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Riflessioni

Ce lo meritiamo, il capitalismo

Attenzione, stai per leggere una roba che i competenti chiamano “flusso di coscienza”, ovvero una serie di frasi scritte di getto sull’onda emotiva di un momento come tanti, ma con più tempo a disposizione.
Se molli il colpo prima di partire non me la prendo.
Amici come prima.
Esattamente come prima.
Se sei tra chi c’era all’inizio, sai che qui, una volta, era tutto flussi di coscienza.

Non ho la pretesa di pensare il mio lavoro sia rilevante, ma quando passi una giornata nel reparto di oncoematologia pediatrica di un ospedale diciamo che è complicato non mettere le cose in prospettiva. Tutte le cose, quindi anche il fatto che il lavoro che fai faccia in qualche modo parte del processo che prova a tenere le persone dal lato verde dell’erba. Sul principio è anche una bella sensazione, non lo nascondo, ma se inizi a pensarci ti tocca considerare un po’ di cose non necessariamente piacevoli.
La prima è che, statisticamente, sei molto più utile a “vendere” reagenti che non a fare lo scienziato. Chiunque tu sia, ma soprattutto se sei me. La mia carriera accademica (2005-2013) vanta una decina mal contata di pubblicazioni scientifiche peer review, ho pubblicato ogni singolo progetto a cui abbia lavorato, ma è piuttosto evidente che il mio impatto sul progresso scientifico sia zero. Non intendo basso eh, proprio nullo. Diciamo che mi si trova alla voce “Risposte a domande che non era necessario porsi”. Oggi il numero di progetti di ricerca su cui posso avere impatto è imparagonabile, per quantità, e per quanto il mio ruolo all’interno di ciascuno di essi sia decisamente più esiguo (leggi: marginale), è pur sempre legato a trovare la chiave per far funzionare le cose prima e/o meglio. E quando i numeri salgono, sale la possibilità che qualcosa finisca per servire sul serio. Il che ci porta ad una questione ancora più odiosa.
Io a sta gente le soluzioni le devo vendere.
Una parte della narrazione è che quei soldi ripaghino dell’investimento fatto in termini di ricerca e sviluppo, un processo che va coperto economicamente perché sopporti i fallimenti e possa ammortizzarli. Innegabile. Però gli stessi soldi arricchiscono anche le persone. Nel mio caso specifico perlomeno a guadagnarci è chi ha messo in piedi l’azienda da zero e non qualche fondo di investimento / magnate della finanza a cui della scienza interessa solo il ritorno economico (può sembrare una cosa irrilevante, ma per me fa tutta la differenza del mondo), tuttavia parliamo sempre di persone che sono diventate oltremodo ricche. E il mio lavoro, oltretutto, è fare in modo lo diventino ancora di più. Contribuire al progresso scientifico è il mezzo che giustifica il fine, non viceversa.
So cosa state pensando.

Avete ragione.
La cosa che però mi fa arrabbiare più di tutto, la riflessione da cui nasce questo post, è che senza questo sistema malato che cerca profitto in ogni posto, ad ogni costo, il progresso sarebbe un bel pezzo più indietro.
Il motore che ha portato alla crescita esponenziale, direi a 360°, ma sicuramente almeno in ambito scientifico, è la ricchezza. Il sistema dei brevetti, la competitività, sono tutte storture che ci permettono oggi di curare malattie fino a ieri incurabili (spesso causate dalla pressione che questo stesso sistema esercita sugli individui, ma quella è un’altra questione). Era impossibile un’altra via? Non saprei. Difficile fare la storia con i se, ma forse sarebbe stato necessario evolvere come specie in maniera diversa. Meno individualista, meno egoista. Invece dopo 200 mila anni siamo ancora la più spietata tra le specie, addirittura disposti a sacrificare noi stessi sul lungo periodo, contro ogni possibile istinto di autoconservazione.
Purtroppo, ad una specie così, difficile chiedere di concepire qualcosa di meglio del modello capitalista. Sarebbe come aspettarsi la svolta vegana dai leoni.

Alla fine, probabilmente, l’unico vero problema è che quando esci da una giornata spesa in oncoematologia pediatrica sei costretto a guardare alla tua realtà e ringraziare di venirne fuori con al massimo qualche riflessione sul senso del tuo lavoro.

Anche i draghi piangono

Dopo aver visto le prime tre puntate della nuova serie HBO House of the Dragon direi che ne ho abbastanza per scrivere due righe qui sopra.
Ci sarà qualche SPOILER, forse, ma come detto sono passati giusto tre episodi e io non ho mai letto il materiale letterario a cui si ispira questo prequel, quindi anche facendo mente locale non mi viene in mente chissà quale rivelazione io possa farvi da qui in avanti. Siccome però so che sull’argomento siete tutti ipersensibili, meglio tutelarsi.
Partiamo dal principio, per i più distratti: House of the Dragon altro non è che una nuova serie targata HBO e ambientata nell’universo di Game of Thrones ideato da George RR Martin, ma che narra avvenimenti accaduti circa 170 anni prima della serie originale. C’è un certo fermento attorno ai prodotti collaterali di quella saga e i motivi sono essenzialmente due:
1) Martin continua a parlare di quanto materiale sfruttabile ci sia, un po’ perchè VIVA I SOLDI e un po’ per tenere a bada la sua fanbase diversamente abile che ancora aspetta i libri conclusivi dell’opera.
2) La HBO vorrebbe continuare a beneficiare di un prodotto che ha avuto un successo fuori scala, un po’ perchè VIVA I SOLDI e un po’ perchè in un panorama di offerta ampiamente superiore alle esigenze del pubblico diventa difficilissimo tirare fuori prodotti originali che ripaghino dell’investimento a meno di usare come traino un brand già forte di suo.
Così, tra un progetto con Naomi Watts naufragato male e le storie future di Jon Snow di cui nessuno, ma davvero nessuno, sente il bisogno, è uscita questa House of the Dragon (da qui HotD), accompagnata da recensioni e commenti entusiasti provenienti grossomodo da ogni direzione.
Ecco, qui io cerco di dare un’opinione disallineata provando ad argomentare una minima, conscio del fatto che se anche qualcuno leggesse il pezzo probabilmente lo derubricherebbe a “parere di un hater” o a semplice volontà di fare il bastian contrario. Ci sta, come ci sta far notare che “se pensi che siano tutti matti, forse il matto sei tu”, però alla fine della fiera siamo sul mio blog quindi avete poco da rompere i coglioni.

Al netto dell’opinione soggettiva che posso aver maturato dopo questo inizio di stagione, ci sono già alcune valutazioni che credo di poter dare per oggettive. La più importante è che HotD ha mezzi che la serie originale ha avuto forse nelle ultime stagioni, sia in termini di budget che proprio a livello tecnologico. Le ricostruzioni CGI degli ambienti (su tutti Approdo del Re) permettono immagini molto più immersive e vive dell’ambientazione e anche l’utilizzo delle comparse è molto meno al risparmio rispetto alle prime stagioni di GoT, cosa che conferisce al tutto un aspetto molto più solido e credibile, specie quando si parla di battaglie. D’altra parte, qui siamo nella casa dei draghi e di conseguenza i draghi si devono vedere bene. 

Quello che per me non funziona è il racconto.
Io ho iniziato a guardare GoT dopo aver letto tutti i libri usciti fino ad allora*, di conseguenza probabilmente il motore che mi spingeva a stare dentro la narrazione non era basato sul cosa sarebbe successo, ma sul come lo avrebbero rappresentato. In questo caso invece mi si vuole raccontare una storia nuova, di cui non so nulla, partendo da un’ambientazione a cui non chiedevo più niente. Nel bene e nel male, infatti, la conclusione della saga originale non mi ha lasciato interrogativi o curiosità che avessi voglia di colmare, la storia che ci hanno raccontato può esserci piaciuta o meno, ma di certo è conclusa e, di conseguenza, per farmi ritornare a Westeros è necessario mi si racconti qualcosa di appassionante e/o mi si presentino personaggi interessanti. Altrimenti mi scogliono.
Ecco, con HotD mi sto scoglionando.
E’ vero, la storia è poco più che abbozzata al momento, ma cosa ci hanno messo di fronte? Una dinamica di successione al trono. Esattamente come in Game of Thrones, ma infinitamente depotenziata dal fatto che, di riffa o di raffa, sarà un Targaryen a finirci sopra. Lo sappiamo già, sarà così fino a Robert Baratheon. Quindi? Forse l’idea è realizzare un The Crown coi draghi, una sorta di fantasy biopic di una famiglia reale che vorrebbe risultare più disturbata e disturbante di quanto non siano già le famiglie reali esistenti solo sulla base del fatto che, boh, hanno lucertoloni di 10 metri come animali di compagnia. Un po’ pochino, se lo chiedete a me.
Però magari non è quella la chiave, il vero punto attorno cui dovrebbe scaturire la passione sono i personaggi. Possibile, ma allora guardiamoli insieme questi personaggi.

La protagonista è sicuramente Rhaenyra, la giovane figlia di un Re che non ha eredi maschi. Lei però non è la classica principessa disneyana (!!!), ma una fiera combattente che non accetta di essere considerata inadatta a governare solamente perchè donna e che, anzi, si trova molto più a suo agio a cavalcare un drago che non a fare da coppiera mentre gli uomini governano. Al netto di tutto quel che si potrebbe dire in merito all’originalità di questo archetipo nel 2022, ma soprattutto dentro un’ambientazione che ci ha già dato Daenerys, Arya, Brienne, Ygritte fino a Lyanna Mormont,  il nonsense vero è che letteralmente subito il padre si arrende all’evidenza di non avere alternative e la nomina erede al trono. Quindi abbiamo questa povera ragazza che prova ardentemente a comunicarci tutto il suo struggle di donna sulla base del niente, di psicodrammi tipo: “ok mio padre mi ha nominata erede al trono, MA NON LO PENSA VERAMENTEH”. Una roba talmente risibile e piangina che tanto valeva farla interpretare a Simone Inzaghi. Perchè purtroppo non solo Rhaenyra vive in un contesto dove grossomodo ogni donna che abbiamo incontrato ha dimostrato di essere fortissima, smarcandosi da qual si voglia stereotipo di genere, ma che nel farlo ha dovuto davvero passare le peggio violenze fisiche e psicologiche, tirando fuori un carisma ed una determinazione ammirevoli, nel bene e nel male. Prendiamo Daenerys, l’esempio più immediatamente correlabile. E’ un personaggio che non ho mai amato, ma nessuno può faticare a comprenderne il desiderio di rivalsa o il peso della condizione. In quello sta la sua forza narrativa. Rhaenyra non ha oggettivamente nessun motivo per essere incazzata e quindi sembra solamente una ragazzina capricciosa.
Il padre di Rhaenyra è Viserys I ed è oggettivamente il mio personaggio preferito al momento. A sua volta Re per mancanza di eredi maschi diretti (perchè, se non lo aveste capito, nessuno vuole una donna sul Trono di Spade), si trova a dover gestire il peso della corona e le decisioni scomode che ne derivano. Deve scegliere se provare a far nascere suo figlio uccidendo la moglie o lasciar morire entrambi (vorrei capire chi sceglierebbe la seconda), deve decidere come arginare suo fratello pazzerello che, in qualità di nobile, fa esattamente quello che fanno i nobili (ovvero il cazzo che gli pare) ed è obbligato a risposarsi dopo aver perso la sua amatissima moglie anche se lui non vorrebbe perchè l’amore non va a comando della politica. Giuro, sembra un personaggio di Anche i ricchi piangono. Gira tutto attorno al messaggio che “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”, senza che queste responsabilità risultino mai davvero così grandi, eppure almeno ne viene fuori una figura credibile.
L’ultimo della triade è Daemon, che anche in virtù del nome cazzuto è il pazzerello della situazione. In assenza di eredi maschi del fratello sarebbe lui legittimo pretendente al trono, ma siccome è uno che pensa di poter fare il cazzo che vuole solo per via del cognome che porta (Quando mai? E’ intollerabile!), viene messo al bando un po’ da tutti. Tanto che gli viene preferita addirittura sua nipote come possibile reggente, cosa che lo fa incazzare. Qui tocca fermarsi un secondo. HotD è quella serie che cerca di convincerti che un tipo che viene privato di un suo diritto e si incazza è stronzo sulla base del fatto che quel diritto, completamente contestualizzato nella realtà fittizia in cui ci viene presentata la situazione, è invece superato e ingiusto nella realtà in cui viviamo ci piace pensare di vivere. Notevole no? A parte questo, Daemon è un personaggio super edgy (ha sposato una prostituta, signora mia dove andremo a finire?), cazzutissimo in combattimento, ma che sotto sotto ha un cuore di panna visto che l’unica causa dei suoi mali è la nipotina a cui lui però vuole bene e a cui non sa dire mai di no. Aww.
Intorno a questa triade, vaghe copie sbiadite di personaggi già visti in ruoli già caratterizzati nel corso della serie precedente, che lottano anima e corpo contro la tendenza di noi spettatori a scordarci il loro nome.

L’ultimo paragrafetto di questa minirecensione faziosa lo dedico alla scrittura, che è forse il punto che soffro di più in tutta la faccenda.
In anni di GoT ho letto le peggio cose rivolte agli sceneggiatori Benihoff e Weiss, soprattutto quando il materiale originale è venuto meno e si sono trovati a dover chiudere le questioni ancora aperte. Io non sono particolarmente fan del loro lavoro, come tutti ho la mia opinione sulle scelte che hanno operato e non tutte mi hanno soddisfatto (eufemismo), ma ho sempre trovato il disprezzo nei loro confronti sovradimensionato, alimentato spesso in maniera subdola da quel maiale Martin e dalla sua fanbase più idiota. 
Una delle accuse che è stata loro mossa più spesso è l’aver abbandonato la veridicità spinta delle scene scritte dall’autore dei libri in virtù di scelte più spettacolari e cinematografiche che, però, soffrivano molto in termini di credibilità. Quelli che in gergo vengono definiti WTF o, da chi ne capisce davvero, MACCOSA. Ci sono mille esempi in merito, ma non riaprirò il cassetto delle polemiche.
Mi fa però davvero strano vedere e leggere chi li ha massacrati negli anni, spellarsi le mani di fronte a questo nuovo prodotto, visto e considerato che quello che segue è lo script dell’ultima scena del terzo episodio, senza esagerazioni (ma con SPOILER):

C’è una guerra che dura, in stallo, da 3 anni.
Lo stallo è dovuto al fatto che il nemico si rintana nelle grotte e il drago di Daemon non riesce a sputarci sopra il fuoco.
Dopo tre anni il Re decide di intervenire e aiutare il fratello.
Daemon legge la missivia, si sente piccato nell’orgoglio perchè a lui non serve certo l’aiuto di nessuno e decide di risolverla sul momento.
Si presenta da solo nel campo di battaglia fuori dalle grotte, si inginocchia e mostra bandiera bianca.
Il capo dei nemici, Crab Feeder, esce a verificare.
Con lui escono TUTTI i nemici.
La resa era finta, Daemon inizia a combattere in campo aperto contro tutte le truppe nemiche, da solo e sotto una pioggia di frecce.
Nessuna lo colpisce. No aspetta, una. Alla spalla.
Il nemico, numerosissimo, inizia ad accerchiarlo. Crab Feeder è fermo e si guarda intorno senza capire che cazzo stia succedendo (NdM: come dargli torto).
Da non è ben chiaro dove esce un drago che carbonizza tutti i nemici, tranne il capo che viene rincorso e trucidato da Daemon.
Guerra in stallo da tre anni, vinta per annientamento totale del nemico in 20 minuti e senza perdite, solo sulla base del “Te lo faccio vedere io se mi serve il tuo aiuto”.

Non posso averne la prova, ma una porcheria del genere scritta dai due di cui sopra avrebbe portato ad un’insurrezione popolare, invece qui è accolta come grande televisione. Perchè se è una roba che ha scritto Martin (o da cui Martin non ha preso pubblicamente le distanze) è buona per forza.

Probabilmente continuerò a guardare questa serie, il tempo per smentirmi è tutto dalla sua parte visto che ne sappiamo tutti ancora troppo poco, ma quando leggete o sentite dire in giro che è “tornato il vero Game of Thrones” per me ve la stanno vendendo. Mancano i personaggi, mancano i dialoghi e manca una struttura narrativa che possa anche solo ricordare lo spessore di GoT. Ci sono i draghi, però. Magari per qualcuno il vero Game of Thrones sono i draghi.
Ce n’è di gente strana.
Diciamo che io ho fatto la recensione dei commenti entusiastici che ho trovato in giro. Non ne so abbastanza per dire che la serie sia realmente tutta qui, ma sulla base di quanto visto questo stuolo di complimenti è ampiamente discutibile.

*Che gag

It’s all good, man

L’ultimo episodio di Better Call Saul me lo sono visto in un posto impronunciabile dell’Islanda del sud. Prima di partire avevo pensato di vederlo al rientro, con calma, ma non ce l’ho fatta. Non tanto per la paura degli spoiler, che ok, c’è sempre, ma che forse per una serie del genere è molto più di facciata che non reale (voglio dire, quello che succede pesa probabilmente il 30% nelle ragioni per cui guardare BCS), ma perché avevo davvero il bisogno della mia dose di Gilligan&Gould.
Quindi questa mattina, approfittando di una giornata piuttosto scarica dell’itinerario, ho deciso di guardarmi il gran finale dell’opera. Ho messo i bimbi di fronte ad un film (Paddington 2), mi sono piazzato sul letto con le mie belle cuffiette e… blocco.
Per quanta voglia avessi di vedere l’episodio, psicologicamente ero inibito dall’idea sarebbe stato l’ultimo. Per sempre.
La verità è che non sono affatto pronto a dire addio a quell’ambientazione, a quei personaggi e a quel modo unico di mettere in piedi uno show televisivo. Caratteristiche che fanno di Better Call Saul la più bella serie televisiva che io abbia mai visto. Certo, senza Breaking Bad non potrebbe essere così bella, ma avendo visto la serie madre ci si può godere tutti i multilivelli di questo prequel e apprezzarlo per il capolavoro che è.
Perché ovviamente ci sono cose visibili prendendola come opera a sé: livello di recitazione eclatante, fotografia e regia non solo magistrali, ma con un’identità talmente spiccata da diventare iconiche e musiche sempre centrate, ma l’elemento davvero impareggiabile della serie rimane la scrittura e per poter comprendere davvero quanto profonda e curata sia, aver visto tutto il pacchetto è, giustamente, fondamentale.
In questi giorni quel mentecatto di George R. R. Martin è tornato a blaterale delle serie correlate a GoT, così mi dà modo di usarlo come perfetta antitesi alla scrittura di Gilligan. Perché aprire mille filoni narrativi non è complicato, se si ha fantasia. Ciò che distingue un tipo fantasioso da uno scrittore è la capacità di chiudere gli intrecci, non solo coerentemente, ma senza lasciare sbavature o buchi. Una cosa che Martin non è evidentemente in grado di fare.
Digressioni da hater a parte, Better Call Saul chiude, probabilmente per sempre, la nostra finestra sul mondo di Breaking Bad e lo fa nella maniera più potente ed elegante possibile, sempre con quel gusto amaro tipico delle storie che parlano di personaggi diversamente buoni.
Si abusa del termine capolavoro, io per primo ne faccio un uso eccessivo, ma qui siamo al cospetto di un vero, letterale, Capolavoro, che resterà nella storia dell’intrattenimento seriale e che, nel complesso dell’opera, è probabilmente destinato a definirne l’apice.
Guardatevela, se vi manca.
Io ne sono già orfano inconsolabile.

Road to 25 Settembre

Quindi siamo in campagna elettorale.
Ci sta dai, con questo bel meteo pre-apocalittico e gli scenari della pandemia e della guerra ancora lì nella penombra, ne sentivo davvero il bisogno. Non bastasse, ci si arriva al culmine di una crisi di governo talmente noiosa che non sono nemmeno riuscito a sfruttarla per @emocrazia.
Se c’è una cosa vera però, è che lagnarsi riesce ad essere persino meno utile delle urne il 25 settembre prossimo venturo, quindi è il caso di prendere il toro per le corna e sfruttare la cosa, quantomeno per levare polvere e ragnatele da questo blog.
Campagna elettorale, dicevamo, e quindi non si può che partire dal simbolo di questa stagione politica: i sondaggi.

Partiamo dall’elefante nella stanza, ovvero il PD.
Giorni fa si ipotizzava come potesse forse essere una buona idea da parte di Letta mettere insieme una coalizione con Draghi a fare da frontman. Sarebbe stata probabilmente la prosecuzione più logica di tutta quella retorica de “L’Italia vuole Draghi” di cui si sono riempiti la bocca mentre si consumava la crisi di Governo. Da ignorante, poteva forse essere l’unica via per provare a mettere insieme i numeri che servono per governare. Una bella congregazione che chiameremo col nome fittizio di Democrazia Cristiana, pronta a raccattare esuli un po’ da ogni parte(1) con l’unico scopo di avere numeri sufficienti a contenere il botto della Meloni e provare a governare di nuovo. Perché nessuno mi toglie dalla testa che IoSonoGiorgia di salire al Colle non abbia la minima voglia, oggi. La prospettiva più concreta per lei è trovarsi nell’intorno del 20% abbondante: primo partito nazionale, ma costretta a governare con elementi che non aspettano altro che buttarglielo al culo (molto cristianamente). Io credo preferirebbe di gran lunga non avere i numeri in Parlamento e piazzarsi all’opposizione da primo partito, da vincitrice delle elezioni, blaterando di “democrazia soverchiata” e minchiate analoghe, mentre lavora alacremente per costruire una destra più solida attorno a lei e prendersi il Paese per davvero. Se invece si trovasse ad avere più di quel 20% (diciamo il 30%) dovrebbe governare, ma con una maggioranza che dubito reggerebbe a lungo.
Ambo i casi, una coalizione guidata dal PD per un Draghi Presidente legittimato dalle urne(2) avrebbe la chance di restare in carica e tirare la carretta.
Non so perché questa idea sia solo mia. Forse Marione ha paura di perdere le elezioni e veder frantumare la storia del più amato dagli italiani, forse non vuole fare la fine di Gesù con Barabba. Mi pare il tipo da sentirsi Gesù in effetti.
Forse invece è il PD che preferisce non ufficializzare il passaggio al lato oscuro appoggiando apertamente Draghi in una tornata elettorale. So che pare assurdo per un partito che ha raccattato Casini e che se tutto va bene si prepara ad assorbire la Gelmini, ma evidentemente non tutti tiriamo la riga del “Questo proprio no” nello stesso punto ed effettivamente per tanti candidare apertamente Draghi è meno accettabile che rimpolpare le proprie fila con personaggi anche “peggiori”, per una questione di peso del ruolo ricoperto. 
La mia percezione è che la politica dei programmi, se mai è esistita, sia morta e sepolta, sostituita dalla politica che come unico scopo ha le elezioni. Prendere voti come fine e non come mezzo.
In questo senso il PD cerca di prendere dove può e a furia di sentirsi dire che è un partito di destra da scassaminchia della sinistra TRVE che poi lo votano comunque(3), forse ha realizzato che siamo un Paese di destra e che rincorrere quei voti sia tendenzialmente più utile allo scopo. Voglio dire, assodata come irreversibile la condizione che lo vede stagnare al 20% e abbandonati i sogni di gloria che furono, forse è davvero l’idea più conservativa (ammicco ammicco). Tanto:
– chi si sente troppo di sinistra per votare PD (legittimamente, ben inteso) non lo ha mai votato e non inizierà certo nel 2022, qualunque cosa accada.
– chi si sente troppo di sinistra per votare PD, ma “tura il naso per il bene del Paese”, continuerà a turare il naso.(4)
Il market share da guadagnare è tutto dalla parte opposta, ovvero da chi non si sente abbastanza fascista da votare la Meloni o chi ancora sente la sabbia quando caga dopo aver votato M5S. Trovo molto strano ci sia da trent’anni una vasta maggioranza di sinistra che si ostinano tutti a non voler rappresentare.
Allora forse è solo questo il punto.
Siamo un Paese tendenzialmente di destra, non da oggi. Lo siamo perché, al netto di tutti i problemi, in media abbiamo più cose da perdere che da guadagnare(5) e questa è la posizione tipica di chi gioca per lo status quo.
Alcuni di noi hanno un’etica più ingombrante, ad altri piace sentirsi nel giusto, ma a conti fatti la sinistra può permettersi di non esistere (o stare allo zero virgola) solo se le persone che ne hanno davvero bisogno sono poche e/o non contano un cazzo, costrette ad affidarsi al buon cuore di chi mette una croce sulla scheda con lo stesso spirito con cui manda un SMS a Telethon (magari dal cellulare aziendale).
E allora mi dico che se ha ragione Twitter, se il PD è davvero il nuovo centrodestra, speriamo se ne accorgano anche quelli che il centrodestra lo hanno sempre votato, che anche loro ogni tanto tirino la riga del “Questo proprio no”. A sinistra ormai siamo abituati a urlare FASCISTI a grossomodo tutto e, un po’ come nella favola “Al lupo! Al lupo!”, ora che i fascisti sono arrivati davvero tocca sperare che qualcuno ci dia ancora retta e veda la differenza(6).
Se il PD è il centrodestra, anche da sinistra dovrebbe essere facile riconoscergli l’essere il miglior centrodestra possibile, quindi temo non ci resti che sperare vinca.(7).
Non col mio voto eh, intendiamoci.
Dico in generale.


(1) avete mai notato come la politica sia l’unico frangente in cui l’accoglienza è un caposaldo? Dovremmo prendere spunto.
(2) qualsiasi cosa voglia dire.
(3) questa è una categoria che mi fa particolarmente incazzare, un po’ come quelli che il giorno dopo le primarie democratiche USA fanno le pulci al candidato che viene fuori. Se tanto lo voti comunque, perché converti la mancanza di alternative in senso del dovere, a cosa stracazzo serve fare le punte al cazzo? Non dico in generale eh, dico nel contesto temporale della campagna elettorale, a giochi fatti.
C’è un tempo per il dibattito, che serv(irebb)e a pesare le correnti e costruire una linea ponderata sul consenso, ma alla fine tocca compattarsi. Chi è fuori è fuori, ma chi è dentro la smettesse di rompere i coglioni, visto che oltretutto 9/10 lo fa per lavarsi la coscienza e darsi la posa di quello che: “vi voto ma non sono d’accordo”, aka lancio il sasso e nascondo la mano.
Mi permetto tutta questa acredine perché penso di aver fatto parte della categoria.
(4) vedi (3)
(5) so cosa stai pensando: è una percezione. Hai ragione, ne sono convinto anche io, ma cambia poco in termini di risultato.
(6) l’idea che debba essere la destra a salvarci dalla deriva fascista per me è l’unico vero take home message di questo pezzo. Lo preciso perché dubito traspaia.
(7) so cosa stai pensando anche questa volta, o almeno spero. “Con questo atteggiamento continuiamo a tendere a destra”. Eh, hai di nuovo ragione. Io penso però che il problema vero sia la diaspora continua a SX, un meccanismo che non ha mai portato ad altro che alla sopravvivenza politica di individui che evidentemente non ascoltano i Taking Back Sunday.
Paradossalmente, se ad ogni fiato di vento qualcuno se ne va col pallone portandosi via un pezzettino di consenso, al PD non resta che recuperarlo altrove. E altrove c’è gente brutta. Non so, forse se questa cosa de “La Meloni non deve vincere” la sentissero quanto noi, qualcuno ci proverebbe a ricucire gli strappi e far rientrare chi se n’è andato, invece credo che vada a tutti bene così, con la colpa al popolo che come sempre verrà accusato di aver sbagliato a votare.
Poi ci stupiamo se un ragazzino diversamente abile sale su un palco convinto che la responsabilità di divertirsi ad un concerto sia del pubblico.

I vent’anni di un (altro) disco

Scrivere del ventennale dei dischi è una roba che non mi risulta si faccia più. Probabilmente il motivo è che quelli bravi, quelli che hanno incominciato a farlo, hanno esaurito i ventennali che gli interessavano ormai diversi anni orsono.
Vecchi di merda.
Io invece di dischi della vita che fanno vent’anni nel presente ne ho ancora tantissimi.
Un paio di mesi fa è stato il turno di Tell all your friends e avevo anche messo giù 3/4 di pezzo con l’idea di mandarlo a Spento, ma prima che lo finissi Marco mi ha scoopato, come si dice in gergo, e ho desistito dal finire la mia lagna da X-mila battute.
Tempo dopo è stato il turno del S/T dei Box Car Racer. Anche lì avevo pensato di mettermici e dire due robe, ma poi non lo avevo fatto, neanche ricordo perché. Probabilmente sarebbe stato un post con la centomilionesima versione sempre uguale del mio rapporto con Tom Delonge, quindi a conti fatti meglio così. Per tutti.

Due giorni fa però ho scoperto da Twitter essere il ventennale di un altro disco e questa volta non è proprio cosa lasciar correre, per me.
Il disco è questo qui:

Ai The Used io ci sono arrivato da Munnezza, una webzine/forum che ho citato mille volte qui sopra. Erano i primi anni di internet, per me, di conseguenza i primi tempi in cui riuscissi ad uscire dalla mia bolla provinciale per aprirmi ad ascolti nuovi, non necessariamente buoni. Allora avevo l’approccio al mezzo che i boomer hanno avuto negli anni ’80 con la TV e che oggi hanno con Facebook: se è scritto in una recensione online, deve essere vero. Also: chi scrive una recensione online deve essere un* che ne capisce. Solo anni dopo ho realizzato che probabilmente su quella webzine, come su tante altre, scrivessero più che altro ragazzini come me, al massimo più convinti di essere ‘sto cazzo (ma neanche sempre), però sto tergiversando.
Quando ho iniziato a bazzicare quel sito dei The Used si faceva un gran parlare. Era appena uscito il loro secondo disco e il mood generale era che la stagione di tutta quella roba lì fosse ormai finita. Dopo aver tessuto lodi sperticate per grossomodo qualsiasi cosa uscita tra il 2002 e il 2004, nel 2005 era diventato tutto una merda. Il nuovo avanzava, toccava girare pagina.
Io, però, ero come sempre in ritardo.
Andando a memoria, sul sito non c’erano le recensioni dei dischi considerati buoni di questa ondata nu-emocore di inizio millennio, venivano solo citate le band come riferimento in recensioni più recenti e spesso negative. Idem sul forum, dove chiedere dettagli su questa roba era il viatico preferenziale al ricevere insulti.
Alla fine quindi avevo scaricato un po’ di cose e, come probabilmente è giusto che sia, mi ero messo sotto a fare una cernita da solo. Si trattava di scavare in una montagna fumante di letame, lo riconosco, però mentirei se dicessi di non averci cavato un ragno dal buco. Anzi. Chiaramente non ci si poteva aspettare la qualità dei Q and not U, non so bene perché feticcio di moltissimi capiscers dell’epoca, ma se c’è una cosa su cui sono arrivato in anticipo rispetto a Boris e ai successivi meme è che la qualità ha rotto il cazzo, quindi bene così.
Tutto questo per dire che era il 2005, io stavo prendendo il “sole” sdraiato su una “spiaggia” irlandese con alcuni amici ed ero in uno stato di dormiveglia. Avevo probabilmente sentito tutto The Used senza farci un gran caso, mezzo rincoglionito, e di massima era quella situazione in cui il disco viaggia sulla strada buona per farsi dimenticare. Non so se vi capiti mai.
Ci sono dischi che ascolti fin dalla prima volta con attenzione, interessato a farti un’opinione corretta, e altri che invece piazzi in cuffia solo per riempire il silenzio e vedere se ce la fanno a farsi notare, a sconfiggere la nostra indifferenza mista a mancanza di aspettative.
The Used, con me, ce l’ha fatta in zona cesarini.
Pieces Mended è l’ultima traccia del disco e ricordo come fosse ieri che riuscì a destarmi da quel torpore vacanziero e scazzato e farmi di colpo tornare presente all’ascolto del disco. E poi farmelo rimettere da capo.
Negli anni credo di aver ascoltato tanti dischi il cui fulcro sta nella sofferenza, sia questa reale o posticcia, ma ancora oggi il senso di angoscia e disagio che mi trasmette Berth su Poetic Tragedy non ha pari. Non ho idea di cosa parli il pezzo, non mi è mai interessato approfondire. Per me è e rimarrà il lamento di uno che non se la passa bene, da ascoltare quando anche io non me la passo bene. Perché alla fine di questo si parla: emozioni. Stati d’animo che la musica crea in noi, ma anche in cui noi vogliamo immergerci tramite la musica. Almeno per quel che mi riguarda.
Il disco è tutto bellissimo, lo ascolto ancora spesso senza necessità di urlare GUILTY PLEASURE sui social e sentirmi una persona meglio. Ogni volta che parte Say Days Ago testo la capacità dell’impianto/supporto con cui lo sto ascoltando e dei miei timpani, di conseguenza.
Sui social frequento un paio di gruppi revisionisti/revival in cui l’apprezzamento per certa roba è ormai sdoganato e si vive un clima bello di sincerità e non curanza che dovrebbe sempre stare alla base del dibattito musicale. Chi scriveva su Munnezza oggi probabilmente si divide tra il darsi una posa su twitter (no link needed, you know who you are) e bazzicare gli stessi gruppi che bazzico io, ma in incognito. Buon per loro, c’è sempre da venire a patti con la propria autostima e se questo è il modo, bene così.
Io, di mio, ho fatto pace coi miei gusti troppo tempo fa per star dietro alla scena.

The great COVID Test swindle

Lo so, parlare di tamponi COVID è una roba fuori tempo massimo, ma in questi giorni ho scoperto come funzionano davvero e sono rimasto abbastanza folgorato perché, di massima, sono una truffa.
Due premesse:
1) mi riferisco SOLO ai tamponi rapidi fai da te, quelli che in 15′ ti danno un risultato.
2) quello che sto per spiegare è con ogni probabilità già noto a chiunque, ma io l’ho scoperto solo ora perché avendo una formazione scientifica davo per scontato funzionassero in maniera diversa. Diciamo attendibile. Quindi lo scopo qui non è darvi chissà quale rivelazione, ma spiegarvi perché sono un sistema insensato per l’uso che se ne è fatto.

Partiamo dalle basi: come funzionano questi tamponi?
Sono certo che chiunque ne abbia fatto almeno uno nell’ultimo anno, ma facciamo le cose a modino e mettiamo un piccolo sunto.
Si prende il tampone, lo si caccia in ambo le narici, quindi lo si immerge in una soluzione per qualche secondo prima di versare alcune gocce della soluzione stessa sul test. A quel punto la soluzione bagna una membrana e compaiono delle bande: quella di controllo (C) e quella del test vero e proprio (T). Se compaiono entrambe si è positivi, se compare solo C negativi e se non compare nulla il test non è valido e andrebbe rifatto.
Facile e intuitivo.
La domanda che non mi ero mai posto però è: cosa controlla la banda di controllo?

Qui è dove subentra il mio bias scientifico. Per me era indubbio C fosse data da una reazione di controllo con un antigene presente nella mucosa nasale, che per semplicità chiamerò col nome di fantasia CACCOLA. Metti il tampone nel naso e, ravanando, raccogli sicuramente CACCOLA e, se c’è, anche COVID. Quindi quando poi fai il test la banda C verifica che tutto sia andato per il verso giusto: non solo che il test abbia funzionato, ma che tu abbia effettivamente raccolto il campione. La tua mucosa può essere con o senza COVID, ma deve per forza avere CACCOLA.
In questo modo il controllo è un reale controllo sperimentale e il test ha tre risultati netti e chiari:
– Nessuna banda. Devi rifare il test perché o non ha funzionato, oppure non hai raccolto il campione come si deve. In ambo i casi non è possibile determinare un risultato.
– Solo la banda C. Hai fatto le cose per bene, il campione è stato raccolto, ma non contiene antigene COVID. Sei negativo e puoi gioire.
– Doppia banda C+T: ce l’hai nel culo hai fatto le cose per bene e purtroppo sei positivo.
Tutto chiaro?
Perfetto, solo che non funziona così.

Con mio sommo stupore, la banda C in realtà è unicamente correlata al corretto funzionamento della membrana, quel che penso si possa definire un “controllo strumentale”. In pratica ti dice solo che il test non è difettoso e, di conseguenza, compare sempre. Anche se il tampone nel naso non ce lo metti, per dire.
Attenzione però, il mio punto qui non è tirarvi un pippone protogrillino sull’onestah e menate del genere (so di aver scritto truffa ad inizio post, ma era solo per spingervi a leggere), la questione è un’altra. Farsi un tampone nasale in maniera accurata, o anche farlo a terzi, è un’operazione difficile. Il rischio di non essere sufficientemente invasivi è tutt’altro che remoto, al netto della malafede, perché ci si scontra da un lato con il fastidio/dolore e dall’altro con la non competenza nel farlo non essendo stati formati allo scopo.
Di conseguenza un tampone costruito in questa maniera è ok(ish) se ne vincoli l’utilizzo in farmacia o comunque in mano a personale specializzato, perchè il rischio di mancata raccolta del campione scende drasticamente, ma diventa completamente folle se viene messo in mano al pubblico. Perchè è vero che questi tamponi non hanno mai avuto valore legale (passatemi la semplificazione), ma tantissime persone li hanno usati per determinare se, in presenza di sintomi, fosse davvero necessario sentire il medico e farsi un tampone serio. 
Non è un’accusa eh, il tutto è stato gestito proprio per spingere ad un approccio del genere, ma di nuovo al netto della malafede in questo modo abbiamo lavorato contro il contenimento per un sacco di tempo, lasciando che persone ignare di essersi fatte un tampone male andassero in giro convinte di essere sane come pesci.
Anche perchè, non bastasse, sono tamponi molto biricchini in cui la banda del controllo appare quasi immediatamente, mentre quella della positività può impiegare fino a 15′. Quindi in tantissimi casi scommetto che alla comparsa della prima banda sia susseguita un’esultanza unita al lancio del test nel cestino, con buona pace dei 14′ restanti e dell’effettiva validità del risultato.
Ricapitolando, quindi, abbiamo messo in mano alle persone dei tamponi:
– Poco sensibili
– Difficili da interpretare in modo corretto (differenza di tempo nella comparsa delle due bande)
– Privi di un controllo sperimentale interno (il discorso su CACCOLA di cui sopra)
E abbiamo detto loro di usarli come strumento contenitivo della pandemia.
Alla luce di questa cosa, l’ondata di contagi a cavallo tra 2021 e 2022 mi pare pure piccola.

Ultimo paragrafetto un po’ nerdy per chi fosse arrivato fin qui: perchè non hanno fatto i tamponi con un controllo come quello che pensavi tu?
Non posso garantirlo, ma credo sia una questione di costi. Non lavoro nel settore quindi vado preso molto con le pinze in quanto segue, ma è facile ipotizzare che produrre una membrana in cui anche il controllo è relativo ad una reazione antigenica costi probabilmente il doppio. Senza contare i costi di sviluppo e ricerca per arrivare a creare un test di quel tipo. Quindi sarebbe stato probabilmente possibile farli così, ma certamente non sarebbe stato conveniente. Il problema però, a costo di ripetermi, subentra più che altro quando metti in mano lo strumento al pubblico, cosa che è avvenuta ben dopo lo sviluppo della tecnologia.
Quindi, se lo chiedete a me, avrebbe dovuto pensarci la politica ad arginare il problema. Poi certo, andrebbero fatte analisi approfondite di costo-beneficio (ad esempio: senza i test rapidi in casa quanto avremmo incasinato le farmacie e gli ospedali più di quanto non si sia già fatto? Probabilmente tantissimo.), però siamo ad un livello ulteriore di analisi. Forse per contenere quel problema si sarebbe dovuto pensare ad una soluzione diversa dal liberalizzare uno strumento evidentemente incompatibile con l’utilizzo casalingo.
Avremmo potuto fare tante cose meglio, nella gestione di questa pandemia, ma ho l’impressione che in certi casi non ci si sia neanche resi conto di aver sbagliato e questo è uno di quei casi.


Questo post nasce dalla segnalazione di un amico che citerò col nome inventato di Davide, reo di avermi messo di fronte al problema. Grazie Davide, spero un giorno tu esca da questa tua dipendenza da tampone e possa tornare ad una vita felice e spensierata.

It’s not interesting

Mi è capitato un sacco di volte di parlare con persone che misurano la loro passione per la musica con la capacità di associare una canzone ai momenti chiave della loro vita. Di solito rispondo: “Eh anche io sono così…”, ma se vogliamo essere onesti è una mezza cazzata.
Ho anche io avvenimenti o persone importanti che collego a questa o quella canzone, ma il più delle volte a me la musica inchioda in testa momenti onestamente insignificanti che diventano ricordi per via della musica e non viceversa.
Non conosco tante persone che ricordino il momento esatto in cui hanno sentito il loro disco preferito per la prima volta. Io sì. Ero su un treno, vagone cuccetta, e stavo andando in Sicilia per il matrimonio di un cugino che ho visto 4 volte in quarant’anni. Non ricordo nient’altro di quel viaggio in treno, ma il momento in cui mi sono sdraiato e l’ho fatto partire dal lettore MP3 è cristallino.
Oppure possiamo parlare della pandemia, due anni di vita che per me non sono esistiti. È una fortuna, probabilmente, visto che chi ha ricordi del biennio 2020-2021 è perché ha perso qualcuno. Io è come fossi stato in coma, forzato a rivivere 600 e passa giorni indistinguibili tra loro, ancora e ancora. Eppure, se ricorderò un singolo momento emblematico di questa parentesi per via della musica, non sarà quando è iniziata o quando è finita, né il momento in cui le persone a me care si sono vaccinate facendomi finalmente tirare il fiato. Non ricorderò neanche le estenuanti convivenze forzate.
Ripensando al COVID mi verrà in mente il momento in cui ho dovuto accostare perché Forever and a day suonava così forte e io urlavo così forte, che mi son ritrovato a piangere dietro al volante. Non so dire che giorno fosse o dove stessi andando, ma quel crollo emotivo è un’immagine indelebile, associata ad una canzone che avevo ascoltato chissà quante volte nei venticinque (!!) anni precedenti, ma che da quel momento ha tutto un altro peso, tanto che, ancora adesso, se la metto in cuffia mi monta il magone.
Esempi da fare ne avrei una camionata, da quella volta in cui è partita Don’t drive angry mentre ero compresso in metropolitana e per qualche minuto sono stato bene sentendomi una vagonata di gente addosso oppure quando mi sono ritrovato a cantarmi in testa Ridere di te mentre nuotavo in piscina, ininterrottamente, vasca dopo vasca. Ero in terza elementare e ce l’ho chiaro come fosse successo ieri, eppure era un giorno qualsiasi del corso di nuoto che ho fatto per, boh, sette anni due volte a settimana?
Pur sforzandomi di pensarci non saprei associare una canzone alla nascita dei miei figli, ma ricordo alla perfezione quella mattina di prima liceo in cui, sottissimo per Molly4Deejay, ho fatto sentire a Peich gli Stunned Guys.
Non credo di essere l’unico con questo tipi di mindset, ma non è qualcosa di cui la gente tende a vantarsi quando parla di sé, quindi boh.

Da un po’ di giorni sono finito dentro ai dischi degli Spanish Love Songs e mi ci sono impantanato. Scrivendone sui social dicevo che tutto sommato sono dischi non particolarmente interessanti, sul piano musicale. Non so perché io debba ancora stare dietro al giustificare i miei gusti, come se intorno a me gente titolatissima non passasse il tempo a spingere, legittimamente, la peggio merda o, soprattutto, come se davvero il fatto che io passi il tempo a spingere roba non ritenuta “universalmente” valida fosse in qualche misura un problema per l’universo che mi vive intorno.
Che poi non è che possa illudermi questo sia un approccio mentale che mi contraddistingue solo quando parlo di dischi.
Passo ampia parte delle mie giornate in un ambiente virtuale che tratta la verità come fosse un Rolex: sei contento di possederla, poterla ostentare ti fa sentire meglio degli altri e, tutto sommato, preferisci rimanga una cosa per pochi così da continuare a sentirti speciale nell’averla tu. Che poi andandoci a guardare in molti casi si rivelino dei grossi fake è irrilevante, tanto chi li sfoggia o lo sa e dissimula, oppure è talmente fiero del proprio status da non accorgersene neanche. Esattamente come succede coi Rolex.
Io invece tendo a giustificarmi sempre, sa il cazzo perché. Non sono davvero convinto sia necessario, probabilmente, eppure forse ho paura qualcuno possa prendere le robe che dico come io spesso prendo le robe dette da altri, per buone. Il mio problema non è realizzare di non contare un cazzo per nessuno fuori da quelle dieci persone mal contante per cui davvero farebbe differenza non avermi intorno (che poi di massima sono le persone che farebbe differenza per me non avere vicine), il mio problema è venire a patti con lo smettere di cercare nel resto della popolazione mondiale persone a mia immagine e somiglianza, fino a derubricare finalmente il prossimo come qualcosa di tutto sommato irrilevante.
Non lo so.
Forse il mio problema con le bolle non è solo il fatto che siano spesso degli agglomerati acritici fatti per fare gruppo/branco, ma che proprio per quello io non creda di poterne davvero avere una in cui sentirmi così e, di massima, nella mia bolla finisca col sentirmi ancora più solo.
Fa abbastanza ridere perché se chiedete ai miei amici probabilmente mi descriverebbero come una persona socievole e non è che siano stronzi loro, è che sono quarant’anni che lavoro per dare questa immagine di me.
Tempo fa twittavo questa cosa:

Oltre al fatto che ovviamente ricordo nel dettaglio il pezzo che avevo in cuffia in coda al Gigante mentre la scrivevo, è forse la roba più vera che possa dire di me stesso. Ci vuole un certo impegno ad essere quel tipo di persona e sbattersi 24/7 per una vita nel tentativo di non darlo troppo a vedere.
Ma sai cosa? Ho fatto un buon lavoro. Vaffanculo.
Ho solo bisogno di prendermi qualche momento in cui faccio il punto, in cui mi metto nelle orecchie qualcosa che mi aiuti. A volte a stare bene, altre volte a stare male, di massima a venirne fuori meglio di come ci sono entrato.

I’m trying to be fine
I swear I’m trying to be my best

Non so se ricorderò questo momento, non ho ancora capito come funzioni la mia testa sufficientemente bene da poterlo prevedere, ma se questo inizio di 2022 troverà uno spazio tra le mie sinapsi sarà probabilmente collegato alla musica degli Spanish Love Songs. Un gruppo per nulla rilevante che ha stampato il suo miglior disco solo in vinile, ma che nonostante questo mi ha aiutato a mettere un po’ tutto in prospettiva ancora una volta e fino alla prossima.
Il titolo del post è quello di un pezzo del disco, direi che ci sta.


Ultimamente mi è capitato di scrivere un paio di cose per Spento, un blog di musica figo in cui sono iper fiero di aver trovato un piccolo spazio (ref1, ref2). 
L’idea era di mandargli anche questo pezzo qui, ma prima di spedirlo mi son preso la briga di controllare e degli Spanish Love Song avevano già scritto ampiamente senza bisogno di me, come giusto che sia visto che si parla di roba uscita mille anni fa. C’è un pezzo su Brave faces, everyone e uno su Schmalz, che poi è il disco di cui credo di aver scritto io. 
Forse è meglio così, che mi sa che ho un filo sbragato ‘sto giro.

Salta al prossimo post, che non ne vale la pena

Non l’ho mai presa secca in casa da solo.
A vent’anni bevevo merda in giro con gli amici, quando la prendevo era perché qualcosa sballava l’equazione che avevo messo a punto introducendo variabili che non ero in grado di gestire real time. È il problema di tutti i giovani che la prendono, serve a fare esperienza.
Dai trenta* prenderla è diventata una sorta di gag, qualcosa che in un modo o nell’altro ti aspetti prima di uscire di casa. Non arrivo a dire “L’obbiettivo della serata”, ma di certo non siamo piú dalle parti dell’incidente di percorso. È un po’ come Joseph “Joe” Hallenbeck vede l’adulterio, di massima. Non esiste una versione colposa.
A quaranta pensi di averle viste tutte e invece ti ritrovi quasi per caso a fare mente locale e provare un’esperienza nuova: prenderla secca a casa, mentre con la mano destra lavori a delle slide che dovrai comunque rivedere domani e con la sinistra ti versi un whiskey giusto per mandare giù l’ennesima giornata complicata.
Ok, siamo d’accordo sul fatto che se l’avessi davvero presa secca non sarei qui a scrivere sul blog, ma cercate di vedere il mio bluff: prenderla secca oggi per me è più che altro bere più di quanto il contesto giustifichi, che poi di massima è quel che fanno le persone che hanno un problema con il bere. Credo.
Bersi una bottiglia di vino durante una cena da diverse portate con altre persone che hanno tutte bevuto la loro bottiglia di vino, per me, è safe. Bersi una birretta dissetante tornato a casa dal lavoro nel caldo di Luglio, anche. Bersi una bottiglia di vino per togliersi la sete prima di cena credo si possa definire “problematico”.
Io tendo a non bere fuori dagli “eventi”.
In casa mia apriamo bottiglie di vino solo se c’è gente o se nel fine settimana cuciniamo qualcosa che meriti di essere valorizzato, per dire. Sia io che mia moglie abbiamo un background da residenti in Germania, quindi se c’è birra in frigo tendiamo a berla: il nostro consumo a pasto va per il litro totale, 3 bottiglie da 33cl in due**, e non è ovviamente la routine (marzo 2020 a parte), in circostanze normali direi che si parla di un paio di volte a settimana.
Non è prenderla, spero siate d’accordo.
Ogni tanto poi nel post cena mi verso un superalcolico: whiskey o rhum. Un cocktail quando fa caldo e punto a dissetarmi. Una bottiglia buona di quella roba di norma mi dura un paio di anni e il grosso se lo tirano comunque le merde dei miei amici*** quando vengono a cena.
Il punto di sta premessa infinita quindi non è vendere un Manq clean and sober, ma dare un contesto definito dei miei standard e da lì spiegare perché questa sera sia successa una roba strana.
Vuoi l’essere grossomodo malato da inizio anno, vuoi il fatto che io e mia moglie si viva sull’orlo di una crisi di nervi, oppure vuoi per via dei sensi di colpa verso figli che si trovano di botto in un ambiente molto meno sereno di quello a cui li avevamo abituati (con conseguente cambiamento nel loro carattere), oggi sono finito a tirarmi tre whiskey chiacchierando con mia moglie****. O meglio, sfogandomi con lei come le persone equilibrate e intelligenti fanno con un analista.
Forse quello che stiamo vivendo è l’ultimo quadro del survival game che la nostra vita familiare è diventata da Wuhan in poi. Ci speriamo molto, ma più che altro credo ci sarebbe oltremodo complicato gestire nuovi livelli che al momento non ci aspettiamo esistano.
L’ho presa secca anche per quello, forse, oggi.
Per paura dell’ignoto.
Data astrale 15/2/22: l’ho presa secca a casa e spero davvero non ci sia ragione perché succeda di nuovo in futuro.


*cifra completamente random che vuole rappresentare la maturità consapevole

**se c’è una cosa, una singola cosa del mio rapporto matrimoniale che mi mette voglia di urlare è quando chiedo a Paola: “Ti va una birra?” e lei mi risponde: “Metà.”. Ci impazzisco.

***non giudicateli male, io faccio uguale a casa loro.

****quello che è stata capace di gestire mia moglie in questo inizio di 2022 tra lavoro, figli e gestione della casa/famiglia mentre non potevo darle una mano è inspiegabile. Non mi stupisce ne sia in grado, come sempre mi stupisce piuttosto la fortuna che ho nell’averla nella mia vita.

Sul greenwashing magari andiamo oltre Cosmo

Ieri sera sul palco più importante d’Italia Cosmo se n’è uscito con lo slogan “Stop greenwashing”, raccogliendo il puntuale abbraccio virtuale delle forze del bene in tutta la giornata di oggi.
La cosa facile per parlare della questione sarebbe scrivere un pezzo di quelli che scrive la Soncini (forse lo ha fatto davvero anche sull’argomento, non mi interessa verificare), che della crociata contro la sicumera di quelli che vengono definiti Social Justice Warriors ha fatto una professione. Nello specifico mi darebbe anche gusto, forse, ma è una roba che detesto e vorrei evitare. Voglio provare invece ad analizzare la situazione, perché la sto vivendo dall’interno e credo meriti un’analisi un filo più complessa di uno slogan.
Partiamo dal principio: cos’è il greenwashing? Di massima è il tentativo di sbandierare politiche green da parte di persone, politici e aziende che non ci credono davvero, ma che lo fanno come mossa di marketing per cavalcare una moda e il relativo consenso.
Una roba ipocrita, che spesso arriva da entità che hanno una responsabilità concreta sul piano dell’inquinamento e che quindi comprendo benissimo faccia incazzare, di pancia, ma le reazioni di pancia non sono note per essere le più centrate e certamente questa non fa eccezione.
Il punto chiave è che la società in cui viviamo è portata a selezionare il profitto sui valori e, spoiler allert, purtroppo non usciremo tanto in fretta da questo modello. Di conseguenza, ho paura che l’opzione migliore che ci rimanga sia quella di approfittare dei rari casi in cui i valori generano profitto e cavarci fuori il meglio, come il proverbiale sangue dalle rape.
Io lavoro per la filiale italiana di una multinazionale americana. Non mi interessa crediate al fatto che, da dentro, la reputi “il migliore degli inferni possibili” nel settore, se si parla di ecologia resta comunque una realtà con delle responsabilità.
Non mi interessa neanche vendervi un’idea di me come accanito sostenitore delle politiche green perché non lo sono.
Il punto però è che quest’anno sono riuscito a farmi approvare un investimento di alcune migliaia di euro per sostenere progetti di recupero delle foreste pluviali nel terzo mondo e il motivo per cui la mia azienda non mi ha mandato affanculo è che su questa cosa può fare comunicazione, marketing, e avere un ritorno di immagine. Questo non vuole necessariamente dire che io, il mio capo o il CEO global non si creda nel valore etico e sociale del progetto, così come ovviamente non basta per sostenere sia un’operazione genuina. Su quello ognuno può farsi l’opinione che crede*, ma certamente se anche tutti i citati fossero ultras della politica green non si sarebbe mosso un euro se questa iniziativa avesse potuto nuocere all’immagine dell’azienda o al suo fatturato.
Quello che conta, alla fin della fiera, è che quei soldi:
– io non avrei mai potuto devolverli all’ambiente di tasca mia.
– la mia azienda non era in alcun modo tenuta ad investirli nelle politiche verdi.
Eppure la donazione è stata fatta.
A volerla vedere come una sconfitta ci vuole parecchia malafede, secondo me. Mi tocca spiegarlo ad un cliente su tre però, quando mi spara la sua versione diplomatica del: “Lo fate solo per darvi una posa”.
Nel 2022 è complicato ricordarsi che la politica la fanno i governi e non le corporation, ma per il momento è ancora così. È la politica che dovrebbe lavorare per non relegare l’ecologia delle multinazionali al reparto marketing, fino a che questo non succederà** tutto ciò che questi colossi faranno in questa direzione è grasso che cola, che lo facciano per immagine, per vocazione o per detrarlo dalle tasse. Non è qualcosa che possiamo controllare.
La riflessione però non finisce qui.
Parlando su twitter con un paio di persone e leggendo i commenti di altri mi sono ritrovato a chiedermi cosa faccia davvero incazzare i sopracitati SJW del greenwashing e la risposta che mi sono dato è “la frustrazione”.
Come dicevo, è complicato credere in una causa che si ritiene giusta e rendersi conto di non contare grossomodo un cazzo nella determinazione dell’esito finale della battaglia. Spiego con un esempio: Lufthansa ha dichiarato di dover far volare 18K aerei vuoti quest’inverno essenzialmente per questioni risibili (ref.). Ogni ora, uno di questi aerei produce la CO2 che una persona produrrebbe in un anno, quindi diventa abbastanza semplice (se non si è lobotomizzati) mettere in scala il peso specifico del nostro sciampo solido e delle maledette cannucce di carta.
Il punto quindi diventa il fatto che chi combatte queste battaglie spesso (direi sempre, ma non mi va di essere assoluto nonostante ci sia di mezzo la natura biologica della nostra specie) lo fa anche per il piacere di tirare la riga tra i buoni ed i cattivi, posizionarsi tra i primi e antagonizzare i secondi. Noi crediamo nelle politiche ecologiche, le multinazionali sono la causa del problema. Easy peasy.
Se però quelle stesse multinazionali possono decidere di avere un impatto positivo sulla questione che io da privato cittadino non avrò mai la possibilità di esercitare, quella riga si sposta o comunque diventa meno netta. Siccome poi in uno scenario senza cattivi è complicato essere i buoni, nessuna redenzione ci sembra possibile, nessun aiuto dal nemico ci risulta ben accetto e trasformiamo il trend delle multinazionali che investono nel green in un ulteriore capo d’accusa sul loro conto.
È un comportamento umano che comprendo e da cui non sono esente, in altri ambiti (ad esempio l’inclusivismo coatto di hollywood, anche se credo siano analisi non sovrapponibili***), ma che razionalmente mi sembra figlio del nostro ego più di quanto sia delle cause per cui ci spendiamo.
Cause che, di massima, superata l’autogestione è difficile ridurre a slogan senza passare per superficiali.


* a margine ci si può fare l’opinione che si crede anche di uno che grida uno slogan sul palco, se si è proni a fare un processo alle intenzioni.

** vedo arrivare l’obbiezione: “Eh, ma le multinazionali controllano la politica, quindi non succederà mai! Da un lato lavorano per restare libere di fare come cazzo gli pare e dall’altro ci sbattono in faccia questo impegno d’accatto…”. Vero. O meglio, plausibilissimo. Se questa è la realtà peró, ha ancora meno senso rompere il cazzo su quel poco che fanno. È legittimo sentirsi presi per il culo e avercela a male, ma chiedergli di smetterla è remare nella direzione opposta.

*** grazie al cazzo, pensassi che è la stessa cosa non avrei opinioni opposte nei due frangenti.

Il 2021 di Manq

Allora, com’è stato alla fine questo 2021, arrivato coi favori del pronostico con lo scopo di tirarci fuori dal mai sufficientemente vituperato 2020?
Probabilmente sotto le aspettive un po’ per tutti, ma non ne farei un demerito particolare. Di massima ha sofferto dello stesso hype nocivo che buttiamo addosso ai fine settimana da tutta una vita. Chiamati a redimere cinque infiniti giorni di routine lavorativa, immancabilmente si concludono lasciandoci già intenti a proiettare la favola sul weekend successivo, come peraltro già teorizzato dal Profeta della mia generazione.
Andandoci a guardare dentro però, questo 2021 è stato un anno che si può definire buono, per chi scrive. Il COVID è rimasto dov’era, ma chi ha voluto ha potuto usufruire di strumenti indispensabili a conviverci meglio e abbassare l’ansia che ormai portavamo a braccetto da troppo tempo. Si è tornati a stare insieme, ad uscire di casa e per quanto mi riguarda soprattutto a viaggiare, che come sa bene chi mi conosce è grossomodo l’unico motivo oltre il sostentamento che mi porti ad alzarmi dal letto la mattina per andare al lavoro.
Purtroppo, per una serie sempre diversa di circostanze di cui spesso sono il primo responsabile, anche il 2021 si è chiuso senza un concerto in presenza. Nei primi mesi dell’anno ne ho visti diversi in streaming, ma era una roba che potevo aspettarmi non sarebbe durata, mentre tutta la fase dei live distanziati e seduti l’ho proprio evitata per repulsione, pur sapendo sarebbe stato importante partecipare oltre il mio effettivo piacere personale. È una cosa che mi rimprovero, ma che in sincerità probabilmente rifarei pari pari dovesse, dio non voglia, ricapitare.
Il 2021 ha dimostrato inequivocabilmente che non ne siamo usciti migliori e a voler essere pignoli che non ne siamo usciti affatto, ma riconosco che il mio livello di imbruttimento stia pian piano migliorando, a piccoli passi, quindi bene così. Probabilmente i “quaranta in quarantena” sono un mix letale per l’umore e la stabilità mentale di chiunque, ma tutto sommato ho tenuto botta. Dormo quasi sempre, sono un po’ meno apatico e ho ripreso a fare piani per il futuro (che poi stringi stringi sempre ai viaggi si torna).
Forse mi ha aiutato anche mettermi in gioco in due cose che da quindici anni almeno, non esagero, davo per rimpianti definitivi in quanto “troppo vecchio per queste stronzate”. La prima è il brevetto PADI, che senza la spintarella di mia moglie non avrei probabilmente mai preso, la seconda è salire su uno skate e provare a non uccidermici, ma anche a vivermela senza sentirmi uno in piena crisi di mezza età. Ho elaborato questa forma mentis per cui non sia importante sentirmi ancora giovane, so di non esserlo, ma smetterla di pensare che questo precluda per forza delle esperienze che mi va di vivere. Magari è così, magari no, ma l’importante è capirlo provandoci invece di farcisi dei film sopra e tenersi il rimpianto. Anche nelle piccole cose.
Va beh, non voglio finire a fare un post che potrebbe scrivere il mental coach di Bonucci, fermiamoci qui.
Non ho manco ascoltato abbastanza dischi da fare una classifica di fine anno, quello che è indubbiamente il disco del mio 2021 è uscito nel 2006 e ci sono arrivato con 15 anni di ritardo (ma è una storia che dovrebbe uscire su Spento in questi giorni, quindi non faccio spoiler). Però credo che il disco più bello di quest’anno, uscito effettivamente quest’anno, sia quello dei Deafheaven, nonostante tutti i motivi che avrei per odiarlo: dal suo essere essenzialmente una trollata gigante, al suo avere 9 tracce in totale, ma con l’unica strumentale non esattamente a metà nella tracklist. Però è proprio bello, quindi in qualche modo glielo si perdona.

Bon, direi che possiamo chiuderla qui e rimandarci a cosa porterà il 2022. Vedo tutti intenti a sperare nel meglio, io firmerei perché andasse uguale.