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Febbraio 2006

Alcune cose che mi fanno stare meglio

Esistono cose capaci di farmi stare meglio.
Non sono tante, ma ci sono e di questo devo essere contento.
Alcuni esempi?
Eccoli:
1- La mia ragazza, capace di stare ore semplicemente in silenzio ad abbracciarmi ed infondermi affetto.
2- I miei amici, le uniche persone in grado di regalarmi serate come quella di stasera e le uniche persone capaci di dimostrarmi preoccupazione per quanto ho detto mi stava accadendo. Non tutti certo, ma anche se a farlo sono stati pochi mi è bastato a sentirmi meno solo ed abbandonato.
3- I miei genitori che nella giornata di oggi hanno sicuramente ridotto il numero delle mie preoccupazioni, semplicemente tornando ad essere quelli di sempre.
4- Il tasso alcolico che al momento stanziona nel mio sangue, regalandomi momenti di ovattata leggerezza.
Con questo voglio semplicemente dire che oggi sto un po’ meglio e che se questo è successo è grazie alle persone che mi stanno realmente vicino, anche se questo non vuol assolutamente intendere nulla di spaziale. I miei problemi non sono certo spariti, sono sempre lì al loro posto e momento dopo momento paiono arruolare un gran numero di nuove leve, anche molto pesanti. Non mi è possibile ignorare questa cosa, tuttavia grazie a quanto ho precedentemente elencato il tutto sembra essere più lontano.
Per quel che mi riguarda, questo è già un traguardo da non sottovalutare.

PS: Non rileggo quanto scritto perchè sono molto stanco e discretamente poco lucido. Spero si capisca, ma se così non fosse penso che potrei vivere ugualmente.

Countdown

A volte le cose vanno male.
Vorrei che chiudendo gli occhi e riaprendoli dopo qualche istante tutto fosse diverso e che i problemi svanissero come d’incanto.
Capita invece che riaprendoli la situazione sia addirittura peggiore.
Oggi è andata così.
Mi piacerebbe poter reagire e superare la cosa.
Mi piacerebbe dire che è stata solo una giornata storta, ma non ce la faccio.
Non ci credo.
Non ho ben chiaro cosa stia succedendo, sta di fatto che sono entrato in un tunnel di cui non riesco a vedere la fine, tanto da iniziare a pensare che la fine non ci sia.
Inizia ad essere troppo tempo che non ne va dritta una ed io inizio ad essere stufo.
Stufo marcio.
Vorrei riuscire a sfogarmi con qualcuno, ma il meglio che riesco a fare è scrivere qui e continuare a far finta di nulla con chi mi circonda.
Non riesco ad aprirmi.
E’ come se avessi il timore di scoprire che nessuno starebbe a sentirmi e quindi faccio finta di nulla.
Sono l’emblema vivente del buon viso a cattivo gioco.
Sono sempre stato così.
Ora però ho seriamente paura di non farcela ad andare avanti.
Ho come l’impressione che si sia innescato un conto alla rovescia che mi porterà ad esplodere e, ad essere del tutto sincero, spero che il momento del tracollo arrivi quanto prima perchè il peso è ormai insostenibile.
Sto male.
Ho paura.

Contrasti

All’interno della mia vita si presentano spesso situazioni in netto contrasto tra loro.
Un esempio sono le due serate consecutive di ieri ed oggi.
Arrivo dal concerto degli Alkaline Trio, gruppo dall’attitudine darkeggiante e da una spiccata “Simpathy for the Devil” che è difficile intendere quanto sia reale e quanto parodistica, seppur voci di corridoio vogliano Matt e Derek membri della chiesa di Satana.
Non che la cosa mi interessi.
Per commentare il concerto devo partire da Derek Grant*, il batterista, perchè è lui che vale assolutamente ogni centesimo speso per la serata. Alla vista, si presenta come una sorta di nazi-punk dell’orrore con una cresta nera e cadente sulla faccia che ricorda il taglio di capelli dell’ultimo Hitler, tuttavia vederlo suonare lascia senza fiato. Spaventoso come tecnica, come stile, come precisione e come presenza scenica. Togliergli gli occhi di dosso diventa impossibile per gran parte della serata, estasiati da tanta maestria. Oltretutto i suoni sono regolati alla perfezione e sulla batteria non mancano gli effetti, uno su tutti l’echo, capaci di creare un’atmosfera fantastica. Nota non da poco la batteria in se, nera laccata, di ua bellezza stratosferica e con tanto di pentacolo sulla cassa che racchiude il logo col teschio. Credo di non sbagliare se dico che è il miglior batterista che io abbia mai visto suonare e posso garantire che di batteristi bravi io ne ho visti un bel po’.
In quest’ottica le restanti componenti del concerto risultano del tutto marginali, sia quelle positive (su tutte la scaletta aperta da “Back to Hell” e chiusa da “Radio” e conseguente pelle d’oca) che quelle negative (gran parte dei pezzi cantati da far schifo).
Alla fine non ho potuto astenermi dall’acquisto della maglietta, segnale inequivocabile del concerto che piace. L’ha presa anche Ale, uguale, piaceva molto ad entrambi.
E se un giorno la indossassimo contemporaneamente e ci incontrassimo?
Non voglio pensare a quanto potrebbe essere imbarazzante.
Pensare che certa gente questi discorsi li fa sul serio.
Impressionante
* While you’re taking your time with apologies,
I’m making my plans for revenge.

“Mi raccomando…”

Erano almeno 10 anni che mia madre non mi diceva una frase del genere prima di vedermi uscire di casa.
L’ha fatto di nuovo questa sera.
L’ha fatto dopo che le ho detto che mi stavo recando in un oratorio di Monza ad ascoltare una conferenza su Cattolicesimo e politica. Chissà cosa mai avrà pensato volessi/potessi fare.
Detto questo, la serata è stata piuttosto piacevole. Stare in un salone ad ascoltare un tizio che parla di chiesa è un’esperienza cui mancavo da ormai molti anni e la cosa ha suscitato in me diversi ricordi, perloppiù contrastanti tra loro.
Vaghiamo subito ogni dubbio: il professor Bressan ha sostenuto una manciata di teorie a dir poco discutibili tra cui spiccano:
1- la negazione di un secondo “Non Expedit” in occasione del referendum del giugno 2005
2- l’omaggio alle grandi opere della DC, soprattutto rispetto ai fallimenti dei governi seguenti
3- il patrocinio cattolico del sentimento anti totalitarista nell’italia del dopo guerra.
La sua analisi storico/politica degli anni da fine 1800 ad oggi ha ovviamente saltato a piè pari gli ultimi sessant’anni, centrando tutto su questioni relative al periodo dell’unità d’Italia secondo lui assolutamente centrali, ma a mio parere utili solamente a farlo parlare senza che il pubblico poco preparato in merito potesse accorgersi che il suo quadro fosse perlomeno opinabile.
Partire dal presupposto secondo cui si vuole raccontare la storia in un modo che “solitamente viene celato” mi fa credere che la si stia raccontando semplicemente in modo non attinente alla realtà, ma questo è un mio parere personale.
Interessante è stato vedere come gli amici di Robi fossero ancora più critici di me a riguardo, sostenendo loro per primi che il caro professore avesse parlato un’ora e mezza senza dire nulla di concreto e sorvolando/negando sulle magagne che la gente era lì per analizzare. Parlare con loro a fine dibattito è stato piuttosto bello perchè, sebbene le loro opinioni fossero ovviamente non sovrapponibili alle mie per certi versi, non erano neppure marcatamente e ottusamente radicali come invece capita spesso che siano. Forse un dialogo verbale si presta effettivamente meglio a queste questioni, rispetto allo scritto.
In conclusione la conferenza è stata abbastanza stucchevole a dispetto della prossima che invece si presenta come molto interessante, ma che purtoppo si sovrappone ai Coheed and Cambira lasciando poco spazio all’immaginazione per quanto concerne la scelta che farò tra le due manifestazioni. Colgo invece l’occasione per ringraziare Robi ed i suoi amici per avermi dato la possibilità di confrontarmi su argomenti non propriamente di analisi quotidiana rispetto a posizioni assolutamente non affini al mio quotidiano. Esperienza che ripeterei volentieri, magari saltando a piè pari il sermone iniziale e dedicandomi unicamente al dialogo.

Let’s talk about me

Facendoci caso, è un po’ di tempo che non scrivo se non di concerti.
Sarà che ne sto vedendo molti, ma pare quasi che non ci sia null’altro di cui parlare.
Voglio parlare un po’ di me.
Voglio parlare della mia quotidianità senza però lasciar galoppare il pessimo umore generale che mi porto dietro dall’inizio di questo non proprio entusiasmante anno nuovo.
Vediamo se ci riesco.
In questi giorni sto studiando molto a causa di uno scritto di Chimica Farmaceutica molto anticipato rispetto a quelli che erano i miei programmi. La materia non è affatto male e i problemi attualmente da risolvere non sono di comprensione. Sono assolutamente mnemonici. Si tratta di riuscire a mandare a memoria una serie considerevole di formule di struttura e nomi di principi attivi. Vedremo.
Il lavoro in laboratorio intanto procede, se per “procede” si intende il fatto che continuo a passare le mie giornate al sesto piano di via Temolo n°4 tra cellule, batteri, eltettroforesi, PCR ed enzimi di restrizione. In realtà infatti di progressi non se ne stanno facendo. I saggi sul promotore continuano a non dare mezzo dato utile e questo non è proprio buono visto che il mio progetto verte su quello. Forse nei prossimi giorni riuscirò ad occuparmi di un altro aspetto della faccenda tramite un esperimento piuttosto semplice e relativamente immediato che potrebbe ridarmi un po’ di entusiasmo, oltre a qualche buon dato. Il problema è che per farlo servirebbe un vettore plasmidico che il mio capo pensava di avere e che invece non ha. Vedremo.
Esaminati i principali componenti della mia esistenza attuale non resta molto altro di cui disquisire.
Sto ascoltando un sacco di metal.
Me ne vergogno anche un po’, ma devo ammetterlo.
Ovviamente mi sto occupando prettamente del lato più poser del metal attuale, tutto quel filone metalcore fatto troppo spesso di occhi pittati e smalto alle unghie. Atreyu, Caliban e Bullet for my Valentine sono alcuni esempi di quel che passa il mio iTunes in queste ore. Nulla a che vedere col metal anni ’80 o con quei filoni risibili provenienti dal buio nord Europa, ma pur sempre metal.
Io lo odio il metal.
Non posso negare il fatto che vedere gente makeuppata che canta di sangue, vampiri et similia mi disturbi abbastanza, tuttavia se mi limito a valutare l’aspetto prettamente musicale della cosa ne sono abbastanza affascinato. “The Curse” secondo me è proprio un bel CD.
A mia parziale discolpa posso dire di stare ascoltando anche “Caution” degli Hot Water Music consigliatomi dal bell’uomo. Non mi prende tantissimo, la voce e alcune linee mi ricordano troppo i Grade che però sono un’altra cosa, almeno dal mio punto di vista. Non sto dicendo che sia male, semplicemente non mi entusiasma.
Ieri era S. Valentino.
Io, da bravo alternativo, non ho festeggiato evitando di dare forza a questa opera vuota e commerciale.
D’altronde quando sto con la Bri è sempre festa.
Yeah.

La pagina di Ze

Ed eccomi a riscuotere il premio.
Non temete, comunque, non parlerò d’altro che del blog stesso, in un certo senso.
In questo spazio, aperto potenzialmente ad un’audience mondiale, non ha importanza quale sia l’origine del tuo nick, Manq. Esso sussiste in quanto tale. E dunque cosa significa la parola “manq” in quanto tale?
Vediamo un po’ di fare un breve viaggio attraverso i suoi significati.
Poniamo di iniziare il nostro viaggio dalle parti del medio oriente. Più esattamente, andiamo nel Nord della Siria, molto vicini al confine con la Turchia. Per i più pignoli (o per quelli che vogliono controllare con GoogleEarth), siamo a 36° 31′ 10N e 37° 3′ 30E, ad un’altitudine di 488 s.l.m.
Ebbene, qui c’è Manq. E’ un paese della Siria non lontano dalla storica Aleppo, nello stato del Muhafazat Halab. Però è abbastanza sperduto, e poi in questi giorni è nuvolo. Lunedì ci ha addirittura piovuto. Andiamo altrove, a cerare un po’ di sole. Ad esempio in Egitto, sulle isole Abu Manq? Ottime per fare immersioni: sono nel Mar Rosso, a due passi da Hurghada, mica male, no?

Vabbè, ho capito, niente percorsi turistici. Allora facciamo un salto al di là dell’Atlantico?
Sulle Ande vivono gli Aymara, una popolazione autoctona decimata prima dagli Incas e poi dall’uomo bianco. Ciònonostante, gli Aymara hanno mantenuto per 2000 anni le proprie tradizioni, tra cui quella di masticare foglie di coca. Ma non è questo il legame con Manq. In verità, la forte identità culturale degli Aymara ha permesso loro di conservare anche il proprio linguaggio. Manq, nel linguaggio Aymara, è la radice che sta alla base di tutti i termini che riguardano il cibo. Ad esempio, “manq’a” significa “cibo” e “manq’suna” significa “mangiare tutto”. Interessantemente “manqhi” significa “dentro” e “manqhankaña” significa “stare dentro”, il che potrebbe portare a speculare un significato etimologico di “manq’a” come “quel che va dentro”, ma sono mere congetture.
Comunque Manq ha colpito anche qui.

Proseguiamo verso ovest? Superiamo d’un lampo anche il pacifico e approdiamo in Giappone. Prima cosa, un po’ di sano shopping… e cosa vediamo in vetrina in questo trendyssimo posto che vende borselli di plastica? MANQ!!!!! Vedere per credere…

Manq

Insomma Manq è un po’ ovunque e si potrebbe andare avanti ancora un po’, basta seguire questo link ed affidarsi alle cure di San Google (o di Google-San, a seconda delle proprie convinzioni filosofiche).

Ze

1° Premio “Template Contest”

  • Manq 
  • Blog

Come annunciato tempo fa, Ze è stato il primo vincitore del contest inerente la nuova veste grafica di questo blog. In cosa mai avrebbe potuto consistere il premio, se non nella possibilità di pubblicare una propria pagina su questo mio diario?
Ringraziando Ze sia per l’aiuto, che per la disponibilità dimostrata nei confronti di quest’idea, eccomi pronto alla consegna del trofeo.

I wish I was queer so I could get chicks

Concerto memorabile.
La Bloodhound Gang ha stile da vendere.
Evento assolutamente da ricordare.
Uniche note negative gli occhiali rotti di Steps e lo smarrimento di alcuni documenti e di 20 euro da parte di Ale.

Attualità

Se è un po’ di giorni che non scrivo è semplicemente perchè non ho nulla da raccontare.
Se avessi scritto qualcosa sarebbe stato ancora una volta un quadro autolesionista incentrato sulla depressione imperante che mi affligge in quest’ultimo periodo. Il dubbio che più mi tormenta ultimamente è sapere se ho di colpo perso la felicità o mi sono semplicemente reso conto di averla persa già da tempo. Nulla di cui io abbia voglia di scrivere, comunque.
Per questo ho atteso di avere qualcosa di cui valesse la pena parlare, prima di tornare su queste pagine.
L’attualità è venuta in mio soccorso.
A tenere banco in questi giorni sono sostanzialmente due argomenti: quella pagliacciata che è la campagna elettorale per le elezioni politiche italiane e le vignette satiriche danesi raffiguranti Maometto.
Partendo dal presupposto che il mio interesse per entrambi gli argomenti è pari a quello mosso dal curling, dalla filosofia zen e dalla pesca d’altura, sono rimasto letteralmente agghiacciato da quanto si è innescato riguardo il secondo dei due fronti citati.
Folle aizzate dai governi, nel tentativo di convogliare l’odio e l’insofferenza che quella povera gente altrimenti riverserebbe su di loro, verso i propri nemici o semplicemente verso capri espiatori. La cosa è indubbiamente più facile se le folle sono accecate e soggiogate in virtù di un ideale religioso a cui non possono opporsi. Si può contrastare l’uomo che ci governa, ma certamente non si può contestare ciò che Dio ordina. Peccato che ciò che Dio ordina arrivi alla gente tramite l’uomo che la governa e che quindi spesso le due identità vengano a sovrapporsi. La stessa cosa la fece Hitler, che in parole spiccie fece credere al popolo che non c’erano soldi perchè se li intascavano gli ebrei. I governi giocano ad incanalare la rabbia e l’insofferenza della povera gente e la convogliano dove più fa loro comodo.
Banale.
Eppure la gente non se ne accorge.
Il mio discorso non è più legato al solo medio oriente, perchè è così ovunque. In america hanno i terroristi con cui accanirsi se manca la minima assistenza sociale e la povera gente muore di fame, da noi ci sono gli immigrati ed i cinesi da incolpare se c’è crisi economica e si fatica ad arrivare a fine mese. Tuttavia se un ragazzo sedicenne e rincoglionito dalla propaganda spara ad un prete in Turchia per giorni non si parla d’altro, mentre se quattro ragazzi, sempre giovani e sempre storditi dalla medesima propaganda, pestano a sangue un immigrato alla periferia di Milano forse se ne legge su “La Padania” e di certo non in chiave critica.
Ecco una bella sequela di ovvietà.
Tristi ovvietà, oltretutto.
A causa di queste ovvietà mi tocca vivere in un mondo governato dalla violenza figlia, ancora una volta, dell’ignoranza.
Forse nella gara a chi si libererà per primo dal peso delle dittature teologiche l’occidente è un po’ in vantaggio, ma certamente nessuno vede ancora il traguardo. In questa condizione non mi sento di giudicare nessuno. Forse mi sento di giudicarci tutti.
Chiudo con l’immagine presa dalla copertina* di un disco antecedente i fatti di cui sopra e, come giusto, passata totalmente indifferente.
Scandalosa?
* Se i Most Precious Blood fossero stati Iraniani? Se Mosconi fosse stato un imam? Chissà…

Silverstein

Eccomi appena giunto dal concerto.
Parlarne è difficile perchè, per certi versi, è stato sicuramente uno dei più brutti che abbia mai visto, tuttavia è da sottolineare che un po’ me la sono andata a cercare.
Sono arrivato alle 20:30 e i ragazzi avevano appena iniziato a suonare “Hear me out”, primo pezzo della scaletta. Cerco di raggiungere una posizione decente sotto il palco. L’operazione è paradossalmente più difficile del solito, poichè lo stuolo di bambine (non lo dico per dire, l’età media sarà stata 15/16 anni) presenti oppone resistenza. Frasi come “Siamo arrivate prima noi”, “Se vai davanti tu noi non vediamo niente” e “Non spingere” mi vengono rivolte per tutto il tempo che impiego a portarmi a ridosso delle transenne, mentre cerco di spiegare che tanto sarei rimasto lì solo per il gruppo spalla e che poi me ne sarei andato.
Arrivato in posizione decente mi ritrovo affianco ad un tizio alto e capellone che salta e si dimena come un pazzo, pogando da solo e rigorosamente a gomiti altissimi.
Forse era meglio stare tra le ragazzine.
Scatto qualche foto e seguo la performance dei Silverstein piuttosto innervosito, oltre che dall’ambiente circostante, anche dal suono che, per quanto ottimale e pulito, non presenta traccia della voce. In tutto suonano otto pezzi, facendo anche un discreto show per essere un gruppo preposto a scaldare gente che non vuole farsi scaldare.
Un po’ deluso dalla scarna esibizione, ma al contempo conscio che avrei dovuto aspettarmelo, mi reco al banchetto del merchandise dove acquisto il nuovo CD nella versione bonus con DVD alla modica cifra di 8 euro.
Onesto.
Sono le 21:05 e potrei benissimo andarmene a casa. Tuttavia decido di provare a sentirmi almeno un po’ del concerto dei Simple Plan, giusto per dare un senso ai 21 euro spesi e alla vasca fattami ber giungere in via Valtellina.
Alle 21:30 il quintetto pop-punk inizia a suonare.
Ebbene, ora posso asserire che i Simple Plan dal vivo non sono malaccio. Occupano benissimo il palco, si divertono, fanno divertire il loro pubblico e non si atteggiano nemmeno tanto. Una buona metà della folla è in delirio. L’altra metà è invece piuttosto annoiata e sconsolata, ma trattandosi di genitori giunti in loco perchè costretti la cosa è comprensibile.
Il cantante è realmente un gran figo, sia esteticamente che come attitudine, e questo fa si che io possa vedere volentieri metà del loro live set senza che la cosa mi pesi troppo.
Intanto faccio due chiacchiere con Josh, chitarrista dei Silverstein passato dall’altra parte delle transenne a godersi una birretta coi pochi fans. Molto simpatico.
Me ne vado intorno alle 22:30, stancato più che dalla musica dei Simple Plan, dai suoni orrendi (echo e alti a volumi improponibili, roba da male ai timpani) e dai continui “grazie/vi amiamo/siete forti/Ok Milano?/Siete molto sexy/…” che il cantante non fa che gridare tra un pezzo e l’altro.
Se dovessi quindi dare una valutazione alla serata direi che non è stata male, poichè vedere gente che suona mi fa sempre molto piacere. Certo il rapporto qualità:prezzo è ai limiti del vergognoso, ma come detto avrei dovuto aspettarmelo e comunque non aver speso i soldi sta sera l’ha reso meno lampante.
Sono contento però che nel 2005 le ragazzine sbavino per gente che quantomeno suona e scrive della musica piuttosto che per fotomodelli capaci solo di balletti imbarazzanti una volta messi su un palcoscenico. Insomma, le boyband di oggi sono nettamente meglio di quelle della mia generazione.
E’ anche vero che quando io avevo 15 anni il CD cult alternativo per definizione era “Smash” e gli Offspring, con tutto il rispetto per i Simple Plan, erano tutta un’altra musica…
Who's Josh?
*Josh & Manq. He’s crazy!