e questa volta non è proprio cosa lasciar correre, per me.
Il disco è questo qui:

Ai The Used io ci sono arrivato da Munnezza, una webzine/forum che ho citato mille volte qui sopra. Erano i primi anni di internet, per me, di conseguenza i primi tempi in cui riuscissi ad uscire dalla mia bolla provinciale per aprirmi ad ascolti nuovi, non necessariamente buoni. Allora avevo l’approccio al mezzo che i boomer hanno avuto negli anni ’80 con la TV e che oggi hanno con Facebook: se è scritto in una recensione online, deve essere vero. Also: chi scrive una recensione online deve essere un* che ne capisce. Solo anni dopo ho realizzato che probabilmente su quella webzine, come su tante altre, scrivessero più che altro ragazzini come me, al massimo più convinti di essere ‘sto cazzo (ma neanche sempre), però sto tergiversando.
Quando ho iniziato a bazzicare quel sito dei The Used si faceva un gran parlare. Era appena uscito il loro secondo disco e il mood generale era che la stagione di tutta quella roba lì fosse ormai finita. Dopo aver tessuto lodi sperticate per grossomodo qualsiasi cosa uscita tra il 2002 e il 2004, nel 2005 era diventato tutto una merda. Il nuovo avanzava, toccava girare pagina.
Io, però, ero come sempre in ritardo.
Andando a memoria, sul sito non c’erano le recensioni dei dischi considerati buoni di questa ondata nu-emocore di inizio millennio, venivano solo citate le band come riferimento in recensioni più recenti e spesso negative. Idem sul forum, dove chiedere dettagli su questa roba era il viatico preferenziale al ricevere insulti.
Alla fine quindi avevo scaricato un po’ di cose e, come probabilmente è giusto che sia, mi ero messo sotto a fare una cernita da solo. Si trattava di scavare in una montagna fumante di letame, lo riconosco, però mentirei se dicessi di non averci cavato un ragno dal buco. Anzi. Chiaramente non ci si poteva aspettare la qualità dei Q and not U, non so bene perché feticcio di moltissimi capiscers dell’epoca, ma se c’è una cosa su cui sono arrivato in anticipo rispetto a Boris e ai successivi meme è che la qualità ha rotto il cazzo, quindi bene così.
Tutto questo per dire che era il 2005, io stavo prendendo il “sole” sdraiato su una “spiaggia” irlandese con alcuni amici ed ero in uno stato di dormiveglia. Avevo probabilmente sentito tutto The Used senza farci un gran caso, mezzo rincoglionito, e di massima era quella situazione in cui il disco viaggia sulla strada buona per farsi dimenticare. Non so se vi capiti mai.
Ci sono dischi che ascolti fin dalla prima volta con attenzione, interessato a farti un’opinione corretta, e altri che invece piazzi in cuffia solo per riempire il silenzio e vedere se ce la fanno a farsi notare, a sconfiggere la nostra indifferenza mista a mancanza di aspettative.
The Used, con me, ce l’ha fatta in zona cesarini.
Pieces Mended è l’ultima traccia del disco e ricordo come fosse ieri che riuscì a destarmi da quel torpore vacanziero e scazzato e farmi di colpo tornare presente all’ascolto del disco. E poi farmelo rimettere da capo.
Negli anni credo di aver ascoltato tanti dischi il cui fulcro sta nella sofferenza, sia questa reale o posticcia, ma ancora oggi il senso di angoscia e disagio che mi trasmette Berth su Poetic Tragedy non ha pari. Non ho idea di cosa parli il pezzo, non mi è mai interessato approfondire. Per me è e rimarrà il lamento di uno che non se la passa bene, da ascoltare quando anche io non me la passo bene. Perché alla fine di questo si parla: emozioni. Stati d’animo che la musica crea in noi, ma anche in cui noi vogliamo immergerci tramite la musica. Almeno per quel che mi riguarda.
Il disco è tutto bellissimo, lo ascolto ancora spesso senza necessità di urlare GUILTY PLEASURE sui social e sentirmi una persona meglio. Ogni volta che parte Say Days Ago testo la capacità dell’impianto/supporto con cui lo sto ascoltando e dei miei timpani, di conseguenza.
Sui social frequento un paio di gruppi revisionisti/revival in cui l’apprezzamento per certa roba è ormai sdoganato e si vive un clima bello di sincerità e non curanza che dovrebbe sempre stare alla base del dibattito musicale. Chi scriveva su Munnezza oggi probabilmente si divide tra il darsi una posa su twitter (no link needed, you know who you are) e bazzicare gli stessi gruppi che bazzico io, ma in incognito. Buon per loro, c’è sempre da venire a patti con la propria autostima e se questo è il modo, bene così.
Io, di mio, ho fatto pace coi miei gusti troppo tempo fa per star dietro alla scena.

The great COVID Test swindle

Lo so, parlare di tamponi COVID è una roba fuori tempo massimo, ma in questi giorni ho scoperto come funzionano davvero e sono rimasto abbastanza folgorato perché, di massima, sono una truffa.
Due premesse:
1) mi riferisco SOLO ai tamponi rapidi fai da te, quelli che in 15′ ti danno un risultato.
2) quello che sto per spiegare è con ogni probabilità già noto a chiunque, ma io l’ho scoperto solo ora perché avendo una formazione scientifica davo per scontato funzionassero in maniera diversa. Diciamo attendibile. Quindi lo scopo qui non è darvi chissà quale rivelazione, ma spiegarvi perché sono un sistema insensato per l’uso che se ne è fatto.

Partiamo dalle basi: come funzionano questi tamponi?
Sono certo che chiunque ne abbia fatto almeno uno nell’ultimo anno, ma facciamo le cose a modino e mettiamo un piccolo sunto.
Si prende il tampone, lo si caccia in ambo le narici, quindi lo si immerge in una soluzione per qualche secondo prima di versare alcune gocce della soluzione stessa sul test. A quel punto la soluzione bagna una membrana e compaiono delle bande: quella di controllo (C) e quella del test vero e proprio (T). Se compaiono entrambe si è positivi, se compare solo C negativi e se non compare nulla il test non è valido e andrebbe rifatto.
Facile e intuitivo.
La domanda che non mi ero mai posto però è: cosa controlla la banda di controllo?

Qui è dove subentra il mio bias scientifico. Per me era indubbio C fosse data da una reazione di controllo con un antigene presente nella mucosa nasale, che per semplicità chiamerò col nome di fantasia CACCOLA. Metti il tampone nel naso e, ravanando, raccogli sicuramente CACCOLA e, se c’è, anche COVID. Quindi quando poi fai il test la banda C verifica che tutto sia andato per il verso giusto: non solo che il test abbia funzionato, ma che tu abbia effettivamente raccolto il campione. La tua mucosa può essere con o senza COVID, ma deve per forza avere CACCOLA.
In questo modo il controllo è un reale controllo sperimentale e il test ha tre risultati netti e chiari:
– Nessuna banda. Devi rifare il test perché o non ha funzionato, oppure non hai raccolto il campione come si deve. In ambo i casi non è possibile determinare un risultato.
– Solo la banda C. Hai fatto le cose per bene, il campione è stato raccolto, ma non contiene antigene COVID. Sei negativo e puoi gioire.
– Doppia banda C+T: ce l’hai nel culo hai fatto le cose per bene e purtroppo sei positivo.
Tutto chiaro?
Perfetto, solo che non funziona così.

Con mio sommo stupore, la banda C in realtà è unicamente correlata al corretto funzionamento della membrana, quel che penso si possa definire un “controllo strumentale”. In pratica ti dice solo che il test non è difettoso e, di conseguenza, compare sempre. Anche se il tampone nel naso non ce lo metti, per dire.
Attenzione però, il mio punto qui non è tirarvi un pippone protogrillino sull’onestah e menate del genere (so di aver scritto truffa ad inizio post, ma era solo per spingervi a leggere), la questione è un’altra. Farsi un tampone nasale in maniera accurata, o anche farlo a terzi, è un’operazione difficile. Il rischio di non essere sufficientemente invasivi è tutt’altro che remoto, al netto della malafede, perché ci si scontra da un lato con il fastidio/dolore e dall’altro con la non competenza nel farlo non essendo stati formati allo scopo.
Di conseguenza un tampone costruito in questa maniera è ok(ish) se ne vincoli l’utilizzo in farmacia o comunque in mano a personale specializzato, perchè il rischio di mancata raccolta del campione scende drasticamente, ma diventa completamente folle se viene messo in mano al pubblico. Perchè è vero che questi tamponi non hanno mai avuto valore legale (passatemi la semplificazione), ma tantissime persone li hanno usati per determinare se, in presenza di sintomi, fosse davvero necessario sentire il medico e farsi un tampone serio. 
Non è un’accusa eh, il tutto è stato gestito proprio per spingere ad un approccio del genere, ma di nuovo al netto della malafede in questo modo abbiamo lavorato contro il contenimento per un sacco di tempo, lasciando che persone ignare di essersi fatte un tampone male andassero in giro convinte di essere sane come pesci.
Anche perchè, non bastasse, sono tamponi molto biricchini in cui la banda del controllo appare quasi immediatamente, mentre quella della positività può impiegare fino a 15′. Quindi in tantissimi casi scommetto che alla comparsa della prima banda sia susseguita un’esultanza unita al lancio del test nel cestino, con buona pace dei 14′ restanti e dell’effettiva validità del risultato.
Ricapitolando, quindi, abbiamo messo in mano alle persone dei tamponi:
– Poco sensibili
– Difficili da interpretare in modo corretto (differenza di tempo nella comparsa delle due bande)
– Privi di un controllo sperimentale interno (il discorso su CACCOLA di cui sopra)
E abbiamo detto loro di usarli come strumento contenitivo della pandemia.
Alla luce di questa cosa, l’ondata di contagi a cavallo tra 2021 e 2022 mi pare pure piccola.

Ultimo paragrafetto un po’ nerdy per chi fosse arrivato fin qui: perchè non hanno fatto i tamponi con un controllo come quello che pensavi tu?
Non posso garantirlo, ma credo sia una questione di costi. Non lavoro nel settore quindi vado preso molto con le pinze in quanto segue, ma è facile ipotizzare che produrre una membrana in cui anche il controllo è relativo ad una reazione antigenica costi probabilmente il doppio. Senza contare i costi di sviluppo e ricerca per arrivare a creare un test di quel tipo. Quindi sarebbe stato probabilmente possibile farli così, ma certamente non sarebbe stato conveniente. Il problema però, a costo di ripetermi, subentra più che altro quando metti in mano lo strumento al pubblico, cosa che è avvenuta ben dopo lo sviluppo della tecnologia.
Quindi, se lo chiedete a me, avrebbe dovuto pensarci la politica ad arginare il problema. Poi certo, andrebbero fatte analisi approfondite di costo-beneficio (ad esempio: senza i test rapidi in casa quanto avremmo incasinato le farmacie e gli ospedali più di quanto non si sia già fatto? Probabilmente tantissimo.), però siamo ad un livello ulteriore di analisi. Forse per contenere quel problema si sarebbe dovuto pensare ad una soluzione diversa dal liberalizzare uno strumento evidentemente incompatibile con l’utilizzo casalingo.
Avremmo potuto fare tante cose meglio, nella gestione di questa pandemia, ma ho l’impressione che in certi casi non ci si sia neanche resi conto di aver sbagliato e questo è uno di quei casi.


Questo post nasce dalla segnalazione di un amico che citerò col nome inventato di Davide, reo di avermi messo di fronte al problema. Grazie Davide, spero un giorno tu esca da questa tua dipendenza da tampone e possa tornare ad una vita felice e spensierata.

Breve storia triste

Ad inizio Aprile escono le date del tour europeo degli Spanish Love Songs, dove con Europeo si intende Uk e Prussia.
Io sono in una fase piuttosto positiva della mia esistenza: ho tre dosi di vaccino e mi sono appena fatto il COVID, quindi vivo in questa convinzione per cui nulla potrebbe più fermarmi sulla strada del ritorno alla normalità. Ho già comprato il biglietto per il concerto di Dargen e quello per vedere Louis CK all’Arcomboldi, ma penso di poter fare ancora di più, così butto un occhio al calendario, litigo a dovere con mia moglie e decido di incasinare il ponte del 2 Giugno a tutta la famiglia comprando il biglietto della prima data del tour a Londra.
In quelle date c’è il giubileo della Regina, quindi mi prendo qualche ora per mettere giù un piano d’azione che possa funzionare al meglio per tempi, spazi e costi.
1) Mi prendo un volo ottimizzato: arrivo a Londra alle 12:15 del giorno del concerto e ripartenza alle 7:15 del giorno seguente, minimizzando la permanenza su suolo inglese.
2) L’aeroporto è Stansted e siccome arrivarci è un inferno, la distanza è tanta e i pullman oltre ad essere cari non offrono garanzie sull’orario per il ritorno al terminal sia che scelga di andarci dopo il concerto, sia che opti per la mattina seguente, noleggio una macchina.
3) Trovo un piccolo ostello a 600 metri dal locale del concerto (The Dome) con parcheggio gratuito in loco.
A questo punto la logistica sembra davvero perfetta: arrivo, guido fino all’ostello, butto la macchina, faccio un giro in centro fino all’ora del live, vado al concerto, torno in ostello a piedi, dormo e all’alba parto per rientrare all’aeroporto.
Preciso.
Ho anche valutato di portare tutta la famiglia a Londra per tre giorni, ma tra brexit, giubileo e il fatto che Londra è pur sempre Londra veniva a costare una fucilata. Troppo. Molto meglio così.
Sono discretamente gasato perchè è una roba che mette insieme un po’ tutto. C’è il concerto, tra l’altro di quello che è il gruppo che sto ascoltando di più da sei mesi a questa parte, c’è il viaggio, c’è questo mood supergiovane del “vado a sentirli a Londra”.
La fotta, insomma.

Fino a ieri.

 

 
 
 
 
 
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Alla fine ho disdetto albergo e macchina senza costi.
Il biglietto aereo è perso, ovviamente, mentre son stati super rapidi a rimborsare il biglietto del concerto.
Se dicessi che il problema è averci perso dei soldi, tuttavia, mentirei.

Ball don’t lie

Un sacco di papà cercano di infondere ai figli la propria fede calcistica, ci tengono proprio, invece a me non è mai interessato.
Giorgio ha due nonni gobbissimi e uno zio interista sfegatato, che su quel versante hanno lavorato molto più di me per sette anni. Ho sempre lasciato correre, un po’ perchè pensavo che non fosse questione di prima importanza, un po’ perchè, a voler essere onesti, in questi anni non pensavo sarebbe stato fargli poi questo gran favore, crescerlo milanista.
Ho smesso di essere un tifoso vero da ben prima che il Milan smettesse di vincere e credo sia pesato tanto veder andar via Sheva e Kakà. Se sei cresciuto negli anni del Presidente Berlusconi è un cambiamento radicale diventare la squadra che non può tenere i propri eroi. C’è chi pensa che i giocatori vanno ed il Milan resta, ma io sono sempre stato tra quelli che accende la TV più per guardare i giocatori che per guardare la sua squadra. Perchè, di massima, il calcio da guardare è uno sport orrendo, se gli togli il tifo o l’aspettativa per “la giocata”.
Giorgio però negli anni cresceva e voleva sapere come mai fossi milanista e non juventino, ad esempio, visto che “la Juve vince e ha Ronaldo”. Così ho cercato di spiegarglielo, di dirgli che vincere non è l’unica cosa che conta e lui ha iniziato a dire di essere anche un po’ milanista, per farmi contento. 
E’ grazie a mio figlio se ho ripreso a seguire il Milan con assiduità, a guardare le partite, a tifare.
Mio figlio, che ieri mattina dai nonni ha disegnato “Giroud che fa gol”, che ieri sera a cena ha chiamato l’applauso per Theo durante la passerella, ma che non ha voluto vedere la partita con me per “lasciarmi tranquillo”, è il motivo per cui questo scudetto è uno dei più belli.
Me lo ha regalato lui, di fatto.

Il video qui sopra l’hanno fatto quelli di ComunqueMilan, una pagina che in questi anni di disaffezione è stata il mio principale (spesso unico) contatto con i rossoneri. Anche quando non guardavo le partite, leggevo loro e credo il video qui sopra spieghi cos’abbiano di speciale.
Nell’ultimo anno poi non nego di aver avuto addirittura il guilty pleasure del canale youtube di Suma. Una narrazione da istituto luce capace però di riportarmi all’ovile della tifoseria, che non deve essere imparziale nè onesta, basa solo esserne consapevoli. Suma mi ha messo sul carro e mi ci ha tenuto su, devo ringraziare anche lui per questo godimento.
E poi ci sono gli interisti, di tutte le specie.
Da quelli beceri per cui si gode sinceramente nel vederli schiumare, a quelli a cui si vuole tutto sommato bene e con cui è divertente prendersi per il culo. Sempre, ma soprattutto oggi.
E’ a loro che dedico il titolo di questo post.
<3

Catarsi

Cercando la parola Catarsi sul dizionario (che poi è Google) esce questa definizione:

/ca·tàr·si/
1. Nella religione della Grecia classica, il rito magico della purificazione, inteso a mondare il corpo e l’anima da ogni contaminazione.
2. In psicoanalisi, processo di liberazione da esperienze traumatizzanti o da situazioni conflittuali, ottenuto col far riaffiorare alla coscienza dell’individuo gli eventi responsabili, rimuovendoli dal subconscio.

Negli ultimi ventisei mesi ho fantasticato molto su quale sarebbe potuto o dovuto essere il primo concerto post pandemia e su come lo avrei vissuto. Mi immaginavo quale potesse essere la canzone che mi avrebbe fatto tornare compresso in mezzo ad altre persone con il ditino alzato e la necessità di cantare e ogni volta me ne uscivo con una risposta diversa, sempre sbagliata per qualche motivo. In tutto questo tempo non ho mai preso in considerazione si sarebbe trattato di Dargen D’Amico.
Non so perchè, ho anche comprato il biglietto per l’evento di ieri in prevendita, andarci non è stata una decisione estemporanea. Forse ho in qualche modo pensato che per qualche ragione tutto sarebbe saltato, che a quel concerto non ci sarei andato davvero. Chi lo sa.
Invece ieri sera all’Alcatraz di Milano ci sono andato per davvero e all’inizio è stato molto strano. Tante persone, poche mascherine: tutti belli ammassati sotto ad un palco, in un ambiente buio che forse psicologicamente dava l’impressione di essere un non-luogo, una bolla fuori da una realtà che ancora porta evidenti le cicatrici degli ultimi due anni. Di primo impatto quindi il feeling non è stato di ritorno alla normalità, tutt’altro. Non vero e proprio disagio, ma una leggera sensazione di allerta che scorre sotto pelle. Volendo fare un paragone, è stato un po’ come il primo concerto post Bataclan: tutto bene, felice di esserci, ma per la prima volta nella vita fai caso a dove sono le uscite di emergenza.
Ad una certa però è iniziato il concerto e tutto è tornato al suo posto quasi subito, fino al momento in cui è stato chiaro non ci sarebbe potuto essere modo migliore per scrollarsi via due anni e passa di inibizioni, frustrazioni e astinenza. Il momento in cui ci siamo ammassati un po’ più stretti, abbiamo ballato un po’ più spinti e abbiamo cantato un po’ più forte. Finalmente.
Questo momento qui.

Non sono solito fare video ai concerti, è la prima volta e l’ho fatto essenzialmente per mio figlio che è andato parecchio sotto al pezzo e si è seccato di non poter venire al concerto. Non credo lo rifarò in futuro, ma in qualche modo sono contento di aver infranto la mia regola e aver immortalato questo momento importante.
La mia personalissima catarsi.

Ci sarebbe poi da parlare del concerto vero e proprio, che ha visto sul palco un JD decisamente in forma. La scaletta è forse un po’ piaciona e molto correlata all’ultimo disco, cosa che penso sia abbastanza normale visto che si piazza di fatto nel post Sanremo. Le escursioni che si concede vanno a pescare tra i pezzi più noti del repertorio e coprono soprattutto D’Io, relegando a comparsata un po’ tutti gli altri dischi. Il momento probabilmente più figo, a livello musicale, è l’Universo non muore mai, riarrangiata per l’occasione in una chiave parecchio interessante. Bello il momento con Tedua, che su disco non ascolterei manco se mi rapiste i figli, ma che sul palco sa starci.
Nell’encore ha suonato Bocciofili e sono definitivamente impazzito, ma a fine pezzo forse il momento più alto della serata.
Prima fa cantare la folla a comando per un paio di minuti e poi se ne esce con: “Ma perchè vi fate manipolare in questo modo? Vi rendete conto? E’ così che la politica vi usa…”.
Io gli voglio bene, anche più di quanto gliene volessi prima.

Ho cambiato servizio di streaming per la musica

La cosa di avere un blog funziona se poi ci si scrive sopra, di massima.
Non è che non lo sappia eh, solo non ho tutta questa impellenza di raccontare cose, ultimamente, e se proprio mi è capitato di avere qualcosa da dire sono finito per scriverla da altre parti.
In questi giorni però c’è stata una piccola rivoluzione della mia vita domestica ed è qualcosa che magari può interessare altri, quindi eccomi qui.
Ho cambiato servizio di streaming musicale.
Dopo anni di utilizzo, ho disdetto il mio account Spotify Premium per approdare a Tidal e l’ho fatto sulla base di due principali ragioni, che adesso vado a spiegare nel dettaglio.

LA QUALITA’
Non ho mai dato troppo peso alla qualità del suono, quando si tratta di ascoltare musica. Non sono uno di quei fissati dell’impiantino a valvole, quelli del suono caldo del vinile. Ho sempre speso più del necessario per l’impianto audio della macchina, ma l’obbiettivo di massima era che suonasse forte, più che bene. La mia scarsa propensione alla qualità credo derivi essenzialmente dall’ascoltare musica la cui pulizia si piazza tra il rumore dei vicini che tassellano il muro la domenica alle 8:30 e il latrato dei cani, ma anche dall’essermi formato musicalmente ai tempi del walkmen e delle cassette duplicate ad oltranza, in cui il fruscio assurgeva a cifra stilistica. Non sono propriamente uno dall’orecchio fino ed esigente, quindi.
E infatti, a riprova, anni di .mp3 e streaming di qualità infima sono riusciti a farmi sprofondare in una palude di suoni brutti e impastati, che per qualche ragione ho iniziato a considerare come standard anche per dischi che avevo consumato prima della rivoluzione digitale, ma che non ho più avuto modo di ascoltare se non in forma compressa. Questo perchè io sono anche quello che colleziona CD, ma che è stato per anni senza uno strumento capace di farli suonare, per dire. Presa coscienza che la playstation non supportasse più il formato ho comprato un lettore CD per casa, ma lo uso pochissimo, preferendo sempre la comodità dello streaming anche su un dispositivo acquistato all’unico scopo di riprodurre il supporto fisico. Stavo bene così, non avevo letteralmente percezione del problema.
Poi tempo fa ho comprato un disco dei Deafheaven, l’ho messo in auto dopo giorni passati ad ascoltare la sua versione streaming e mi si è aperto un mondo. Ho sempre impostato la qualità dello streaming Spotify al massimo delle sue potenzialità, ma effettivamente anche così resta lontanissima dalla qualità audio del supporto fisico digitale. Quando lo realizzi, è come vedere i fili in un trucco di magia, non riesci a tornare indietro tanto facilmente.
Tidal, nel suo pacchetto base, offre la qualità CD senza compressioni e perdita di dati. Con l’ormai accessibilissima possibilità di connessione 4G a consumo illimitato, non ha davvero senso accontentarsi di qualcosa di meno, visto che la differenza la sento pure io. (ref.)

L’ETICA
Lo dico subito, non mi sono messo a boicottare Spotify per via delle cose che ospita, come fossi un Neil Young qualsiasi. Volendo anzi dire due parole sull’argomento, io sono tra quelli che è felice certa roba esecrabile stia in bella vista su Spotify, per una serie di ragioni che vado ad elencare:
1) Non sono del parere che Hitler abbia diritto di fare un podcast, ma trovo molto importante sapere che se Hitler facesse un podcast lo ascolterebbero X milioni di persone. Ho questa idea che nel 2022 sia utopico sperare che chi ha idee dannose non trovi un modo ed un posto per portarle all’attenzione del prossimo, quindi meglio sia una piattaforma nota a farlo, così che si possa avere anche un quadro della portata del problema. Qualsiasi idiozia trova un buon numero di supporter se esposta al mondo intero, ma quantificare quel buon numero è fondamentale per avere una percezione chiara del mondo in cui viviamo ed evitare di farci fuorviare dalle bolle in cui ci nascondiamo ogni giorno.
2) Una piattaforma come Spotify può offrire alternative al podcast di Hitler, metterlo in competizione con altri contenuti ed evitare che chi ci finisce dentro per curiosità ci resti per assenza di metro valutativo. So benissimo che in questa dinamica pesano le scelte che Spotify fa in termini di “spinta” a questo o quel prodotto, che non è un contenitore neutro, ma è (credo) sbagliato pensare queste scelte arrivino su base ideologica e non economica. Spotify spinge quel che fa ascolti, non quel che sposa a livello contenutistico. Di conseguenza, l’idea dovrebbe essere fare una roba opposta a quella di Hitler e farla meglio di Hitler, muovendo gli ascolti di quelli a cui non va tanto bene la linea di Hitler, in modo da invogliare la piattaforma a puntarci sopra. Hitler non sarà l’unico in grado di fare un podcast con numeri grossi, no? Se lo fosse, direi che il problema andrebbe ampiamente oltre Spotify. Non so, posta l’ineluttabilità del libero mercato che definisce il campo da gioco, secondo me conviene che anche i buoni si mettano a giocare invece di lasciare la partita ai cattivi. 
Mi è scivolato un pistolotto non necessario, sorry.
Tornando al punto di partenza, la ragione etica per cui ho preferito lasciare Spotify è la retribuzione degli artisti. C’è tutta una polemica intorno al fatto che i servizi di streaming non paghino a sufficienza chi fa musica, una polemica in cui fatico ad entrare e su cui ho posizioni probabilmente troppo superficiali (eh, invece di solito…). Quel che conta è che nel momento in cui decido di spendere 10 euro al mese per ascoltare musica online, preferisco farlo abbonandomi a chi paga di più gli artisti. Tidal in questo è largamente meglio di Spotify, già con l’abbonamento “base” paga tre volte meglio, fino ad avere una politica imparagonabile ai competitor quando si sceglie l’abbonamento plus. (ref. e ref.)

Sulla base di queste due ragioni, non nego anche spinto da un influencer, ho fatto il salto.
Il costo del mio abbonamento rimane il medesimo, 9,99 euro/mese, e permette di collegare all’account fino a 5 dispositivi.

E QUINDI COM’E’ STO TIDAL?
Se della qualità ho già detto, il secondo punto nodale che ho valutato prima di cambiare è ovviamente relativo al catalogo. 
Al primo impatto, mi è sembrato che su Tidal mancasse un sacco della musica che ascolto e questo mi aveva frenato dall’approfondire. Smanettandoci invece è venuto fuori che c’è grossomodo tutto quello che avevo su Spotify, solo è molto più complesso da trovare a causa di una ricerca interna fatta con il culo. Spannometricamente, in un caso su 20 l’artista non mi è saltato fuori cercandolo per nome, neanche filtrando la ricerca per artista. In quei casi sono riuscito a rimediare cercando un disco specifico, magari qualcosa con un titolo non troppo ordinario, e arrivandoci da lì. In alcuni di questi casi, fallendo anche con il disco, ci sono arrivato da una canzone. Non è sempre necessario farsi tutto questo sbattimento, ovviamente, per trovare quel che si vuole sentire, però potrebbe esserlo, soprattutto nel caso di artisti non propriamente mainstream. Una cosa che si può fare tuttavia è marcare i musicisti che si ascoltano come preferiti, quindi una volta trovati è sufficiente ricercarli in quella sotto lista le volte successive, eliminando la difficoltà.
Altro problema che ho riscontrato è che a volte piccoli gruppi poco conosciuti hanno degli omonimi e ci si ritrova quindi per le mani una discografia mista, fatta di album di gruppi diversi che per Tidal sono invece lo stesso. Non è particolarmente noioso, a meno che si abbia attiva l’opzione per cui al termine di un disco viene riprodotto in automatico quello seguente. Per quanto concerne il mio catalogo di ascolti, si tratta anche in questo caso di una percentuale minima, ma è giusto segnalare la cosa.
Al momento, l’unica roba che mi pare proprio non ci sia e che mi piacerebbe ci fosse è “Amateurs & Professionals” dei Penfold, che invece era presente su Spotify. Si tratta di un disco introvabile anche in formato fisico, di una band emocore durata pochissimo e conosciuta meno, quindi non mi stupisce troppo la mancanza. Per il resto invece, quel che per ragioni di etichetta/territorio/altro non è disponibile in Tidal non lo era neanche in Spotify.
La pecca che per me è davvero dura da digerire al momento, invece, è l’impossibilità di personalizzare la copertina delle playlist, che viene automaticamente assemblata dal software come collage delle copertine dei dischi di cui la playlist è composta. Da maniaco ossessivo, quando faccio una playlist ci butto davvero il sangue e mi piace gestirne ogni dettaglio, dalla selezione, alla scaletta ad appunto la copertina. Per me è una mancanza gigante, ma avendo questa recensione un target non per forza mentalmente disturbato come chi scrive, la riporto tra i “minor issues”.
Per il resto al momento la valutazione è largamente positiva: la app mi pare completamente analoga a quella di Spotify nell’utilizzo e nella navigazione, anche in auto. Mancano forse le finezze più social, ma non ne ho mai sentito l’esigenza neanche quando le avevo a disposizione. 
Consiglio quindi caldamente il cambio a chiunque paghi per ascoltare musica in streaming, ne vale a mio avviso la pena.

Per chiudere, provo ad incorporare un disco nel blog giusto per vedere l’effetto che fa e come si presenta a chi non ha l’abbonamento al servizio.
Uso un disco senza senso a cui sono finito completamente sotto negli ultimi giorni, ma di cui forse scriverò più avanti. Schiacciare play aiuta a farsi un’idea più centrata di quel che ho definito “musica la cui pulizia si piazza tra il rumore dei vicini che tassellano il muro la domenica alle 8:30 e il latrato dei cani” qualche riga più su.